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../La principessa di pimpirimpara ../E qui mi fermo IncludiIntestazione 25 febbraio 2009 75% romanzi

La principessa di pimpirimpara E qui mi fermo


Ma – in questa – il lume impallidisce e, bizzarri suoni di una metàllica mùsica, sìmile a quella di certi tinnuli organetti germànici, pàjonmi gariglionare dal teatrino che mi stà in faccia: il lume si smorza; voi, fate un sibilo.

Ed al segnale, un luminoso quadrato si forma nell’oscurità. È il sipario, il quale, rotolàndosi, scopre alla slavata luce del magnesio un proscenio... Noi siamo nella magnìfica reggia di Pimpirimpàra: colonne, capitelli, architravi, tutto sembra coperto da un’aurea, impalpàbile polve, tutto trèmola, scintilla, crèpita, esageratamente càrico di elettricità. Ed ecco, nel mezzo della scena, su di un lettuccio S.A.R. la principessa Tripilla, una bellìssima bàmbola, in vesta oro ed argento, con un visetto bianco e rosso come una giuncata colle maggiostre, occhi aerini, treccie di stoppa stelleggiate di diamanti. Un groppo al fazzoletto, se mai ne usate, filòsofi! S.A. che mangia lingue di Araba Fenice e inghiotte perle sciolte in Tocài, che dorme su piume di uccelli-mosca e si forbisce con biglietti da mille, ahimè! si annoja pure a morirne. Invano la duchessa di Trich-e-trach – sua dama che le scalda le coltri – si affanna a trillare, a bocca chiusa, le più sdrucciolèvoli poesiuccie; invano la contessa di Piripicchio – la quale, ogni tanto, le soffia il nasino con una pezzuola a merletti – pizzica, su’ n’arpa priva di corde, delle inzuccheranti armonie; Tripilla batte sempre, stizzosa, il plumbeo piedino contro le assi del palco: di più: come la marchesa di Chiacchieretta rispettosamente la prega di inanimirsi, di non compromèttere la sua augusta salute, essa, in risposta, dègnasi appoggiarle uno schiaffo. Se la spalmata, che, poco dopo, dalle quinte si ode, intende imitarlo, che Dio ci salvi anche dalle carezze della regale fanciulla.

Ma – taratàntara! – udite clangor di trombe. Ai lieti suoni di una fanfara (cioè di un pèttine vestito di carta velina, e di migliarola entro una scàtola di latta) due guardie, tutte d’un pezzo, dai larghi scudi, si appòstano agli stìpiti di una porta.

E in mezzo a loro, passa il Re di Pimpirimpàra. Esso è un vecchione con barba e zàzzera di bambagia, con una gran corona a gemme di talco, scettro e globo – insegne le quali dàvano, ai sovrani di una volta, maestà, e che ora la danno ai rè de’ tarocchi; di più, con un manto d’amoerre celeste, ch’io giurerèi staccato dal cappellino di mamma.

Il per-la-grazia-di-Dio, viene, secondo il sòlito, ad augurare la buona mattina alla principessa figliuola; si avanza verso di lei – non senza distribuire de’ pizzicotti alle belle damine d’onore – l’abbraccia e, paternamente, bàciale il cipollotto... Senonchè, tosto, si accorge del malumore di S.A.R. – A un padre non sfugge nulla. Se ne accorge, benchè le labbra di lei siano scolpite ad un eterno sorriso, e ne domanda la càusa:

–?–

Risposta: – la principessina si annoia –

Si annoja? – Ecco S.M., da babbo esemplare, offrirle un nùvolo di divertimenti: – Vuòi ch’io faccia tarantellare i mièi generali e ministri? vuòi ch’io converta il reame in un parco di caccia, avendo, per venagione, i nostri conigli di sùdditi? –

Ma no. Tripilla crolla sempre la testa con quell’aria che, così bene, segna nei burattini: sconforto – quantunque indichi pure, altra volta: starnuto.

