Lydia/II

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I III

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II.

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«Te lo dico subito, mia cara Eva, perchè non posso tacere; e perchè non vorrei che la notizia ti giungesse per altra via, malignamente travisata. La nostra Lydia ne ha fatta una dello sue. (Tieni nota che scrivo Lydia con l’ipsilonne). Fra le cattive abitudini che reggono la sua educazione, c’è anche questa: La madre, sai quant’è pigra o indolente, stancandosi presto in compagnia del suo diavoletto, la lascia scorrazzare sola, col pretesto della campagna. A don Leopoldo non par [p. 24 modifica] vero di sollevarsi un poco anclie lui della sua parte di mentore, e così Lydia in gonnellino corto e cappello di paglia, come una pastorella arcadica, se ne va per monti e per valli. Nessuno le darebbe sedici anni a vederla, e fino ad un certo punto si capisce come l’anno passato ancora la chiamassero bebè; ma via, è fidarsi un po’ troppo dell’innocenza.

Ella passeggiava dunque sola, in riva al lago, verso un piccolo seno dove vanno le donne del paese a lavare. Una appunto di queste donne, una vecchietta, vi si trovava allora con un nipotino di tre anni. Chi sa come, non è per altro difficile a immaginare, il bimbo cadde nell’acqua, andò a fondo e ritornò a galla qualche metro lontano. La vecchietta gridava, desolata e impotente; alcuni pescatori, sull’altra riva, non riuscivano a comprendere di che cosa si trattasse; ed ecco che Lydia, spogliatasi in un batter d’occhi quasi tutta, si tuffa nell’acqua; ma son [p. 25 modifica] io che dico quasi per rispetto, capisci! I pescatori si avvicinavano rapidamente...

Tutta la nostra amica è qui, in questo fatto che noi non abbiamo bisogno di commentare... noi che l’amiamo tanto. Ma non ti so dire quel che vi fabbrica sopra la maldicenza, che cosa dicono a Belgirate, quante insulsaggini, quanto spirito di cattiva lega.

Don Leopoldo ò stato quello che ne ha sofferto di più. Egli è un gentiluomo di stampo antico, ligio alle consuetudini della buona aristocrazia, delicato fino ad essere ombroso, e che, dopo l’onore, mette la questione della forma al di sopra di tutte le altre.

Fanno pietà queste tre persone, obbligate a vivere insieme e così mal legate. Fra sua madre e suo zio, Lydia è sballottata come una povera barchetta senza timone. Don Leopoldo vede molte cose, ma il farle conoscere sarebbe un mancare di rispetto a sua cognata, che non si occupa affatto di sua figlia. Egli [p. 26 modifica] fa quel che può. La conduce a trovare le suo amiche; le racconta pudicamente, e condite di frizzi archeologici, le memorie della sua gioventù; infine la intrattiene sugli articoli della Revue des Deux Mondes, alla quale egli è abbonato da trent’anni. Non manca di ingegno, forse, ma la sua condizione di cadetto povero lo ha sempre relegato nelle ultime file della famiglia; ed egli vi si tiene decoroso e calmo, come l’ultimo rappresentante di un gran nome che si spegne.

Oh! come cadono tutte, intorno a noi, le stirpi gloriose che ci hanno fatto un privilegio della nobiltà, della fierezza, della grandezza d’animo!

Non so, non posso staccarmi da questi che ora si chiamano pregiudizi, perchè io li vedo sotto un aspetto differente; non dal punto di vista della loro miseria attuale, ma come nacquero, forti e invitti. Aristocrazia, nel mio pensiero, è sinonimo d’ogni cosa elevata e pura, ed io sono fiera di appartenere ad una [p. 27 modifica] casta che deve dare alle altre l’esempio di tutte le virtù.

Mi dirai cho troppi esempi contrari vennero a sfatare questa pretesa superiorità. È vero; ma quando i devoti si fanno atei solamente perchè i sacerdoti sono cattivi, di’ pure che a quei devoti mancava la fede. . . . . .

