Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Daniello Ricciarelli da Volterra

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Daniello Ricciarelli da Volterra

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Francesco detto de' Salviati Taddeo Zucchero

[p. 646 modifica] VITA DI DANIELLO RICCIARELLI DA VOLTERRA PITTORE E SCULTORE


vendo Daniello quando era giovanetto imparato alquanto a disegnare da Giovanni Antonio Soddoma, il quale andò a fare in quel tempo alcuni lavori in quella città, partito che si fu, fece esso Daniello molto migliore e maggiore acquisto sotto Baldassarre Peruzzi che sotto la disciplina di esso Soddoma fatto non aveva. Ma per vero dire, con tutto ciò, non fece per allora gran riuscita, e questo perciò che quanto metteva fatica e studio, spinto da una gran voglia in cercando d’apparare, altre tanto all’incontro il serviva poco l’ingegno e la mano. Onde nelle sue prime opere che fece in Volterra si conosce una grandissima, anzi infinita fatica, ma non già principio di bella e [p. 647 modifica]gran maniera, né vaghezza, né grazia, né invenzione, come si è veduto a buon’ora in molti altri che sono nati per essere dipintori, i quali hanno mostro anco ne’ primi principii, facilità, fierezza e saggio di qualche buona maniera. Anzi le prime cose di costui mostrano essere state fatte veramente da un malinconico, essendo piene di stento e condotte con molta pazienza e lunghezza di tempo. Ma venendo alle sue opere, per lasciar quelle delle quali non è da far conto, fece nella sua giovanezza in Volterra a fresco la facciata di Messer Mario Maffei, di chiaro scuro, che gli diede buon nome e gli acquistò molto credito. La quale, poi che ebbe finita, vedendo non aver quivi concorrenza che lo spignesse a cercare di salire a miglior grada e non essere in quella città opere, né antiche, né moderne, dalle quali potesse molto imparare, si risolvette di andare per ogni modo a Roma, dove intendeva che allora non erano molti che attendessero alla pittura, da Perino del Vaga in fuori. Ma prima che partisse, andò pensando di voler portare alcun’opera finita che lo facesse conoscere, e così, avendo fatto in una tela un Cristo a olio battuto alla colonna con molte figure, e messovi in farlo tutta quella diligenza che è possibile, servendosi di modelli e ritratti dal vivo, lo portò seco. E giunto in Roma, non vi fu stato molto, che per mezzo d’amici mostrò al cardinale Triulzi quella pittura, la quale in modo gli sodisfece, che non pure la comperò, ma pose grandissima affezzione a Daniello, mandandolo poco appresso a lavorare dove avea fatto fuor di Roma a un suo casale detto Salone un grandissimo casamento, il quale faceva adornare di fontane, stucchi e pitture e dove apunto allora lavoravano Gianmaria da Milano et altri alcune stanze di stucchi e grottesche. Qui dunque giunto Daniello, sì per la concorrenza e sì per servire quel signore, dal quale poteva molto onore et utile sperare, dipinse in compagnia di coloro diverse cose in molte stanze e logge, e particolarmente vi fece molte grottesche piene di varie feminette, ma sopra tutto riuscì molto bella una storia di Fetonte fatta a fresco di figure grandi quanto il naturale et un fiume grandissimo che vi fece, il quale è una molto buona figura. Le quali tutte opere, andando spesso il detto cardinale a vedere e menando seco or uno or altro cardinale, furono cagione che Daniello facesse con molti di loro servitù et amicizia. Dopo, avendo Perino del Vaga, il quale allora faceva alla Trinità la capella di Messer Agnolo de’ Massimi, bisogno d’un giovane che gl’aiutasse, Daniello, che disiderava di acquistare, tirato dalle promesse di colui, andò a star seco e gl’aiutò fare nell’opera di quella capella alcune cose, le quali condusse con molta diligenza a fine. Avendo fatto Perino inanzi al Sacco di Roma, come s’è detto, alla capella del Crucifisso di San Marcello, nella volta la creazione di