Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XXII

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Prima parte
Novella XXII

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Narra il signor Scipione Attellano come il signor


Timbreo di Cardona essendo col re Piero di Ragona in Messina


s’innamora di Fenicia Lionata, e i varii e fortunevoli accidenti


che avvennero prima che per moglie la prendesse.


Correndo gli anni di nostra salute MCCLXXXIII, i siciliani, non parendo loro di voler piú sofferire il dominio dei francesi, con inaudita crudeltá quanti ne l’isola erano un giorno, ne l’ora del vespro, ammazzarono; ché cosí per tutta l’isola era il tradimento ordinato. Né solamente uomini e donne de la nazion francese uccisero, ma tutte le donne siciliane, che si puotero imaginare esser di francese nessuno gravide, il dí medesimo svenarono, e successivamente se donna alcuna era provata che fosse da francese ingravidata, senza compassione era morta. Onde nacque la miserabil voce del vespro siciliano. Il re Piero di Ragona, avuto questo avviso, subito ne venne con l’armata e prese il dominio de l’isola, perciò che papa Niccolò III a questo lo sospinse dicendogli che a lui, come a marito di Gostanza figliuola del re Manfredi, l’isola apparteneva. Esso re Piero tenne molti dí in Palermo la corte molto reale e magnifica, e de l’acquisto de l’isola faceva meravigliosa festa. Dapoi sentendo che il re Carlo II, figliuolo del re Carlo I, che il reame di Napoli teneva, con grossissima armata veniva per mare per cacciarlo di Sicilia, gli andò a l’incontro con l’armata di navi e galere che aveva, e venuti insieme al combattere fu la mischia grande e con uccisione di molti crudele. Ma a la fine il re Piero disfece l’armata del re Carlo e quello prese prigione. E per meglio attendere a le cose de la guerra ritirò la reina con tutta la corte a Messina, come in quella cittá che è per iscontro a l’Italia e da la quale con breve tragitto si passa in Calavria. Quivi tenendo egli una corte molto reale, e per la ottenuta vittoria essendo ogni cosa in allegrezza ed armeggiandosi tutto ’l dí e facendosi balli, un suo cavalier e barone molto stimato ed il quale il re Piero, perché era prode de la persona e ne le passate guerre sempre s’era valorosamente diportato, sommamente amava, d’una giovanetta figliuola di messer Lionato de’ Lionati, gentiluomo di Messina, la quale oltra ogn’altra de la contrada era gentilesca, avvenente e bella, fieramente s’innamorò, e a poco a poco cosí fattamente di lei s’accese, che senza la soave vista di quella né sapeva né voleva vivere. Domandavasi il barone il signor Timbreo di Cardona, e la fanciulla Fenicia si chiamava. Egli, perciò che per terra e per mare fin da la sua fanciullezza aveva sempre il re Piero servito, fu molto riccamente rimeritato; ché oltra gli infiniti doni che ebbe, il re in quei dí gli aveva data la contea di Collisano con altre terre, di maniera che la sua entrata, senza la pensione che dal re aveva, era di piú di XII mila ducati. Ora cominciò il signor Timbreo passar ogni giorno dinanzi la casa de la fanciulla, quel dí che la vedeva beato stimandosi. Fenicia, che era, ben che fanciulletta, avveduta e saggia, s’avvide di leggero de la cagione del passeggiar del cavaliero. Era fama che il signor Timbreo fosse uno dei favoriti appo il re, e che pochi ci fossero in corte che valessero quello ch’egli valeva, onde da tutti era onorato. Il perché Fenicia, oltra ciò che udito ne aveva, veggendolo molto signorilmente vestito e con onorata famiglia dietro, ed oltra questo che era bellissimo giovine e molto mostrava esser costumato, cominciò anch’ella piacevolmente a guardarlo ed onestamente farli riverenza. Il cavaliere ogni dí piú s’accendeva, e quanto piú spesso la mirava tanto piú sentiva la fiamma sua farsi maggiore, ed essendo tanto nel suo core questo nuovo fuoco cresciuto che tutto si sentiva per amor de la bella fanciulla struggere, deliberò per ogni via che possibil fosse averla. Ma il tutto fu indarno, perciò che a quante lettere, messi ed ambasciate ch’egli le mandò, ella altro mai non rispose, se non che la sua virginitá ella inviolata serbar intendeva a chi dato le fosse per marito. Il perché il povero amante si ritrovava molto di mala voglia, e tanto piú quanto che mai non aveva potuto farle ritenere né lettere né doni. Tuttavia deliberatosi d’averla, e veggendo la costanza di lei esser tale, che se voleva di quella divenir possessore bisognava che per moglie la prendesse, poi che molti discorsi sovra di questo ebbe fatto, conchiuse tra sé di farla al padre richieder per moglie. E ben che a lui paresse che molto si abbassava, nondimeno, sapendo quella esser d’antico e nobilissimo sangue, deliberò non ci metter piú indugio, tanto era l’amore che a la fanciulla portava. Fatta tra sé questa deliberazione, ritrovò un gentiluomo messinese con cui aveva molta famigliaritá e a quello narrò l’animo suo, imponendogli quanto voleva che con messer Lionato facesse. Andò il messinese e il tutto essequí secondo la commissione avuta dal cavaliere. Messer Lionato, udita cosí buona nuova e sapendo di quanta autoritá e valore il signor Timbreo era, senza altrimenti a parenti od amici chieder conseglio, dimostrò con gratissima risposta quanto gli era caro che il cavalier degnasse seco imparentarsi. Ed essendo a casa andato, a la moglie ed a Fenicia fece intender la promessa che al signor Timbreo aveva fatta. La cosa estremamente a Fenicia piacque, e con divoto core ringraziò il nostro signor Iddio che del suo casto amore cosí glorioso fine le donasse, e in vista si dimostrava molto allegra. Ma la fortuna, che mai non cessa l’altrui bene impedire, nuovo modo ritrovò di porre impedimento a cosí da tutte due le parti desiderate nozze. E udite come. Divolgossi per Messina come fra pochi dí il signor Timbreo Cardona deveva sposar Fenicia figliuola di messer Lionato, la qual nuova generalmente piacque a tutti i messinesi, perciò che messer Lionato era gentiluomo che da tutti si faceva amare, come colui che a nessuno cercava di dar nocumento e a tutti quanto poteva giovava, di modo che ciascuno di tal parentado mostrava grandissimo piacere. Era in Messina un altro cavaliere giovine e di nobil famiglia, detto per nome il signor Girondo Olerio Valenziano, il quale de la persona sua molto prode in su quelle guerre s’era dimostrato ed era poi uno degli splendidi e liberali de la corte. Questo, udendo cosí fatta nuova, restò senza fine di mala voglia, perciò che poco innanzi s’era de le bellezze di Fenicia innamorato e cosí fieramente aveva le fiamme amorose nel petto ricevute, che teneva per fermo di morire se Fenicia per moglie non aveva. Ed avendo determinato chiederla al padre per moglie, udita la promessa al signor Timbreo fatta, si credette di cordoglio spasimare, e al suo dolore non ritrovando in modo alcuno compenso, tanto farneticò su questa cosa, che da la passione amorosa vinto, non avendo riguardo a ragione alcuna, si lasciò trasportare a far cosa, non solo a cavaliero e gentiluomo com’egli era, ma a ciascuno, biasimevole. Egli