Vuoi che ti parli di me? Sono triste, ecco tutto. Perchè poi sono triste, è assai più difficile a dirsi. Questi buoni contadini che mi chiamano la marchesina, che mi vedono giovane, sana, ricca, credono senza dubbio che io sia felice; ma più mi avanzo nella vita, meglio comprendo che la felicità non è fatta per me, o io non son fatta per essa: potrebbe darsi anche questo.

Ti ricordi il giorno cho si è sposata Thea? Quanta malinconia in quel matrimonio! Eppure tutti sembravano lieti; Thea scrive da Vienna che è felicissima, e sua madre, tra una partita di poker e una di macao, si [p. 28 modifica] proclama da sè stessa la più fortunata dello madri. Io non mi mariterò, è quasi certo.

L’idea che ho dell’amore è troppo alta per poterne trovare la incarnazione. Chi sa non viva in qualche remoto canto di terra, e fors’anco vicino, l’uomo de’ miei sogni, dei sogni di Yolanda... ma no, Yolanda si è accontentata di un avventuriero. O tutto o nulla è la divisa di Costanza Jeronima. Non mi mariterò.

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Eppure è vuota, senza amore, la vita. È la mancanza d’amore che ci rende tutti cattivi. Dicono che il sole si raffreddi a poco a poco e che la terra morirà il giorno che non sarà più riscaldata; così parmi di noi, della nostra società; qualche cosa si va tutti i giorni raffreddando nelle anime nostre . . .

Ieri mi trovavo nella mia camera, colle finestre aperte, quando sopravvenne un forte temporale. Gli alberi del giardino si contorcevano, gemendo, sotto le raffiche impetuose; [p. 29 modifica] il cielo, tutto nero, era squarciato da striscie di fuoco; un soffio bruciante correva nell’aria, fatta densa dalla polvere. A un tratto larghe goccie cadono sulle foglie tormentate, e continuano a cadere, fitte, lucenti, fresche. Io mi sentii invasa allora da una dolcissima calma; guardavo la pioggia scrosciare, dilagare, diffondersi per tutto il giardino, per la campagna, più lontano ancora, fin dove l'occhio scorgeva l’orizzonte, e provavo un senso di purezza, di sollievo, come se quell’acqua dovesse lavare tutte le miserie della terra, tutte le colpe degli uomini.

Come amo la campagna e la solitudine, la cara solitudine che fa pensare! Pure non è che senta odio pe’ miei simili; al contrario, mi pare che tra i miei simili vivrei molto bene... Egli è che non somiglio a nessuno; o piuttosto, sì, somiglio a una quantità di persone morte, a tutta una generazione scomparsa. [p. 30 modifica]

Mi chiedo qualche volta se non sono l’ombra di una antica castellana, di una mia antenata, quella Jeronima di cui porto così volentieri il nome, e il cui ritratto sta sopra al mio letto. Lo vedrai; è un permesso che mi diede la mamma, poichè voglio tanto bene alla mia eroica omonima.

So che molti mi danno la baia per questo, e perchè fuggo la gente; mi chiamano codina e monachella, dicono che la mia aristocrazia è affettazione. No. Ho un vero orrore per tutto ciò che luccica, che stride, che fa chiasso; per l’oro falso come per le false virtù e per le nobiltà comperate — e siccome vedo che tutto ciò sale sempre, viene avanti, invade le nostre case, i nostri focolari, io retrocedo, mi allontano, non so dove anderò a finire — purchè non sia più costretta ad abbracciare delle contesse Colombo!. . . . . . .

La vuoi sapere la storia della mia antenata? Sulla fine del seicento, una Jeronima [p. 31 modifica] dei marchesi Arimonti si trovava a vent’anni bella, ricchissima e sola. La madre era stata una donna galante, l’avola anche; e la cronaca parla di una Arimonti maritata a un gentiluomo francese che tentò, sotto il regno di Luigi il Grande, di contendere lo scettro alla Maintenon.

Volgeva un periodo infausto per le donne della mia famiglia; ma Jeronima, purissima, nulla sapeva di tutto ciò. Era cresciuta in un castello lontano dalla città, ignara delle insidie e delle tristizie del mondo. Lavorava, suonava l’arpa, e andava a caccia con un vecchio scudiero; era benefica, era buona.