Adamo et Eva grandi quanto il vivo, e molto maggiori due Evangelisti, cioè San Giovanni e San Marco, et anco non finiti del tutto perché la figura del San Giovanni mancava dal mezzo in su, gl’uomini di quella Compagnia si risolverono, quando poi furono quietate le cose di Roma, che il medesimo Perino finisse quell’opera. Ma avendo altro che fare, fattone i cartoni la fece finire a Daniello, il quale finì il San Giovanni lasciato imperfetto; fece del tutto gl’altri due Evangelisti, San Luca e San Matteo, nel mezzo due putti che tengono un candelieri, e nell’arco della faccia che mette in mezzo la finestra [p. 648 modifica]due Angeli, che volando e stando sospesi in su l’ale, tengono in mano misterii della Passione di Gesù Cristo; e l’arco adornò riccamente di grottesche e molte belle figurine ignude, et insomma si portò in tutta questa opera bene oltre modo, ancor che vi mettesse assai tempo. Dopo, avendo il medesimo Perino dato a fare a Daniello un fregio nella sala del palazzo di Messer Agnolo Massimi con molti partimenti di stucco et altri ornamenti e storie de’ fatti di Fabio Massimo, si portò tanto bene che veggendo quell’opera la signora Elena Orsina et udendo molto lodare la virtù di Daniello, gli diede a fare una sua capella nella chiesa della Trinità di Roma, in su ’l monte dove stanno i frati di San Francesco di Paula, onde Daniello mettendo ogni sforzo e diligenza per fare un’opera rara la quale il facesse conoscere per eccellente pittore, non si curò mettervi le fatiche di molti anni. Dal nome dunque di quella signora, dandosi alla capella il titolo della croce di Cristo Nostro Salvatore, si tolse il suggetto de’ fatti di S. Elena. E così nella tavola principale, facendo Daniello Gesù Cristo che è deposto di croce da Gioseffo e Nicodemo et altri Discepoli, lo svenimento di Maria Vergine sostenuta sopra le braccia da Madalena et altre Marie, mostrò grandissimo giudizio e di esser raro uomo, perciò che, oltre al componimento delle figure che è molto ricco, il Cristo è ottima figura et un bellissimo scorto, venendo coi piedi inanzi e col resto in dietro. Sono similmente belli e difficili scorti e figure quelli di coloro che avendolo sconfitto, lo reggono con le fascie stando sopra certe scale e mostrando in alcune parti l’ignudo fatto con molta grazia. Intorno poi a questa tavola fece un bellissimo e vario ornamento di stucchi pieno d’intagli, e con due figure che sostengono con la testa il frontone, mentre con una mano tengono il capitello e con l’altra cercano mettere la colonna che lo regga, la quale è posta da piè in sulla basa sotto il capitello, la quale opera è fatta con incredibile diligenza. Nell’arco sopra la tavola dipinse a fresco due sibille, che sono le migliori figure di tutta quell’opera, le quali sibille mettono in mezzo la finestra che è sopra il mezzo di detta tavola e dà lume a tutta la capella, la cui volta è divisa in quattro parti con bizzarro, vario e bello spartimento di stucchi e grottesche, fatte con nuove fantasie di maschere e festoni, dentro ai quali sono quattro storie della Croce e di Santa Elena madre di Gostantino. Nella prima è quando avanti la Passione del Salvatore sono fabricate tre croci; nella seconda quando Santa Elena comanda ad alcuni Ebrei che le insegnino le dette croci; nella terza quando, non volendo essi insegnarle, ella fa mettere in un pozzo colui che le sapeva, e nella quarta quando colui insegna il luogo dove tutte e tre erano sotterrate; le quali quattro storie sono belle oltre ogni credenza e condotte con molto studio. Nelle facce dalle bande sono altre quattro storie, cioè due per faccia, e ciascuna è divisa dalla cornice che fa l’imposta dell’arco sopra cui posa la crocera della volta di detta capella: in una è Santa Elena che fa cavare d’un pozzo la Croce santa e l’altre due, e nella seconda quando quella del Salvatore sana un infermo. Ne’ quadri di sotto a man ritta, la detta Santa quella