era stato in tutte l’imprese militari quasi sempre compagno del signor Timbreo ed era tra loro una fratellevole amicizia. Ma di questo amore, che che se ne fosse cagione, sempre s’erano celati l’un l’altro. Pensò adunque il signor Girondo tra il signor Timbreo e la sua amante seminare sí fatta discordia che la promessa del matrimonio si romperebbe, e in questo caso egli domandandola al padre per moglie sperava averla. Né guari al folle pensiero tardò di dare effetto. E avendo ritrovato al suo sfrenato ed accecato appetito uomo conforme, quello diligentemente de l’animo suo informò. Era costui, che il signor Girondo si aveva per confidente e ministro de la sceleratezza preso, un giovine cortegiano, uomo di poca levatura ed a cui piú il male che il bene piaceva, il quale, essendo de la cosa che deveva tramare ottimamente instrutto, n’andò il seguente matino a ritrovar il signor Timbreo, che ancora non era di casa uscito, ma tutto solo in un giardino de l’albergo si diportava. Ed entrato il giovine ne l’orto, fu dal signor Timbreo, veggendolo in verso sé venire, cortesemente raccolto. Quivi, dopo i communi saluti, in questo modo il giovine al signor Timbreo disse: – Signor mio, io sono a questa ora venuto per parlar teco di cose di grandissima importanza che al tuo onore ed utile appartengono. E perché potrei dir qualche cosa che forse l’animo tuo offenderia, ti prego che mi perdoni, e scusimi appo te la mia servitú, e pensa che a buon fine mosso mi sono. Questo so ben io che ciò che ora ti dirò, se tu sarai quel gentil cavaliero che sempre sei stato, ti recherá profitto pur assai. Ora, venendo al fatto, ti dico che ieri intesi come ti sei convenuto con messer Lionato de’ Lionati per sposar Fenicia sua figliuola per tua moglie. Guarda, signor mio, ciò che tu fai ed abbi riguardo a l’onor tuo. Questo ti dico perché un gentiluomo amico mio, quasi due e tre volte la settimana, si va a giacer seco e gode de l’amor di lei, e questa sera deve medesimamente andarci ed io, come l’altre volte soglio, a simil fatto l’accompagno. Quando tu voglia darmi la parola tua e giurarmi di non offender né me né l’amico mio, farò che tu stesso il luogo e il tutto vederai. E a ciò che tu sappia, sono molti mesi che questo amico mio gode costei. La servitú che teco ho e i molti piaceri che tu, la tua mercé, fatti m’hai, a palesarti questo m’inducono. Sí che ora farai quello che piú di tuo profitto ti parrá; a me basta aver in questo fatto quell’ufficio che al debito mio verso te appartiene. – A queste parole rimase il signor Timbreo tutto stordito e di modo fuor di sé, che quasi fu per uscire di sentimento. E poi che buona pezza stette mille cose tra sé rivolgendo, in lui piú potendo l’acerbo e, al parer suo, giusto sdegno che il fervido e leal amore che a la bella Fenicia portava, sospirando al giovine cosí rispose: – Amico mio, io non debbo né posso se non restarti eternamente ubligatissimo, veggendo quanto amorevolmente di me e de l’onor mio cura ti prendi, ed un giorno ti farò conoscer con effetto quanto tenuto ti sono. Però per ora quanto piú so e posso ti rendo quelle grazie che per me si ponno le maggiori. E poi che di grado t’offeri a farmi veder quello che mai non mi sarei imaginato, io ti priego, per quella caritá che spinto ti ha di questo fatto ad avisarmi, che tu liberamente l’amico tuo accompagni, ed io t’impegno la fede mia che da leal cavaliero né a te né al tuo amico darò nocumento alcuno, e questa cosa terrò sempre celata, a ciò che l’amico tuo possa goder questo suo amore in pace. Ché io deveva esser piú avvisto da prima ed aprendo ben gli occhi spiare minutamente il tutto con diligenza. – Disse adunque a l’ultimo il giovine al signor Timbreo: – Voi, signor mio, questa notte a le tre ore anderete verso la casa di messer Lionato e in quelle rovine di edificii, che sono dirimpetto al giardino di esso messer Lionato, vi porrete in aguato. – Rispondeva a quella parte una facciata del palazzo di messer Lionato, ove era una sala antica a le cui finestre, che giorno e notte stavano aperte, soleva talora dimostrarsi Fenicia, perciò che meglio da quella banda si godeva la bellezza del giardino; ma messer Lionato con la famiglia abitava ne l’altra parte, ed il palazzo era antico e molto grande, e capace non de la gente d’un gentiluomo, ma d’una corte d’un prencipe. Ora, dato l’ordine detto, il fallace giovine si partí ed andò a ritrovar il perfido Girondo, a cui disse il tutto che aveva col signor Timbreo Cardona ordinato. Del che il signor Girondo fece meravigliosa festa parendogli che il suo dissegno gli riuscisse a pennello. Onde, venuta l’ora statuita, il disleal Girondo vestí onoratamente un suo servidore, di quanto aveva a far giá instrutto, e quello di soavissimi odori profumò. Andò il profumato servidore di compagnia del giovine che al signor Timbreo aveva parlato, e loro appresso seguiva un altro con uno scalapertico in spalla. Ora qual fusse l’animo del signor Timbreo e quanti e quali fossero i pensieri che per la mente gli passarono tutto il dí, chi potrebbe a pieno narrare? io per me so che mi affaticherei indarno. Il troppo creduto e sfortunato signore, dal velo di gelosia accecato, quel giorno nulla o poco mangiò. E chiunque in viso il mirava giudicava che piú morto che vivo fosse. Egli di mezza ora innanzi il termine posto s’andò appiattare in quel luogo rovinoso, di tal maniera che poteva benissimo vedere chiunque quindi passava, parendoli pur impossibile che Fenicia s’avesse dato altrui in preda. Diceva poi tra sé che le fanciulle sono mobili, leggere, instabili, sdegnose ed appetitose di cose nuove, ed ora dannandola ora scusandola, stava ad ogni movimento attento. Non era molto scura la notte, ma forte queta. Ed ecco che egli cominciò a sentir lo stropiccio dei piedi di quelli che venivano ed anco sentire qualche paroluccia, ma imperfetta. In questo vide i tre che passavano e ben conobbe il giovine che la matina l’aveva avvisato, ma gli altri dui non puoté egli raffigurare. Nel passare che i tre dinanzi gli fecero, sentí che il profumato, in forma d’amante vestito, disse a colui che portava la scala: – Vedi che tu ponga la scala cosí destramente a la finestra che tu non faccia romore, perché, poi non ci fummo, la mia signora Fenicia mi disse che tu l’avevi appoggiata con troppo strepito. Fa destro e chetamente il tutto. – Queste parole sentí chiaramente il signor Timbreo, che al core gli erano tanti pungenti ed acuti spiedi. E quantunque fosse solo ed altre armi che la spada non avesse, e quelli che passavano avessero, oltra le spade, due arme astate e forse fossero armati, nondimeno tanta e sí mordace era la gelosia che gli rodeva il core e sí grande lo sdegno che lo infiammava, che egli fu vicino de l’aguato uscire ed animosamente quegli assalendo ammazzar colui che amante esser de la Fenicia giudicava, o vero, restando morto, finire in un’ora tanti affanni, quanti per soverchia pena miseramente sofferiva. Ma sovvenutoli de la data fede, e grandissima viltá e sceleragine stimando i giá affidati da la sua parola assalire, tutto pieno di còlera, di stizza, d’ira