– E allora – sclama salt... restando in bestia la Maestà Sua – và a spasso!... – Poi – scuote, braccia, capo e gambette.

– Già, andiàmoci... – fà sùbito, ad annaquare il paterno furore, la principessa. E quì, tutti si òrdinano; ricomincia la mùsica, cui aggiùngesi un picchiamento di unghie sopra la tàvola per imitar lo scarpiccio e...via. La reggia imbianca, cancèllasi a poco a poco: dietro di essa, come ne’ cromatropi, disègnasi una seconda scena.

Gran piazza; – l’attornia una tiritera di pòrtici; in fondo, chiesa: sul dinanzi da un lato, un albergo con insegna sporgente; dall’altro, un edifizio di carta grigia la cui soprascritta porta: asilo infantile. Sebbene il cielo stia pinto a un immacolato sereno, i signori burattinisti avvisano di rappresentare: tempo cattivo. Difatti, la luce che piove è glàuca, fredda come in una palude: tu, istintivamente aspetti, dalle quinte – un rospo.

Ma s’ode il crocchiar d’una toppa.

Invece del rospo, dall’asilo infantile, esce un collegialinuccio, in tùnica azzurra, il moccichino appiccato alla cìntola, in mano la cartelletta... Erbette in minestra! chi scorgo! Ma sono io, colùi, io stesso. Ecco i mièi capelli ricci, il mio bel naso all’insù, le mie labbra sottili... perfino un certo piccolo neo, alla dritta, sul ciglio... oh oh, chi osò mai?

Rataplan: in risposta, uno stamburamento.

Nasce, da lungi, un rumore simile a quello di molte dita a pìzzico, battute su gonfie gote (cavallerìa in galoppo) poi, il patatà-patatà si moltìplica; mèscolavisi tintinno di sonagliuzzi, squilli di casserole e uno scucchiarìo come di mano che frughi, convulsa, in una cesta di posate d’argento.

Appàjono i primi fanti; ciascuna fila somiglia ad una spiedata di quaglie... E pàssane, pàssane, arrìvano i cavalieri, corazzati in stagnolo; certo, de’ cavalieri eccellenti per durarla in sella con i sopranaturali salti, con lo sprangar di calci violento, delle loro gran lepri; infine, su’n elefante, spunta, velata, la graziosa Tripilla, fèrmasi a metà piazza e, dopo qualche infruttuoso tentativo, si scopre.

O sfolgoreggiante beltà! Chi la vede, imminchionisce: agghiàcciasi sotto gli sguardi di lei il pispino di una fontana. Quanto a mè, il che viene a dire... quanto alla mia brutta copia, rimango quasi acciecato, mi si allarga la bocca, mi si sbàrrano gli occhi (avèo movìbili queste due parti, indizio della importanza mia nella comedia) insomma mostro un tal viso abbagliato che S.A. non può non addàrsene.

Allora, ella pispiglia non-so-che nel braccio della sua dama, baronessa Bacheròzzola: un fischio! e, tutto l’esèrcito, l’elefante compreso, dà in un precipitoso movimento; tanto precipitoso che i soldatucci, per meglio còrrere, non tòccan più suolo e – ingarbugliando fili di seta e di ferro – vanno ad ammontonarsi in mezzo alle quinte.

Gabinetto di S.A.R. - Si arreda con molte sedie e con tàvole introdotte dall’alto, si pòpola con le sòlite dame e damigelle d’onore. Entra la principessa: essa va ad accomodarsi, per quanto glielo permèttono le giunture, su’ na poltrona. Dopo il silenzio di pochi momenti, in cui spicca il ronzìo addormentatore di una fontana... tac... tac – alla porta.

– Chi è? -

È un messaggiero; quel messaggiero in ferrajolo rosso, dagli sterminati baffi arricciati, che mi recava una letterona stracotta della graziosa Tripilla. Ei viene per annunciarmi; trincia de’ minuèttici inchini e... Ma qui gli succede cosa imprevista; nel còmpiere una magnìfica riverenza, stramazza sul palco col suo filo di ferro...