di Cristo riconosce nel risuscitare un morto sopra cui è posta, nell’ignudo del quale morto mise Daniello incredibile studio per ritrovare i muscoli e rettamente tutte le parti dell’uomo. Il che fece ancora in coloro che gli [p. 649 modifica]mettono addosso la croce e nei circonstanti che stanno tutti stupidi a veder quel miracolo; et oltre ciò è fatto con molta diligenza un bizzarro cataletto con una ossatura di morto che l’abbraccia, condotto con bella invenzione e molta fatica. Nell’altro quadro, che a questo è dirimpetto, dipinse Eraclio imperadore, il quale scalzo, a piedi et in camicia messe la Croce di Cristo nella porta di Roma, dove sono femine, uomini e putti ginocchioni che l’adorano, molti suoi baroni et uno staffiere che gli tiene il cavallo. Sotto per basamento sono per ciascuna due femine di chiaro scuro e fatte di marmo, molto belle, le quali mostrano di reggere dette storie, e sotto l’arco primo della parte dinanzi fece nel piano per lo ritto due figure grandi quanto il vivo: un San Francesco di Paula, capo di quell’ordine che uffizia la detta chiesa, et un San Ieronimo vestito da cardinale, che sono due bonissime figure, sì come anche sono quelle di tutta l’opera, la quale condusse Daniello in sette anni e con fatiche e studio inestimabile. Ma perché le pitture che son fatte per questa via hanno sempre del duro e del difficile, manca quest’opera d’una certa leggiadra facilità che suole molto dilettare. Onde Daniello stesso, confessando la fatica che aveva durata in quest’opera e temendo di quello che gl’avenne e di non essere biasimato, fece per suo capriccio e quasi per sua defensione sotto i piedi di detti due Santi due storiette di stucco di basso rilievo, nelle quali volle mostrare che essendo suoi amici Michelagnolo Buonarroti e fra’ Bastiano del Piombo (l’opere de’ quali andava imitando, et osservando i precetti), se bene faceva adagio e con istento, nondimeno il suo imitare quei due uomini poteva bastare a difenderlo dai morsi degl’invidiosi e maligni, la mala natura de’ quali è forza, ancor che loro non paia, che si scuopra. In una, dico, di queste storiette fece molte figure di satiri, che a una stadera pesano gambe, braccia et altre membra di figure, per ridurre al netto quelle che sono a giusto peso e stanno bene e per dare le cattive a Michelagnolo e fra’ Bastiano che le vanno conferendo; nell’altra è Michelagnolo che si guarda in uno specchio, di che il significato è chiarissimo. Fece similmente in due angoli dell’arco dalla banda di fuori due ignudi di chiaro scuro, che sono della medesima bontà che sono l’altre figure di quell’opera; la quale scoperta che fu dopo sì lungo tempo, fu molto lodata e tenuta lavoro bellissimo e difficile et il suo maestro eccellentissimo. Dopo questa capella gli fece, Alessandro cardinale Farnese in una stanza del suo palazzo, cioè in sul cantone, sotto uno di que’ palchi ricchissimi fatti con ordine di maestro Antonio da San Gallo, a tre cameroni che sono in fila, fare un fregio di pittura bellissimo con una storia di figure per ogni faccia, che furono un trionfo di Bacco bellissimo, una caccia et altre simili che molto sodisfecero a quel cardinale, il quale, oltre ciò, gli fece fare in più luoghi di quel fregio un liocorno in diversi modi in grembo a una vergine, che è l’impresa di quella illustrissima famiglia. La quale opera fu cagione che quel signore, il quale è sempre stato amatore di tutti gl’uomini rari e virtuosi, lo favorisse sempre; e più arebbe fatto se Daniello non fusse stato così lungo nel suo operare. Ma di questo non aveva colpa Daniello poiché sì fatta era la sua natura et ingegno, et egli più tosto si contentava di fare poco e bene, che assai e non così bene. Adunque, oltre all’affezione che gli portava il cardinale, lo favorì di maniera il signor [p. 650 modifica]Annibale Caro appresso i suoi signori Farnesi, che sempre l’aiutarono. Et a madama Margarita d’Austria, figliuola