e di furore, in sé rodendosi, attese de la cosa il fine. Cosí i tre, giunti dinanzi a la finestra de la casa di messer Lionato, a quella banda che si è detto, molto soavemente al balcone la scala appoggiarono, e colui che l’amante rappresentava su vi salí ed entrò ne la casa come se dentro avesse avuto fidanza. Il che poi che lo sconsolato signor Timbreo ebbe veduto, e credendo fermamente che colui che salito era se n’andasse con Fenicia a giacere, assalito da fierissimo cordoglio si sentí tutto svenire. Ma tanto pure in lui il giusto sdegno, com’egli credeva, puoté, che cacciata via ogni gelosia, il fervente e sincero amore che a Fenicia portava non solamente in tutto s’affreddò, ma in crudel odio si converse. Onde, non volendo altrimenti aspettare che il suo rivale venisse fuori da ’l luogo ov’era appiattato, partí ed al suo albergo se ne ritornò. Il giovine, che veduto l’aveva partire e chiaramente conosciutolo, quello di lui pensò che in effetto era. Il perché non dopo molto fece un suo segno ed il salito servidore dismontò, e di brigata a casa del signor Girondo se n’andarono, al quale narrato il tutto, egli fece di questo meravigliosa festa, e giá gli pareva esser de la bella Fenicia possessore. Il signor Timbreo, che molto poco il rimanente de la notte aveva dormito, si levò molto a buon’ora, e fattosi chiamar quel cittadino messinese col cui mezzo aveva al padre domandata Fenicia per moglie, a lui impose quanto voleva che facesse. Costui, de l’animo e voluntá del signor Timbreo pienamente informato e da lui astretto, su l’ora del desinare andò a trovar messer Lionato, che ne la sala passeggiava aspettando che il desinare fosse ad ordine, ove medesimamente era l’innocente Fenicia, che in compagnia di due sorelle di lei minori e de la madre, certi suoi lavori di seta trapungeva. Quivi il cittadino giunto e da messer Lionato graziosamente raccolto, cosí disse: – Messer Lionato, io ho a fare un messo a voi, a la donna vostra ed a Fenicia per parte del signor Timbreo. – Siate il ben venuto, – rispose egli; – e che ci è? Moglie e tu Fenicia, venite ad intender meco ciò che il signor Timbreo ci fa intendere. – Alora il messo di questa maniera parlò: – Egli si suol communemente dire che ambasciatore in riferir quanto gli è imposto non deve pena alcuna patire. Io vengo a voi mandato da altri e duolmi infinitamente ch’io vi rechi nuova che vi annoi. Il signor Timbreo di Cardona a voi, messer Lionato, e a la donna vostra manda, dicendo che voi vi provediate d’un altro genero, imperò che egli non intende d’aver voi per suoceri, non giá per mancamento vostro, i quali egli crede e tiene esser leali e da bene, ma per aver veduto con gli occhi suoi cosa in Fenicia che mai creduto non averebbe. E per questo a voi lascia il proveder ai casi vostri. A te mò, Fenicia, dice egli che l’amore che a te portava mai non deveva ricever il guiderdone che dato gli hai, e che d’altro marito tu ti proveggia, sí come d’altro amante ti sei provista, o vero quello pigli a cui la tua verginitá donasti; perciò che egli non intende aver teco pratica alcuna, poi che prima il facesti sire di Corneto che marito. – Fenicia, udendo questa amara e vituperosa ambasciata, restò come morta. Il simile fece messer Lionato con la donna sua. Tuttavia pigliando animo e lena, che quasi per isvenimento gli era mancata, cosí messer Lionato al messo disse: – Frate, io sempre dubitai, dal primo punto che mi parlasti di questo maritaggio, che il signor Timbreo non starebbe saldo ne la sua domanda, perciò ch’io conosceva bene e conosco che io son povero gentiluomo e non par suo. Nondimeno e’ mi pare che, se egli era pentito di pigliar mia figliuola per moglie, che deveva bastargli dire che non la voleva e non imporle cosí vituperosa macchia di bagascia come fa. Gli è ben vero che ogni cosa fattibile può essere, ma io so come mia figliuola è stata allevata e quali sono i suoi costumi. Iddio giusto giudice fará un giorno, spero, conoscer la veritá. – Con questa risposta partí il cittadino, e messer Lionato restò con questa openione, che il signor Timbreo si fosse pentito di far il parentado, parendogli che forse troppo si abbassasse e tralignasse da’ suoi maggiori. Era il legnaggio di messer Lionato in Messina antichissimo e nobile e di molta riputazione, ma le sue ricchezze erano di privato gentiluomo, ancor che antica memoria ci fosse che i suoi vecchi avevano avute di molte terre e castella con amplissima giurisdizione. Ma per le varie mutazioni de l’isola e per le guerre civili erano de le lor signorie decaduti, come in altre assai famiglie si vede. Ora, non avendo mai il buon padre ne la figliuola veduto cosa meno che onestissima, pensò che il cavaliero la lor povertá e presente fortuna a sdegno s’avesse preso. Da l’altro canto Fenicia, a cui per estrema doglia e svenimento di core erano venuti alcuni accidenti, sentendosi a grandissimo torto incolpare, come fanciulla tenera e delicata, e non avvezza ai colpi di perversa fortuna abbandonando se stessa, piú cara la morte averia avuto che la vita. Onde, da grave e penetrevole dolore assalita, si lasciò andare come morta, e perdendo subito il nativo colore piú a una statua di marmo che a creatura rassembrava. Il perché fu di peso sovra un letto portata. Quivi con panni caldi ed altri rimedii, dopo non molto, furono gli smarriti spiriti rivocati. Ed essendosi mandato per i medici, la fama per Messina si sparse come Fenicia figliuola di messer Lionato infermava sí gravemente ch’era in periglio de la vita. A questa voce vennero di molte gentildonne parenti ed amiche a visitar la sconsolata Fenicia, e intendendo la cagione del male si sforzavano a la meglio che sapevano di consolarla. E come tra la moltitudine de le donne suol avvenire, sovra cosí pietoso caso varie cose dicevano e tutte generalmente con agre rampogne il signor Timbreo biasimavano. Erano per la maggior parte intorno al letto de la giovane inferma. Onde Fenicia, avendo ottimamente inteso quello che detto s’era, ripigliando alquanto di lena e veggendo che per pietá di lei quasi tutte lagrimavano, con debol voce pregò tutte che s’acchetassero. Poi cosí languidamente disse: – Onorande madri e sorelle, rasciugate omai queste lagrime, perciò che a voi non giovano ed a me sono elle di nuova doglia cagione, e al caso occorso niente di profitto recano. Egli è cosí piacciuto a nostro signor Iddio e conviene aver pazienza. La doglia che io acerbissima sento e che mi va a poco a poco troncando lo stame de la vita, non è che sia repudiata, ancor che senza fine mi doglia; ma il modo di questo repudio è quello che mi trafigge fin su ’l vivo e che senza rimedio mi accora. Poteva il signor Timbreo dire che io non gli piaceva per moglie, e il tutto stava bene; ma col modo che mi rifiuta, io so che appo tutti i messinesi io acquisto biasimo eterno di quel peccato che mai, non dirò feci, ma certo di far non ci pensai giá mai. Tuttavia io come putta sarò sempre mostrata a dito. Io ho sempre confessato, e di nuovo confesso, che il grado mio non s’agguagliava a tal cavaliere e barone qual è il signor Timbreo, ché