Si innamorò di lei il figlio di una famiglia nobile e influente, ed ella corrispose a un amore che sembrava dovesse avere il più lieto fine. Però, quando il giovane ebbe espresso il desiderio di tali nozze, la madre di lui, una principessa genovese, vi si oppose energicamente. Preghiere e suppliche, tutto fu vano. La principessa dichiarò che non avrebbe mai [p. 32 modifica] accolta per nuora una fanciulla di casa Arimonti.

Jeronima, innocente, piegò la testa sotto il fiero insulto. Come dovette soffrire di quella vergogna non sua, come dovette sentire alto, prepotente il bisogno di togliere quella macchia dalla sua famiglia! Il giovane, sinceramente innamorato, voleva sposarla contro il divieto materno, ma ella era troppo altera per affrontare la prospettiva di essere o tollerata o cacciata da una casa dove avrebbe dovuto entrare a fronte alta.

La separazione dei due infelici fu straziante. Da quel giorno Jeronima rinunciò al mondo, dando così una sfida nobilissima alla principessa che l’aveva infamata. Visse sempre nel suo castello, circondata dai poveri, profondendo ogni suo avere in opere di carità, e fondando nello stesso castello un monastero di clausura di cui fu badessa esemplare. Ci voleva il sacrificio di tutta una vita per redimere casa Arimonti. [p. 33 modifica]

Sono scorsi quasi due secoli, ma mi pare che l’altera purezza di Jeronima brilli ancora come l’astro della mia famiglia.

Il quadro che ho al di sopra del mio letto rappresenta una giovinetta bionda, di un biondo opaco, senza riflessi, un biondo tranquillo, ben differente dal tuo biondo luminoso, o Eva! Non è una bellezza assoluta, ma è certo che animando quei dolci occhi azzurrini, quella fronte più alta che larga, quella bocca pallida dalle labbra sottili, e mettendo il bel cuore di Jeronima entro quelle sembianze fredde, ne esce viva e vera la soavissima figura della mia antenata.

Ma perchè si chiamano ardenti solamente quelle passioni che toccano il senso? L’anima nostra non è un focolare sempre acceso? Io sono fredda, dicono, eppure mi sento capace di tanto amore che ne soffro, e non so dove posare l’esuberanza de’ miei affetti.

Divertirsi! Quando la nostra Lydia fece per la prima volta questa professione della sua [p. 34 modifica] fede, tu hai sorriso, perchè comprendesti subito che la povera piccina non sapeva neppur lei quello che si dicesse; e forse nella sua testolina non aveva torto. Così sarebbe infatti, se divertirsi e godere volesse esprimere il compimento dei nostri desiderii: ciò che non mi pare, perchè molte volte si desiderano cose tristi, indefinite; oppure non si desidera nulla, ma si soffre.

È questo veramente lo stato del mio cuore.

Scivolare, sorvolare, la grande scienza mondana io non la conosco. Sono rigida, tutta d’un pezzo; non so scherzare nè prendere la vita leggermente, e credo che la causa segreta della mia malinconia sia appunto la mancanza di serietà che trovo in fondo a tutte le cose.

Ho letto in questi giorni un libro che analizza la vita di una fanciulla nella piccola borghesia. È un mondo piccino, dove la fantasia e tutte le altre qualità dell’intelletto non [p. 35 modifica] trovano modo di svilupparsi. Quella fanciulla arriva ai trent’anni, ignorando ogni cosa, vittima rassegnata e tranquilla. La sua condizione desta pietà; ma che dire di noi, a cui fin dalla culla l’educazione, l’esempio, le letture, la società affinano lo spirito ed i nervi, pur imponendoci le stesse catene? Le invidio queste fanciulle che trascorrono i giorni rattoppando la biancheria. La salvezza di una donna, quando le manca l’amore, è l’ignoranza intera o l’intero genio.

Io non posso più essere ignorante, e anelo invano al genio ed all’amore...»