di Carlo Quinto, nel palazzo de’ Medici a Navona, dello scrittoio del quale si è favellato nella vita dell’Indaco, in otto vani dipinse otto storiette de’ fatti et opere illustri di detto Carlo Quinto imperatore con tanta diligenza e bontà, che per simile cosa non si può quasi fare meglio. Essendo poi l’anno 1547 morto Perino del Vaga et avendo lasciata imperfetta la sala dei re, che, come si è detto, è nel palazzo del papa dinanzi alla capella di Sisto et alla Paulina, per mezzo di molti amici e signori e particolarmente di Michelagnolo Buonarroti fu da papa Paolo Terzo messo in suo luogo Daniello, con la medesima provisione che aveva Perino, et ordinatogli che desse principio agl’ornamenti delle facciate che s’avevano a fare di stucchi con molti ignudi tutti tondi sopra certi frontoni. E perché quella sala rompeno sei porte grandi di mischio, tre per banda, et una sola facciata rimane intera, fece Daniello sopra ogni porta quasi un tabernacolo di stucco bellissimo, in ciascuno de’ quali disegnava fare di pittura uno di quei re che hanno difesa la chiesa apostolica, e seguitare nelle facciate istorie di que’ re che con tributi o vittorie hanno beneficato la chiesa, onde in tutto venivano a essere sei storie e sei nicchie. Dopo le quali nicchie, o vero tabernacoli, fece Daniello con l’aiuto di molti tutto l’altro ornamento ricchissimo di stucchi che in quella sala si vede, studiando in un medesimo tempo i cartoni di quello che aveva disegnato far in quel luogo di pittura. Il che fatto, diede principio a una delle storie, ma non ne dipinse più che due braccia in circa e due di que’ re ne’ tabernacoli di stucco sopra le porte, perché, ancor che fusse sollecitato dal cardinale Farnese e dal Papa, senza pensare che la morte suole spesse volte guastare molti disegni, mandò l’opera tanto in lungo, che quando sopravenne la morte del Papa, l’anno 1549, non era fatto se non quello che è detto; per che, avendosi a fare nella sala che era piena di palchi e legnami il conclave, fu necessario gettare ogni cosa per terra e scoprire l’opera. La quale essendo veduta da ognuno, l’opere di stucco furono, sì come meritavano, infinitamente lodate, ma non già tanto i due re di pittura, perciò che pareva che in bontà non corrispondesseno all’opera della Trinità e che egli avesse, con tanta commodità e stipendii onorati, più tosto dato a dietro che acquistato. Essendo poi creato pontefice l’anno 1550 Giulio Terzo, si fece inanzi Daniello con amici e con favori per avere la medesima provisione e seguitare l’opera di quella sala, ma il Papa, non vi avendo volto l’animo, diede sempre passata, anzi mandato per Giorgio Vasari, che aveva seco avuto servitù insino quando esso pontefice era arcivescovo Sipontino, si serviva di lui in tutte le cose del disegno. Ma nondimeno avendo Sua Santità deliberato fare una fontana in testa al corridore di Belvedere e non piacendogli un disegno di Michelagnolo, nel quale era un Moisè che percotendo la pietra ne faceva uscire acqua, per esser cosa che non potea condursi se non con lunghezza di tempo, volendolo Michelagnolo far di marmo, ma il consiglio di Giorgio, il quale fu che la Cleopatra figura divina e stata fatta da’ Greci si accommodasse in quel luogo, ne fu dato, per mezzo del Buonarroto, cura a Daniello, con ordine che in detto luogo facesse di stucchi una grotta dentro la quale fusse la detta [p. 651 modifica]Cleopatra collocata. Daniello dunque, avendovi messo mano, ancor che fusse molto sollecitato lavorò con tanta lentezza in quell’opera, finì la stanza sola di stucchi e di pitture, ma molte altre cose che ’l Papa voleva fare vedendo andare più allungo che non pensava, che uscitone la voglia al Papa non fu altrimenti finita, ma si rimase in quel modo che oggi si vede ogni cosa. Fece Daniello nella chiesa di Santo Agostino a fresco in una capella in figure grandi quanto il naturale una Santa Elena che fa ritrovare la Croce, e dalle