tanto alto maritarmi le poche facultá dei miei non ricercavano. Ma per nobiltá e antiquitá di sangue si sa quello che sono i Lionati, come quelli che sono i piú antichi e nobili di tutta questa isola, essendo noi discesi da nobilissima famiglia romana prima che il signor nostro Giesu Cristo incarnasse, come per antichissime scritture si fa fede. Ora, sí come per le poche ricchezze dico che io non era degna di tanto cavaliere, dico altresí che indegnissimamente sono rifiutata, conciò sia cosa chiarissima che io mai non ho pensato di dar di me ad altrui quello che il diritto vuole che al marito sia serbato. Sallo Iddio che io dico il vero, il cui santo nome sempre sia lodato e riverito. E chi sa se la maestá divina con questo mezzo mi voglia salvare? Ché forse essendo tant’alto maritata, mi sarei levata in superbia e divenuta altiera con sprezzar questo e quella, e forse meno averei conosciuto la bontá di Dio verso me. Or faccia Iddio di me quello che piú gli aggrada, e mi doni che questo mio travaglio ceda a salvezza de l’anima mia. Poi con tutto il core lo prego divotissimamente che al signor Timbreo apra gli occhi, non perché mi ritoglia per sposa, ché a poco a poco morir mi sento, ma a ciò che egli, a cui la mia fede è stata di poco prezzo, insieme con tutto il mondo conosca che io mai non commisi quella follia e sí vituperoso errore, di cui contra ogni ragione sono incolpata, a ciò che, se con questa infamia moro, in qualche tempo discolpata resti. Godasi egli altra donna a cui Iddio l’ha destinato e lungamente seco viva in pace. A me di qui a poche ore quattro braccia di terra basteranno. Mio padre e mia madre e tutti i nostri amici e parenti in tanta pena abbino almeno questo poco di consolazione, che de l’infamia che mi è apposta io sono innocentissima e piglino per testimonio la mia fede, la quale io do loro, come ubidiente figliuola deve dare, ché maggior pegno né testimonio al mondo non posso io al presente dare. E mi basti che innanzi al giusto tribunale di Cristo conosciuta sia di tale infamia innocente. E cosí a lui che me la diede raccomando l’anima mia, che desiosa d’uscire di questo carcere terreno verso lui prende il camino. – Detto questo, fu tanta la grandezza del dolore che intorno al core se le inchiavò e sí fieramente lo strinse, che ella, volendo non so che piú oltra dire, comminciò a perder la favella e balbutire parole mozze, che da nessuno erano intese, e tutto insieme se le sparse per ogni membro un sudor freddissimo, in modo che incrocicchiate le mani si lasciò andar per morta. In questo i medici che quivi ancora erano, non potendo in parte alcuna a sí fiero accidente dar compenso, per morta l’abbandonarono, dicendo che l’acerbitá del dolore era stata sí grande che l’aveva accorata, e si partirono. Né guari si stette che Fenicia ne le braccia di quelle sue amiche e parenti fredda e senza polso rimase, che da tutte fu giudicata per morta. E fatto ritornar uno dei medici, disse, non le trovando polso, che era morta. Quanti alora per lei crudi lamenti, quante lagrime, quanti sospiri pietosi fossero sparsi, a voi, pietose donne, pensar il lascio. Il povero e lagrimoso padre, la scapigliata e dolente madre averebbero fatto piagnere i sassi. Tutte l’altre donne e gli altri che lá erano facevano un miserabil lamento. Giá erano passate da cinque in sei ore e si dava l’ordine de la sepoltura per il giorno seguente. La madre, assai piú morta che viva, poi che la moltitudine de le donne fu partita, ritenne seco una sua cognata, moglie d’un fratello di messer Lionato, e tutte due insieme, non volendo altra persona seco, fatto porre de l’acqua al fuoco, in camera si chiusero, e, spogliata Fenicia, quella cominciarono con acqua calda lavare. Erano stati circa sette ore gli smarriti spiriti di Fenicia a spasso, quando, mentre erano le fredde membra lavate, ritornarono al lor ufficio, e dando la fanciulla manifesti segni che era viva cominciò alquanto aprir gli occhi. La madre e la cognata furono quasi per gridare. Tuttavia facendo buon animo, le posero la mano al core e quello sentirono dar alcuni movimenti. Il perché credettero fermamente la fanciulla esser viva. Onde con panni caldi ed altri argomenti, senza far strepito nessuno, fecero tanto che Fenicia quasi del tutto in sé rivenne ed aprendo ben gli occhi con un grave sospiro disse: – Oimè, ove son io? – Non vedi, – disse la madre, – che tu se’ qui meco e con tua zia? Egli ti era venuto un isvenimento di tal fierezza che noi credevamo che tu fossi morta. Ma lodato sia Iddio che tu sei pur viva. – Ahi quanto era meglio, – rispose Fenicia, – che io fossi morta ed uscita di tanti affanni. – Figliuola mia, – dissero la madre e la zia, – e’ si vuol vivere poi che cosí piace a Dio, e al tutto si dará rimedio. – La madre, celando l’allegrezza che aveva, aperto un poco l’uscio de la camera fece chiamar messer Lionato, che incontinente venne. Com’egli vide la figliuola in sé ritornata, se fu allegro non è da domandare. E molte cose tra sé divisate, primieramente egli non volle che persona alcuna di questo fatto sapesse nulla, deliberando mandar la figliuola fuor di Messina a la villa del suo fratello, la cui moglie era quivi presente. Poi ricreata la fanciulla con cibi delicati e preziosi vini, e quella a la primiera beltá e fortezza ridotta, mandò a chiamar il fratello, e quello di quanto intendeva che facesse ottimamente instrusse. Fu adunque l’ordine che tra loro si compose tale. Condusse messer Girolamo, – ché cosí aveva nome il fratello di messer Lionato, – la notte seguente Fenicia in casa sua e quivi in compagnia de la moglie segretissimamente la tenne. Poi fatto provigione ne la villa di quello che bisognava, mandò una matina a buon’ora fuori essa sua moglie con Fenicia e una sua figliuola e una sorella di Fenicia, che era di tredici in quattordici anni e Fenicia ne aveva sedici. Fecero questo a ciò che Fenicia crescendo e cangiando, come con l’etá si fa, aria, la potesse poi fra dui o tre anni sotto altro nome maritare. Il seguente giorno dopo l’accidente occorso, essendo per tutta Messina la voce che Fenicia era morta, fece messer Lionato ordinare l’essequie secondo il grado suo, e fatta far una cassa, in quella, senza che nessuno se ne accorgesse, non volendo la madre di Fenicia che nessuno se ne impacciasse, fece mettere non so che, e riserrò la cassa, e inchiodatala la fece turar di pece, di maniera che ciascheduno teneva per fermo che colá dentro fosse il corpo di Fenicia. Dapoi su la sera, essendo messer Lionato con i parenti vestiti di nero, accompagnarono la cassa a la chiesa, mostrando cosí il padre e la madre tanta estrema doglia, come se il vero corpo de la figliuola avessero a la sepoltura accompagnato. Il che moveva generalmente ciascuno a pietá, perché, divolgata la cagione de la morte, tutti i messinesi tennero per certo che il cavaliero quella favola s’avesse finta. Fu adunque l’arca messa in terra con general pianto di tutta la cittá, e sovra l’arca fatto un deposito di pietre e quello con l’insegne dei Lionati dipinto. Messer Lionato ci fece scrivere sopra questo epitaffio:


Fenicia fu ’l mio nome, e indegnamente

a crudo cavalier fui maritata,

che poi, pentito ch’io gli fossi data,

femmi di grave error parer nocente.

Io, ch’era verginella ed innocente,

come mi vidi a torto sí macchiata,

prima volli morir ch’esser mostrata

a dito, oimè, per putta da la gente.

Né fu bisogno ferro al mio morire;

ché ’l dolor fiero piú che ’l ferro valse,

quando contra ragion m’udii schernire.

Morendo, Iddio pregai che l’opre false

al fin facesse al mondo discoprire,

poi ch’al mio sposo di mia fé non calse.


Fatte le lagrimose essequie e parlandosi largamente in ogni luogo de la cagione de la morte di Fenicia, e varii ragionamenti su questo facendosi, e tutti mostrando di cosí pietoso accidente compassione come di cosa che fosse stata finta, il signor Timbreo cominciò a sentir grandissima doglia con un certo inchiavamento di core, che non sapeva che imaginarsi. A lui pareva pure che non devesse esser biasimato, avendo egli veduto salire su per la scala un uomo ed entrare in casa. Poi, meglio pensando a le cose vedute ed essendosi giá lo sdegno in gran parte intepidito e la ragione aprendoli gli occhi, diceva fra sé che forse colui, che era in casa entrato, poteva essere o per altra donna o per rubare lá su salito. Sovvenivagli poi che la casa di messer Lionato era grandissima, e che in quella parte ove l’uomo era asceso nessuno abitava, e che non poteva essere che, dormendo Fenicia in compagnia de le sorelle ne la camera di dietro a quella di suo padre e di sua madre, che fosse potuta venire a quella banda, convenendole passar per la camera del padre; di modo che, combattuto ed afflitto da’ suoi pensieri, non ritrovava riposo. Medesimamente il signor Girondo, udita la maniera de la morte di Fenicia e conoscendo chiaramente sé esser stato il manigoldo e omicida di quella, sí perché fieramente era di lei acceso ed altresí per esser stato la vera cagione di tanto scandalo, si sentiva scoppiare di soverchia doglia il core, e quasi disperato fu per ficcarsi un pugnale nel petto due o tre volte. E non potendo né mangiar né dormire, stavasi come uno smemorato, anzi pure spiritato, e farneticando da ogn’ora non poteva pigliar né requie né riposo. A la fine, essendo fatto il settimo dí dei funerali di Fenicia e non li parendo piú poter vivere se al signor Timbreo non scopriva la sceleratezza che fatta aveva, ne l’ora che ciascuno se n’andava a casa per desinare andò verso il palazzo del re ed incontrò esso signor Timbreo che da la corte a l’albergo suo se n’andava, al quale cosí il signor Girondo disse: – Signor Timbreo, egli non vi sia grave venir meco qui presso per un mio servigio. – Egli, che il signor Girondo da compagno amava, seco se n’andò di varie cose ragionando. Onde in pochi passi vennero a la chiesa ove il sepolcro di Fenicia era stato fatto. Quivi giunti, comandò il signor Girondo ai servidori che nessun di loro entrasse in chiesa, pregando il signor Timbreo che altrettanto comandasse ai suoi. Il che egli fece di subito. Entrarono dunque tutti dui soli in chiesa ne la quale non era persona, ed il signor Girondo, inviatosi a la cappella dove era la finta sepoltura, colá condusse il signor Timbreo. Come furono dentro, il signor Girondo, inginocchiatosi innanzi a la sepoltura e sfodrato un pugnale che a lato aveva, quello cosí ignudo diede in mano al signor Timbreo, che tutto pieno di meraviglia attendeva che cosa fosse questa, e ancora non s’era avvisto che sepoltura fosse quella innanzi a cui il suo compagno s’era inginocchiato. Poi, pieno di singhiozzi e di lagrime, cosí al signor Timbreo parlò: – Magnanimo e gentil cavaliero, avendoti io per mio giudicio infinitamente offeso, non sono venuto qui per chiederti perdono, perciò che il mio fallo è tale che non merita perdono. Però se mai pensi far cosa degna del tuo valore, se credi operar cavalierescamente, se desideri far opera accetta a Dio e grata al mondo, metti quel ferro che in mano hai, in questo scelerato e traditor petto e del mio vizioso ed abominevol sangue fa convenevol sacrificio a queste santissime ossa de l’innocente e sfortunata Fenicia, che in questo deposito fu questi dí seppellita, imperò che de la sua indegna ed immatura morte io maliziosamente sono stato la sola cagione. E se tu, piú di me pietoso che io pur di me stesso non sono, questo mi negherai, io con queste mani quella vendetta di me prenderò che per me ultimamente si potrá. Ma se tu sarai quel vero e leal cavaliere che fin qui sei stato, che mai una minima ombra di macchia non volesti sofferire, di te e de la sventurata Fenicia insiememente prenderai debita vendetta. – Il signor Timbreo, avvistosi che quello era il deposito del corpo de la bella Fenicia e sentite le parole che il signor Girondo diceva, era quasi di se stesso fuori non sapendosi imaginare che cosa fosse questa, e pure, da non so che commosso, cominciò amaramente a lagrimare, pregando il signor Girondo che in piè si levasse e piú chiaramente dicesse questa istoria; e con questo gettò via il pugnale lungi da sé. Poi tanto fece e disse che il signor Girondo, in piè levatosi, tuttavia piangendo, cosí gli rispose: – Tu dei saper, signor mio, che Fenicia ardentissimamente fu da me amata e di tal modo che, se io cento etá campassi, mai piú non spero trovar sostegno né conforto, perciò che l’amor mio a la sgraziata fanciulla fu d’amarissima morte cagione. Ché, veggendo io che da lei mai non potei aver una buona guardatura né un minimo cenno a’ miei desiri conforme, quando intesi che a te fu per moglie promessa, accecato dal mio sfrenato appetito, m’imaginai che se io ritrovava modo che tua moglie non divenisse, che di leggero chiedendola poi io al padre l’averei sposata. Né potendomi imaginar altro compenso al mio ferventissimo amore e piú innanzi non considerando, ordinai una trama la piú alta del mondo, e con inganno ti feci veder uno andarle la notte in casa, il quale era uno dei miei servidori. E colui che ti venne a parlare e darti ad intendere che Fenicia aveva l’amor suo altrui donato, fu da me del tutto instrutto e sospinto a farti l’ambasciata che ti fece. Onde fu il seguente giorno Fenicia da te repudiata, e per tal repudio la sfortunata se ne morí e qui fu sepellita. Il perché, essendo io stato il beccaio, il manigoldo ed il crudel assassino che tanto fieramente e te e lei ho offesi, con le braccia in croce, – e alora di nuovo s’inginocchiò, – ti supplico che de la commessa da me sceleraggine tu voglia pigliar la condecente vendetta, imperò che pensando di quanto scandalo sono stato cagione ho il vivere a sdegno. – Queste cose udendo, il signor Timbreo piangeva molto amaramente, e conoscendo il giá commesso errore esser irreparabile e che essendo Fenicia morta non poteva piú tornare in vita, pensò non voler contra il signor Girondo incrudelire, ma perdonandogli ogni fallo far che la fama fosse a Fenicia reintegrata e resole l’onore che senza cagione le era con sí gran vituperio levato. Volle adunque che il signor Girondo si levasse in piede, a cui dopo molti caldi sospiri d’amarissime lagrime mischii, in tal forma parlò: – Quanto era meglio per me, fratel mio, che io mai non fossi nasciuto o, devendo pur venire al mondo, fossi nato sordo, a ciò che mai non avessi udito cosa tanto a me noiosa e grave, per la quale mai piú non viverò lieto, pensando che io per troppo credere abbia colei morta, il cui amore e le singolari ed eccellenti vertuti e doti che in quella il re del cielo aveva collocate, da me altro guiderdone meritavano che infamia vituperosissima e cosí immatura morte. Ma poi che cosí Iddio ha permesso, contra il cui volere non si muove in arbore foglia, e che le cose passate piú tosto si