Allora un manone grassoccio, dai tozzi diti e dalle unghie cimate, discende, prestamente il raccoglie: risetto beffeggiatore dietro le tele e la rappresentazione continua.

Rapito il messo, spazzate via le dame, chi, se non io, dovèa squintarsi? E invero, Ego compare nel suo bell’arnese delle domèniche, Ego che, in sulle prime, tremante, incoraggisce poi e comincia a spifferare a Tripilla una pippionata d’amore. Ma quella, con uno sguardo rimuginante, lo tira sùbito fuor di rotaja, lo confonde talmente che Ego, persa affatto affatto la scherma, le si butta alla balza in ginocchio. Poh! e’ s’è fritto. Il lontano rumore, che nel principio dell’amoroso colloquio pareva quello di un orologio polseggiante in mezzo all’ovatta, raggiunge il rombo di cento incannatòi, come in cantina; un bolli bolli, uno sfrigolare, un sussurrìo, lo accompàgnano. E tutta la stanza si abbuja: con il cric-crac di cattivi fiammìferi, sègnansi, dissòlvonsi sulle pareti, girigògoli strani – fosforescenti, fumosi. Intanto de’ violini, che si èrano inviati sottaqua, s’instràdano in un crescendo. Fuga. Subìscono strappate sprezzanti, rabbiose, che òbbligano certo i lor suonatori a balzar dalle sedie tre dita ogni arcata; – poi – ad un tratto, lampeggio. E nuovamente chiarore. Continuando il frastuono, attorno, nella scena, mi si pertùgiano mille finestre con duemila occhi che guàrdano giù e, da cento porte, una folla di burattini s’incalza, si stiva, risucchia come l’onda del mare. A mè trèman le gambe: tento gridare, non posso. La principessa, in questa, le cui pupille gattèggiano più che più, incorònami un cèrcine, imbòccami un dentaruolo. Generale sufolamento; la piena ballònzola, il fracasso aumenta, aumenta. E... bo-um... un colpo di tamburone, poi, tutto, teatro, ometti di stoppa, luce – in un battibaleno – come una palla di ferro che tonfi in negra aqua, scompare; scompare non lasciando dietro di sè che un forte odore di smoccolatura ed un rintrono da grossa campana suonata.

E io mi sveglio. Ho il corpo indolenzito, la lingua allappata, gli occhi mezzo ingommati. Fò per stirarmi: ahi! – dico, urtando contro la tàvola – che c’è? – Io ne rimango soprapensieri, quindi strasècolo allorchè, riuscito tastoni alla finestra e schiusa un’imposta, vedo vestito mè, e il letto, non tocco: quanto all’orologio, accenna alle nove; quanto al mio Giorgio, si dorme pacificamente la sua dodicèsima ora.

Ed impossìbile racapezzarmi; mi affanno invano a cercare. A chi, dunque, ricòrrere?

Perdio! alla brocca.

Difatti, come v’immergo le mani – che unghiella! – e mi bagno la fronte, ecco nella fantasìa ripasseggiarmi, a braccio, la principessa di Pimpirimpàra e la contessa di Nievo. – Mariuole! – penso io tra lo stizzoso e il ridente.

E lì, non posso rimanermi di dare una occhiata dietro al sipario del teatruccio; vi si ammontona un garbuglio di fantoccini: ne volgo un altro alla carta da lèttera posta sopra la tàvola, vicino al candeliere senza candela e colla gorgieretta di vetro spezzata; c’incontro in majùscole, un:

CON...

– Mariuole, mariuole! – ripenso nell’abbeverare la penna. E, perchè le due burlone non si gloriàssero almeno di avermi fatto anche sciupare un foglietto di carta, utilizzo il già scritto, seguendo:

CONjugazione del verbo difettivo, gutturale e nutriente:
(((( = MANGIARE