bande in due nicchie Santa Cecilia e Santa Lucia, la quale opera fu parte colorita da lui e parte, con suoi disegni, dai giovani che stavano con esso lui; onde non riuscì di quella perfezzione che l’altre opere sue. In questo medesimo tempo dalla signora Lucrezia della Rovere gli fu allogata una capella nella Trinità, dirimpetto a quella della signora Elena Orsina, nella quale, fatto uno spartimento di stucchi, fece con suoi cartoni dipignere di storie della Vergine la volta da Marco da Siena e da Pellegrino da Bologna. Et in una delle facciate fece fare a Bizzera spagnuolo la natività di essa Vergine e nell’altra, da Giovan Paulo Rossetti da Volterra suo creato, Gesù Cristo presentato a Simeone; et al medesimo fece fare in due storie, che sono negl’archi di sopra, Gabriello che annunzia essa Vergine e la Natività di Cristo; di fuori negl’angoli fece due figuroni e sotto ne’ pilastri due Profeti; nella facciata dell’altare dipinse Daniello di sua mano la Nostra Donna che saglie i gradi del tempio, e nella principale la medesima Vergine che sopra molti bellissimi Angeli in forma di putti saglie in cielo et i dodici Apostoli a basso che stanno a vederla salire. E perché il luogo non era capace di tante figure et egli desiderava di fare in ciò nuova invenzione, finse che l’altare di quella capella fusse il sepolcro et intorno misse gl’Apostoli, facendo loro posare i piedi in sul piano della capella dove comincia l’altare, il quale modo di fare ad alcuni è piaciuto et ad altri, che sono la maggior e miglior parte, non punto. Ma con tutto che penasse Daniello quatordeci anni a condurre quest’opera, non è però punto migliore della prima. Nell’altra facciata che restò a finirsi di questa capella, nella quale andava l’uccisione de’ fanciulli innocenti, fece lavorare il tutto, avendone fatto i cartoni, a Michele Alberti fiorentino, suo creato. Avendo monsignor Messer Giovanni della Casa fiorentino et uomo dottissimo (come le sue leggiadrissime e dotte opere, così latine come volgari, ne dimostrano) cominciato a scrivere un trattato delle cose di pittura, e volendo chiarirsi d’alcune minuzie e particolari dagl’uomini della professione, fece fare a Daniello con tutta quella diligenza che fu possibile il modello d’un Davit di terra finito, e dopo gli fece dipignere, o vero ritrarre, in un quadro il medesimo Davit che è bellissimo, da tutte due le bande, cioè il dinanzi et il di dietro, che fu cosa capricciosa, il quale quadro è oggi appresso Messer Annibale Rucellai. Al medesimo Messer Giovanni fece un Cristo morto con le Marie, et in una tela per mandare in Francia Enea che spogliandosi per andare a dormire con Dido è sopragiunto da Mercurio, che mostra di parlargli nella maniera che si legge ne’ versi di Vergilio. Al medesimo fece in un altro quadro, pure a olio, un bellissimo San Giovanni in penitenza grande quanto il naturale che da quel signore, mentre visse, fu tenuto carissimo, e parimente un San Girolamo bello a maraviglia. Morto papa Giulio Terzo e creato [p. 652 modifica]sommo pontefice Paulo Quarto, il cardinale di Carpi cercò che fusse da Sua Santità data a finire a Daniello la detta sala dei re, ma non si dilettando quel papa di pitture, rispose essere molto meglio fortificare Roma che spendere in dipignere, e così avendo fatto mettere mano al portone di Castello, secondo il disegno di Salustio, figliuolo di Baldassarre Peruzzi sanese, suo architetto, fu ordinato che in quell’opera, la quale si conduceva tutta di trevertino a uso d’arco trionfale magnifico e sontuoso, si ponessero nelle nicchie cinque statue di braccia quattro e mezzo l’una; per che, essendo ad altri state allogate l’altre, a Daniello fu dato a fare un Angelo Michele. Avendo intanto monsignor Giovanni Riccio cardinale di Monte Pulciano deliberato di fare una capella in San Pietro a Montorio, dirimpetto a quella che aveva papa Giulio fatta fare con ordine di Giorgio Vasari, et allogata