ponno riprendere che emendare, io non intendo di te altra vendetta prendere; ché, perdendo amico sovra amico, sarebbe accrescere doglia a doglia, né per tutto questo la benedetta anima di Fenicia ritornarebbe al suo castissimo corpo che ha fatto il suo corso. D’una cosa ti voglio ben riprendere a ciò che mai piú in simil errore non caschi. E questo è che tu devevi scoprirmi il tuo amore, sapendo che io ne era innamorato e nulla di te sapeva, perciò che io, innanzi che al padre l’avessi fatta richiedere, in questa amorosa impresa ti averei ceduto e, come sogliono fare i magnanimi e generosi spiriti, me stesso vincendo, averei anteposto la nostra amicizia a l’appetito mio; e forse che tu, udite le mie ragioni, ti saresti da questa impresa ritratto e non sarebbe seguito lo scandalo che è successo. Ora la cosa è fatta e rimedio non ci è a far che fatta non sia. In questo vorrei bene che tu mi compiacessi e facessi quanto ti dirò. – Comanda, signor mio, – disse il signor Girondo, – ché il tutto senza eccezione farò. – Io vo’, – soggiunse il signor Timbreo, – che essendo da noi Fenicia stata a torto per bagascia incolpata, che noi quanto per tutti dui si potrá le restituiamo la fama e le rendiamo il debito onore, prima appo gli sconsolati suoi parenti, dapoi appo tutti i messinesi, perciò che, divolgatosi quanto io le feci dire, può di leggero tutta la cittá credere ch’ella fosse una putta. Altrimenti a me di continovo parrebbe aver dinanzi agli occhi l’adirata ombra di lei, che fieramente contra me vendetta a Dio sempre gridasse. – A questo piangendo il signor Girondo subito rispose: – A te, signore, appartiene il comandare ed a me l’ubidire. Io prima per amicizia ti era congiunto; ora per l’ingiuria che fatta ti ho, e che tu come troppo pietoso e leal cavaliere, a me perfido e villano cosí cortesemente perdoni, ti resto eternamente servidore e schiavo. – Dette queste parole, ambidui amaramente piangendo s’inginocchiarono innanzi a la sepoltura, e con le braccia in croce umilmente, l’uno de la sceleraggine fatta e l’altro de la troppa credulitá, a Fenicia e a Dio domandarono perdono. Dapoi, rasciugati gli occhi, volle il signor Timbreo che a casa di messer Lionato il signor Girondo seco n’andasse. Andarono adunque di brigata a la casa e trovarono che messer Lionato, che insieme con alcuni suoi parenti aveva desinato, si levava da tavola; il quale, come udí che questi dui cavalieri gli volevano parlare, tutto pieno di meraviglia si fece loro incontro e disse che fossero i benvenuti. I dui cavalieri, come videro messer Lionato con la moglie vestiti di nero, per la crudel rimembranza de la morte di Fenicia cominciarono a piangere e a pena potevano parlare. Ora, fatto recar duo scanni e tutti postosi a sedere, dopo alcuni sospiri e singhiozzi il signore Timbreo, a la presenza di quanti quivi erano, narrò la dolorosa istoria cagione de l’acerbissima ed immatura morte, come credeva, di Fenicia, e insieme col signor Girondo si gettò a terra, chiedendo al padre e a la madre di lei di cosí fatta sceleratezza perdono. Messer Lionato di tenerezza e di gioia piangendo, ambidui amorevolmente abbracciando, perdonò loro ogni ingiuria, ringraziando Iddio che sua figliuola fosse conosciuta innocente. Il signor Timbreo, dopo molti ragionamenti, a messer Lionato rivolto gli disse: – Signor padre, poi che la mala sorte non ha voluto che io vi resti genero, come era mio sommo disio, vi prego quanto piú posso astringo, che di me e de le cose mie vogliate prevalervi come se il parentado fosse tra noi seguito, perciò che sempre vi averò in quella riverenza ed osservanza che amorevole obediente figliuolo deve avere al padre. E se degnarete comandarmi, trovarete che l’opere mie saranno conformi a le mia parole, perciò che io non so certamente cosa al mondo, quantunque difficile, che io per voi non facessi. – A questo il buon vecchio ringraziò con amorevoli parole il signor Timbreo; in fine gli disse: – Poi che sí largamente tante cortese offerte mi fate e che fortuna avversa m’ha fatto indegno de la vostra affinitá, una cosa piglierò ardire di supplicarvi, la quale a voi sará facile a fare, e quest’è che io vi prego per quella lealtá che in voi regna e per quanto amore mai portaste a la poverella Fenicia, che quando vorrete pigliar moglie sarete contento farmelo intendere e, dandovi io donna che vi piaccia, quella prenderete. – Parendo al signor Timbreo che lo sconsolato vecchio picciola ricompensa di tanta perdita quanta fatta aveva chiedesse, porgendogli la mano ed in bocca basciatolo cosí gli rispose: – Signor padre, poi che cosí leggera cosa mi ricercate, essendovi io di molto maggior ubligato e desiderando farvi conoscere quanto io desideri farvi cosa grata, non solamente non prenderò donna senza saputa vostra, ma quella sola sposerò che voi mi consigliarete e darete. E cosí su la fede mia a la presenza di tutti questi signori gentiluomini vi prometto. – Fece medesimamente il signor Girondo le belle parole a messer Lionato, offerendosi sempre prontissimo a’ suoi piaceri. Fatto questo, i dui cavalieri andarono a desinare e la cosa come era per Messina si sparse, in modo che appo tutti fu chiaro Fenicia indegnamente essere stata incolpata. Similmente quel dí istesso fu Fenicia dal padre per un messo a posta avvisata di quanto era occorso. Del che ella fece meravigliosa festa e divotamente Iddio ringraziò del ricuperato onore. Ora era passato circa un anno che Fenicia stava in villa, ove sí bene andò la bisogna che mai nessuno seppe che fosse viva. Tra questo mezzo il signor Timbreo tenne stretta pratica con messer Lionato, il quale, avvisata Fenicia di quanto intendeva fare, metteva ad ordine le cose al suo proposito pertinenti; ed in questo tempo Fenicia oltra ogni credenza era divenuta bellissima e aveva compiti i dicesette anni di sua etá, e in modo era cresciuta che chi veduta l’avesse non l’averebbe mai per Fenicia conosciuta, massimamente tenendo quella giá esser morta. La sorella che seco stava, ed era di circa quindeci anni e Belfiore aveva nome, pareva proprio un bellissimo fiore, di maniera che poco meno beltá dimostrava de la sorella sua maggiore. Il che veggendo, messer Lionato, che sovente le andava a vedere, deliberò non tardare piú di metter ad effetto il suo pensiero. Onde, essendo un dí in compagnia dei dui cavalieri, disse sorridendo al signor Timbreo: – Tempo è oggimai, signor mio, che de l’obbligo che voi, la vostra mercé, meco avete vi scioglia. Io penso avervi trovata per moglie una giovane gentilissima e bella, de la quale, secondo il parer mio, quando l’averete vista vi contentarete. E se forse con tanto amore non sará da voi presa con quanto eravate per sposar Fenicia, di questo v’assicuro ben io che minor beltá, minor nobiltá e minor gentilezza voi non pigliarete. De l’altre donnesche doti e gentilissimi costumi ella, la Dio mercé, ne è abondevolmente fornita ed ornata. Voi la vederete poi sará in libertá vostra far tutto quello che piú a vostro profitto vi parrá. Domenica matina io ne verrò a l’albergo vostro con quella compagnia che tra parenti e amici miei scieglierò, e voi insieme col signor Girondo sarete ad ordine, perciò che conviene che andiamo fuor di Messina circa a tre miglia, ad una villa ove udiremo messa, e poi si vederá la giovane di cui v’ho parlato e di brigata desinaremo. – Accettò l’invito e l’ordine dato il signor Timbreo, e la domenica col signor Girondo a buon’ora si mise a l’ordine per cavalcare. Ed ecco messer Lionato arrivare con una squadra di gentiluomini, che giá in villa aveva fatto ogni cosa necessaria onoratamente apparecchiare. Come il signor Timbreo fu avvertito del venir di messer Lionato, egli col signor Girondo e servidori a cavallo salí, e dato il buon dí e ricevuto, tutti di brigata di Messina se ne uscirono. E, come in simil cavalcate avviene, di diverse cose ragionando giunsero a la villa che non se ne accorsero, ove furono onoratamente raccolti. Quivi udirono messa in una chiesa a la casa vicina. Finita la messa tutti si ridussero in sala, che era di razzi alessandrini e tapeti onoratamente apparata. Come furono tutti in sala, eccoti che d’una camera uscirono molte gentildonne tra le quali era Fenicia con Belfiore, e proprio pareva Fenicia la luna quando nel ciel sereno piú splende tra le stelle. I dui signori con gli altri gentiluomini le raccolsero con riverente accoglienza, come sempre ogni gentiluomo deve con le donne fare. Messer Lionato alora, preso per mano il signor Timbreo ed a Fenicia accostatosi, la quale Lucilla sempre si era chiamata dapoi che in villa fu condotta: – Ecco, signor cavaliero, – disse, – la signora Lucilla, la quale io vi ho scielta per darvi per moglie quando vi piaccia. E se al mio parer vi atterrete ella sará vostra sposa. Nondimeno voi sète in vostra libertá, di pigliarla o lasciarla. – Il signor Timbreo, veduta la giovane che nel vero era bellissima, ed essendogli su la prima vista meravigliosamente piacciuta, avendo giá deliberato di sodisfare a messer Lionato, stato un poco sovra di sé, cosí disse: – Signor padre, non questa che ora mi presentate, che mi pare una real giovane, accetto, ma ogn’altra che da voi mi fosse stata mostrata averei io accettato. E a ciò che veggiate quanto son desideroso di sodisfarvi e conosciate che la promessa che io vi feci non è vana, questa e non altra piglio io per mia legittima sposa, essendo però il suo voler al mio conforme. – A queste parole rispose la giovane e disse: – Signor cavaliero, io sono qui presta a far tutto quello che da messer Lionato mi sará detto. – Ed io, – soggiunse messer Lionato, – bella giovane, vi essorto a pigliar il signor Timbreo per marito. – Onde, per non dar piú indugio a la cosa, fu fatto cenno a un dottore che ivi era che dicesse le consuete parole secondo l’uso de la santa Chiesa. Il che saggiamente messer lo dottore facendo, il signor Timbreo per parole di presente sposò la sua Fenicia, credendo una Lucilla sposare. Esso signor Timbreo, come prima vide la giovane uscir di camera, cosí intorno al core sentí un certo non so che parendogli nel viso di quella scernere alcune fattezze de la sua Fenicia, e non si poteva saziar di mirarla, di modo che l’amore che a Fenicia aveva portato sentí tutto a questa nuova giovane voltarsi. Fatto questo sponsalizio, si diede subito l’acqua a le mani. In capo di tavola fu messa la sposa. Da la banda destra appo lei fu assiso il signor Timbreo, per scontro a cui sedeva Belfiore, dietro la quale seguiva il cavalier Girondo. E cosí di mano in mano furono posti un uomo ed una donna a sedere. I cibi vennero dilicati e con bellissimo ordine, e tutto il convito fu sontuoso e quieto e gentilmente servito. I ragionamenti, i motti e mille altri trastulli non mancarono. A la fine, recate quelle frutte che la stagione concedeva, la zia di Fenicia, che in villa con lei era per la maggior parte de l’anno dimorata e che appo il signor Timbreo a mensa sedeva, veggendo che il desinar si finiva, come se nulla mai dei casi occorsi avesse sentito, cosí festeggevolmente al signor Timbreo disse: – Signor sposo, aveste voi mai moglie? – Egli da sí fatta madrona domandato si sentí colmar gli occhi di lagrime, le quali prima caddero ch’egli potesse rispondere. Pure vincendo la tenerezza de la natura, di questa maniera rispose: – Signora zia, la vostra umanissima domanda mi riduce a la mente una cosa che sempre ho in core, e per la quale io credo tosto finire i giorni miei. E ben che io de la signora Lucilla mi truovo contentissimo, nondimeno per un altra che amai, e cosí morta amo piú che me stesso, mi sento di continovo un doloroso verme intorno al core, che a poco a poco mi va rodendo e fieramente mi tormenta, con ciò sia cosa che io fui de la sua acerbissima morte, contra ogni debito, sola cagione. – A queste parole il signor Girondo volendo rispondere ed essendo da mille singhiozzi e da le abondanti lagrime che a filo a filo cadevano impedito, pur a la fine con parole mezze mózze disse: – Io, signore, io disleale, fui pur il ministro e il manigoldo de la morte de la infelicissima giovane, che era degna per le sue rare doti viver piú lungamente che non ha fatto, e tu non ci avesti colpa alcuna, ché tutta la colpa fu mia. – In questi ragionamenti, a la sposa cominciarono altresí empirsi gli occhi di lagrimosa pioggia, per la fiera rimembranza dei passati cordogli che sofferti amaramente aveva. Seguitò poi la zia de la sposa e domandò con queste parole al nipote: – Deh, signor cavaliero, per cortesia, ora che altro non ci è che ragionare, ditemi come avvenne questa novella, de la quale voi e quest’altro gentiluomo sí teneramente ancora lagrimate. – Oimè, – rispose il signor Timbreo, – voi volete, signora zia, che io rinnovelli il piú disperato e fiero dolore che mai da me fosse sofferto e che solo pensando mi dispolpi e strugga. Ma per compiacervi con mia eterna doglia e poco onore, ché fui troppo credulo, il tutto vi dirò. – Cominciò adunque egli, e dal principio a la fine non senza caldissime lagrime, e con grandissima pietá e meraviglia degli ascoltanti, tutta la miserabil istoria narrò. Soggiunse alora la madrona: – Meravigliosa e crudel novella mi narrate, signor cavaliero, a cui simile forse mai piú al mondo non avvenne. Ma ditemi, se Dio vi aiuti, se innanzi che questa qui vi fosse stata data per moglie voi avessi potuto suscitar la vostra innamorata, che avereste voi fatto per poterla riaver viva? – li signor Timbreo, tuttavia piangendo, disse: – Giuro a Dio, signora mia, che io di questa mia sposa mi ritrovo molto ben sodisfatto e spero a la giornata di meglio. Ma se prima avessi potuto ricomperare la morta, io averei dato la metá degli anni miei per riaverla, oltra il tesoro che speso ci averei, perciò che veramente io l’amava quanto da uomo che sia si possa donna amare, e s’io mille e mille anni campassi, cosí morta com’è sempre l’amerò, e per amor di lei sempre averò in riverenza quanti ci sono dei suoi parenti. – A questo, non potendo piú il consolato padre di Fenicia celar l’allegrezza che aveva, al genero rivoltato, di soverchia dolcezza e tenerezza di core piangendo, disse: – Mal dimostrate, signor figliuolo e genero che cosí vi debbo appellare, con effetti quello che con la bocca parlate, imperciò che, avendo voi la vostra tanto amata Fenicia sposato e tutta matina statole appresso, ancora non la conoscete. Ove è ito cotesto vostro cosí fervido amore? Ha ella cosí cangiato forma, sono in tanto le fattezze sue cosí cangiate, che avendola appresso non la riconosciate? – Alora alora a queste parole s’apersero gli occhi de l’amoroso cavaliere, e gettatosi al collo de la sua Fenicia, quella mille fiate basciando e di gioia infinita colmo, senza fine con fisi occhi mirava, e tuttavia dolcemente piangeva senza mai poter formar parola, chiamandosi tra se stesso ceco. Narrato poi da messer Lionato come il caso era successo, restarono tutti d’estrema meraviglia ed insiememente molto allegri. Il signor Girondo alora, levatosi da tavola, fortemente piangendo si gettò a’ piedi di Fenicia domandandole con ogni umiltá perdono. Ella subito umanamente il raccolse e con amorevoli parole gli rimise l’ingiurie passate. Al suo sposo poi rivolta che del fallo commesso si accusava, quello con dolcissime parole pregò che piú di simil pratica non le ragionasse, perciò che non avendo egli fallito