la tavola, le storie in fresco e le statue di marmo che vi andavano a Daniello, esso Daniello, già resoluto al tutto di volere abandonare la pittura e darsi alla scultura, se n’andò a Carrara a far cavare i marmi, così del San Michele come delle statue aveva da fare per la capella di Montorio, mediante la quale occasione, venendo a vedere Firenze e l’opere che il Vasari faceva in palazzo al duca Cosimo e l’altre di quella città, gli furono fatte da infiniti amici suoi molte carezze e particolarmente da esso Vasari, al quale l’aveva per sue lettere raccommandato il Buonarroti. Dimorando adunque Daniello in Firenze e veggendo quanto il signor Duca si dilettasse di tutte l’arti del disegno, venne in disiderio d’accommodarsi al servigio di sua eccellenza illustrissima; per che, avendo adoperato molti mezzi et avendo il signor Duca a coloro che lo raccomandavano risposto che fusse introdotto dal Vasari, così fu fatto. Onde Daniello offerendosi a servire sua eccellenza amorevolmente, ella gli rispose che molto volentieri l’accettava e che, sodisfatto che egli avesse agl’oblighi ch’aveva in Roma, venisse a sua posta che sarebbe veduto ben volentieri. Stette Daniello tutta quella state in Firenze, dove l’accommodò Giorgio in una casa di Simon Botti suo amicissimo; là dove in detto tempo formò di gesso quasi tutte le figure di marmo che di mano di Michelagnolo sono nella sagrestia nuova di San Lorenzo, e fece per Michele Fuchero fiamingo una Leda che fu molto bella figura. Dopo, andato a Carrara e di là mandati marmi che voleva alla volta di Roma, tornò di nuovo a Fiorenza per questa cagione. Avendo Daniello menato in sua compagnia, quando a principio venne da Roma a Fiorenza, un suo giovane chiamato Orazio Pianetti, virtuoso e molto gentile, qualunche di ciò si fusse la cagione, non fu sì tosto arrivato a Fiorenza, che si morì. Di che sentendo infinita noia e dispiacere Daniello, come quegli che molto, per le sue virtù, amava il giovane, e non potendo altrimenti verso di lui il suo buono animo mostrare, tornato quest’ultima volta a Fiorenza, fece la testa di lui di marmo dal petto in su, ritraendola ottimamente da una formata in sul morto, e quella finita la pose con uno epitaffio nella chiesa di San Michele Berteldi in sulla piazza degl’Antinori. Nel che si mostrò Daniello, con questo veramente amorevole uffizio, uomo di rara bontà et altrimenti amico agl’amici di quello che oggi si costuma communemente, pochissimi ritrovandosi che nell’amicizia altra cosa amino che l’utile e commodo proprio. Dopo queste [p. 653 modifica]cose, essendo gran tempo che non era stato a Volterra sua patria, vi andò prima che ritornasse a Roma e vi fu molto carezzato dagl’amici e parenti suoi; et essendo pregato di lasciare alcuna memoria di sé nella patria, fece in un quadrotto di figure piccole la storia degl’innocenti, che fu tenuta molto bell’opera, e la pose nella chiesa di San Piero; dopo, pensando di non mai più dovervi ritornare, vendé quel poco che vi aveva di patrimonio a Lionardo Ricciarelli suo nipote, il quale essendo con esso lui stato a Roma et avendo molto bene imparato a lavorare di stucco, servì poi tre anni Giorgio Vasari in compagnia di molti altri nell’opere che allora si fecero nel palazzo del Duca. Tornato finalmente Daniello a Roma, avendo papa Paolo Quarto volontà di gettare in terra il Giudizio di Michelagnolo per gli ignudi che li pareva che mostrasseno la parti vergognose troppo disonestamente, fu detto da cardinali et uomini di giudizio che sarebbe gran peccato guastarle e trovoron modo che Daniello facesse lor certi panni sottili che le coprissi, che tal cosa finì poi sotto Pio Quarto con rifar la Santa Caterina et il San Biagio, parendo che non istesseno con onestà. Cominciò le statue in quel mentre per la capella del detto cardinale di Monte Pulciano et il San Michele del Portone, ma nondimeno non lavorava con quella prestezza che arebbe potuto e dovuto, come lui che se n’andava di pensiero in pensiero. Intanto, dopo essere stato morto il re Arrigo di Francia in giostra, venendo il signor Ruberto Strozzi in Italia et a Roma, Caterina de’ Medici reina, essendo rimasa reggente in quel regno, per fare al detto suo morto marito alcuna onorata memoria, commise che il detto Ruberto fusse col Buonarroto e facesse che in ciò il suo disiderio avesse compimento; onde, giunto egli a Roma, parlò di ciò lungamente con Michelagnolo, il quale non potendo, per essere vecchio, tòrre sopra di sé quell’impresa, consigliò il signor Ruberto a darla a Daniello, al quale egli non mancarebbe né d’aiuto né di consiglio in tutto quello potesse. Della quale offerta facendo gran conto lo Strozzi, poi che si fu maturamente considerato quello fusse da farsi, fu risoluto che Daniello facesse un cavallo di bronzo tutto d’un pezzo, alto palmi venti dalla testa insino a’ piedi e lungo quaranta incirca, e che sopra quello poi si ponesse la statua di esso re Arrigo armato e similmente di bronzo. Avendo dunque fatto Daniello un modelletto di terra secondo il consiglio e giudizio di Michelagnolo, il quale molto piacque al signor Ruberto, fu scritto il tutto in Francia et in ultimo convenuto fra lui e Daniello del modo di condurre quell’opera, del tempo, del prezzo e d’ogni altra cosa; per che, messa Daniello mano al cavallo con molto studio, lo fece di terra, senza fare mai altro, come aveva da essere interamente. Poi, fatta la forma, si andava apparecchiando a gettarlo, e da molti fonditori, in opera di tanta importanza, pigliava parere d’intorno al modo che dovesse tenere perché venisse ben fatta, quando Pio Quarto, dopo la morte di Paolo stato creato pontefice, fece intendere a Daniello volere - come si è detto nella vita del Salviati - che si finisse l’opera della sala de’ re e che perciò si lasciasse indietro ogni altra cosa; al che rispondendo Daniello, disse essere occupatissimo et ubligato alla reina di Francia, ma che farebbe i cartoni e la farebbe tirare inanzi a’ suoi giovani, e che oltre ciò farebbe anch’egli la parte sua. La quale [p. 654 modifica]risposta non piacendo al Papa, andò pensando di allogare il tutto al Salviati, onde Daniello, ingelosito, fece tanto col mezzo del cardinale di Carpi e di Michelagnolo, che a lui fu data a dipignere la metà di detta sala e l’altra metà, come abbiamo detto, al Salviati, nonostante che Daniello facesse ogni possibile opera d’averla tutta, per andarsi tranquillando senza concorrenza, a suo commodo. Ma in ultimo la cosa di questo lavoro fu guidata in modo, che Daniello non vi fece cosa niuna più di quello che già avesse fatto molto inanzi, et il Salviati non finì quel poco che aveva cominciato, anzi gli fu anco quel poco dalla malignità d’alcuni gettato per terra. Finalmente Daniello dopo quattro anni (quanto a lui apparteneva) arebbe gettato il già detto cavallo, ma gli bisognò indugiare molti mesi, più di quello che arebbe fatto, mancandogli le provisioni che doveva fare di ferramenti, metallo et altre materie il signor Ruberto; le quali tutte cose essendo finalmente state provedute, sotterrò Daniello la forma, che era una gran machina, fra due fornaci da fondere in una stanza molto a proposito che aveva a Monte Cavallo, e fonduta la materia, dando nelle spine il metallo, per un pezzo andò assai bene, ma in ultimo sfondando il peso del metallo la forma del cavallo, nel corpo tutta la materia prese altra via, il che travagliò molto da principio l’animo di Daniello, ma nondimeno, considerato il tutto, trovò la via da rimediare a tanto inconveniente. E così, in capo a due mesi gettandolo la seconda volta, prevalse la sua virtù agl’impedimenti della fortuna, onde condusse il getto di quel cavallo (che è un sesto, o più, maggiore che quello d’Antonino che è in Campidoglio) tutto unito e sottile ugualmente per tutto. Et è gran cosa che sì grand’opera non pesa se non venti migliaia. Ma furono tanti i disagi e le fatiche che vi spese Daniello, il quale, anzi che non, era di poca complessione e malinconico, che non molto dopo sopragiunse un catarro crudele che lo condusse molto male, anzi dove arebbe dovuto Daniello star lieto, avendo in così raro getto superato infinite difficultà, non parve che mai poi, per cosa che prospera gl’avenisse, si rallegrasse. E non passò molto che il detto catarro in due giorni gli tolse la vita a dì quattro d’aprile 1566; ma inanzi avendosi preveduta la morte si confessò molto divotamente e volle tutti i sacramenti della chiesa, e poi, facendo testamento, lasciò che il suo corpo fusse sepellito nella nuova chiesa stata principiata alle Terme da Pio Quarto ai monaci certosini, ordinando che in quel luogo et alla sua sepoltura fusse posta la statua di quell’Angelo che aveva già cominciata per lo portone di Castello. E di tutto diede cura (facendogli in ciò essecutori del suo testamento) a Michele degl’Alberti fiorentino et a Feliciano da San Vito di quel di Roma, lasciando per ciò loro dugento scudi. La quale ultima volontà essequirono ambidue con amore e diligenza, dandogli in detto luogo, secondo che da lui fu ordinato, onorata sepoltura. Ai medesimi lasciò tutte le sue cose appartenenti all’arte, forme di gesso, modelli, disegni e tutte altre masserizie e cose da lavorare, onde si offersono all’ambasciadore di Francia di dare finita del tutto fra certo tempo l’opera del cavallo e la figura del re che vi andava sopra, e nel vero essendosi ambidue esercitati molti anni sotto la disciplina e studio di Daniello, si può da loro sperare ogni gran cosa. È stato creato similmente di Daniello [p. 655 modifica]Biagio da Carigliano pistolese e Giovampaulo Rossetti da Volterra, che è persona molto diligente e di bellissimo ingegno, il quale Giovampaulo, essendosi già molti anni sono ritirato a Volterra, ha fatto e fa opere degne di molta lode. Lavorò parimente con Daniello e fece molto frutto Marco da Siena, il quale condottosi a Napoli si è presa quella città per patria e vi sta e lavora continuamente; è stato similmente creato di Daniello Giulio Mazzoni da Piacenza, che ebbe i suoi primi principii dal Vasari quando in Fiorenza lavorava una tavola per Messer Biagio Mei che fu mandata a Lucca e posta in San Piero Cigoli, e quando in Monte Oliveto di Napoli faceva esso Giorgio la tavola dell’altare maggiore, una grande opera nel reffettorio e la sagrestia di San Giovanni carbonaro, i portegli dell’organo del piscopio con altre tavole et opere. Costui avendo poi da Daniello imparato a lavorare di stucchi, paragonando in ciò il suo maestro, ha ornato di sua mano tutto il didentro del palazzo del cardinale Capo di Ferro e fattovi opere maravigliose, non pure di stucchi, ma di storie a fresco et a olio, che gli hanno dato e meritamente infinita lode. Ha il medesimo fatta di marmo e ritratta dal naturale la testa di Francesco del Nero tanto bene, che non credo sia possibile far meglio, onde si può sperare che abbia a fare ottima riuscita e venire in queste nostre arti a quella perfezione che si può maggiore e migliore. È stato Daniello persona costumata e da bene e di maniera intento ai suoi studii dell’arte, che nel rimanente del viver suo non ha avuto molto governo et è stato persona malinconica e molto solitaria. Morì Daniello di 57 anni in circa. Il suo ritratto s’è chiesto a quei suoi creati che l’aveano fatto di gesso, e quando fui a Roma l’anno passato me l’avevano promesso. Né per imbasciate o lettere che io abbia loro scritto non l’han voluto dare, mostrando poca amorevolezza al lor morto maestro; però non ho voluto guardare a questa loro ingratitudine, essendo stato Daniello amico mio, che si è messo questo che ancora che li somigli poco, faccia la scusa della diligenza mia e della poca cura et amorevolezza di Michele degli Alberti e di Feliciano da San Vito.

FINE DELLA VITA DI DANIELLO DA VOLTERRA, PITTORE E SCULTORE