non le deveva a modo alcuno chieder perdonanza. E quivi, l’uno l’altro basciando e di gioia piangendo, bevevano le lor calde lacrime tutti pieni di estremo contento. Ora, mentre che ciascuno dimorava in grandissimo piacere e che si preparava di carolare e star in festa, il cavalier Girondo a messer Lionato accostatosi, che pieno di gioia pareva che coi diti toccasse il cielo, quello pregò che degnasse di farli una grandissima grazia, che a lui sarebbe di meravigliosa contentezza cagione. Messer Lionato gli rispose che chiedesse, perciò che se era cosa che egli far potesse che molto volentieri e di grado la farebbe. – Ed io, – soggiunse il signor Girondo, – domando voi, signor Lionato, per suocero e padre, la signora Fenicia ed il signor Timbreo per cognati, e la signora Belfiore, che è qui, per mia legitima ed amorevole consorte. – Il buon padre, sentendo accumularsi nuova gioia e quasi fuor di sé per tanta non sperata consolazione, non sapeva se sognava o pur era vero ciò che udiva e vedeva. E parendogli pure che non dormisse, ringraziò di core Iddio che tanto altamente il guiderdonava non l’avendo egli meritato, ed al signor Girondo rivolto umanamente rispose che era contento di quello che a lui piaceva. Onde in quello stante chiamata a sé Belfiore: – Tu vedi, figliola, – disse, – come la cosa va. Questo signor cavaliere ti ricerca per moglie; se tu vuoi lui per marito, io ne sarò contentissimo, e tu per ogni ragione far lo déi; sí che dinne liberamente il tuo volere. – La bella figliuola tutta tremante, con sommessa voce vergognosamente al padre rispose che era presta per far quanto egli volesse. Onde, per non dar indugio a la cosa, il signor Girondo di consentimento di tutti i parenti, con le debite cerimonie de le consuete parole, diede l’anello a la bellissima Belfiore. Del che infinita fu la contentezza di messer Lionato e di tutti i suoi. E perciò che il signor Timbreo aveva la sua cara Fenicia sotto nome di Lucilla sposata, quella alora solennemente sotto il nome di Fenicia di nuovo sposò. Cosí tutto il giorno in balli e piaceri si consumò. Era la bella e gentilissima Fenicia vestita d’una veste di finissimo damasco bianco come pura neve, con un certo abbigliamento in capo che faceva mirabil vedere. Ella era convenevolmente grande, per l’etá che aveva, e assai bene in carne, tuttavia crescendo, come quella che giovanetta era. Il petto sotto il sottile e nobilissimo drappo di finissima seta alquanto rilevato si mostrava, spingendo in fuori la forma di duo pomi rotondi, l’uno da l’altro condecentemente separati. Chi il vago colore del volto vedeva, vedeva una piacevole e pura bianchezza di condecevole e vergineo rossore sparsa; la quale non l’arte, ma la maestra natura, e piú e meno secondo i varii avvenimenti ed atti, d’ostro dipingeva. Il rilevato petto pareva una piacevolissima e quasi viva massa d’alabastro candido e schietto, con la gola ritondetta che di neve sembrava. Ma chi la soavissima bocca, quando le dolci parole formava, aprirsi e serrarsi vedeva, egli certamente poteva dire che aveva veduto aperto un museo inestimabile, di finissimi rubini cinto e pieno di perle orientali, le piú ricche e le piú belle che mai l’odorato Oriente a noi mandasse. Se poi vedevi quei dui begli occhi, anzi due fulgentissime stelle, anzi pur duo folgoranti soli, quando ella maestrevolmente quinci e quindi gli girava, tu potevi ben giurare che dentro a quei placidissimi lumi albergava Amore e che in quel chiarissimo splendore affinava i suoi pungenti strali; e quanto bene campeggiavano le chiome inanellate e sparte, che sovra la pura e spaziosa fronte scherzanti parevano proprio fila di terzo e biondo oro, che al dolce soffiar d’una picciola aura lascivamente si girassero! Erano le braccia di giusta misura, con due bellissime mani sí proporzionatamente fatte, che l’invidia non ci trovarebbe che emendarle. Ed insomma tutta la persona era vaga e snella, e cosí gentilmente da la natura formata, che niente le mancava. Ella poi cosí a tempo e tanto gaiamente, secondo gli accidenti, or parte or tutta la persona moveva, che ogni suo atto, ogni cenno ed ogni movimento era pieno d’infinita grazia, e pareva che a viva forza i cori dei riguardanti involasse. Onde chi Fenicia la disse non si discostò punto dal vero, perciò che ella era una fenice che tutte l’altre giovani di gran lunga di bellezza avanzava. Né ancora men bella presenza dimostrava Belfiore, se non che essendo piú fanciulla, tanta maiestate e tanta grazia negli atti e movimenti suoi non aveva. Ora si stette tutto quel dí in gioia ed in festa, e i dui sposi non si potevano saziare di mirare e goder parlando le lor donne. Ma il signor Timbreo era quello che fuor di modo gioiva, e quasi a se stesso non credeva esser lá dove era, dubitando non s’insognare, o forse che questo non fosse qualche incantamento fatto per arte magica. Finito quel giorno e venuto il dí seguente, s’apparecchiarono per ritornarsene a Messina e quivi far le nozze con quella solennitá che al grado dei dui signori apparteneva. Essi signori sposi prima per messi a posta avevano del successo loro avvisato un loro amico, molto del re domestico, e a lui commesso quanto desideravano che egli facesse. Questi il dí medesimo ne andò a far riverenza al re Piero a nome dei dui cavalieri, e a quello narrò tutta l’istoria de l’amore dei dui cavalieri e quanto dal principio a la fine era successo. Di che il re mostrò non picciola allegrezza. E fatta chiamar la reina, volle che colui intieramente un’altra volta a la presenza di lei tutta l’istoria narrasse. Il che egli puntalmente fece con grandissima sodisfazione e non piccola ammirazione de la reina, che, sentendo il pietoso caso avvenuto a Fenicia, fu astretta per pietá de la giovane a lagrimare. Ora, perciò che a quei tempi nel re Piero piú che in tutti gli altri prencipi regnava liberal cortesia, ed era quello che meglio sapeva rimeritar chiunque il valeva, e la reina altresí era cortese e gentilissima, il re a quella aperse l’animo suo e quanto far intendeva le disse. La reina, udendo cosí magnifica deliberazione, assai commendò il parere la volontá del suo marito e signore. Il perché, fatto con diligenza metter in ordine tutta la corte e fatti invitar tutti i gentiluomini e le gentildonne di Messina, ordinò alora il re che tutti i piú onorati baroni di corte con infinita compagnia d’altri cavalieri e gentiluomini, sotto la cura e governo de l’infante don Giacomo Dongiavo, che era il suo primogenito, andassero fuor di Messina ad incontrar le due sorelle spose. Onde, essendo il tutto alora con bellissimo ordine essequito, cavalcarono fuor de la cittá, e non andarono un miglio che incontrarono le due spose, che con i mariti loro ed altre assai persone verso Messina allegramente venivano. Come furono appresso, l’infante don Giacomo fece rimontar i cavalieri ch’erano a farli riverenza smontati, e seco e con le belle sorelle per nome del padre cortesemente del loro sponsalizio si rallegrò, ed egli fu da tutti con somma riverenza raccolto. L’accoglienze poi di tutti i cortegiani, e degli altri de la compagnia che da Messina veniva, ai dui sposi e a le spose furono non meno gentili che grate. E cosí i dui cavalieri e le mogli loro tutti onestamente ringraziarono, ma sovra tutto a l’infante don Giacomo resero quelle grazie che per loro si poterono le maggiori. Di brigata poi s’inviarono verso la cittá favoleggiando e scherzando come in simili allegrezze si suole. Don Giacomo con piacevoli motti intertenne gran pezza ora la signora Fenicia ed ora la signora Belfiore. Il re, a punto per punto avvisato, quando tempo gli parve, montato a cavallo con la reina e con onorata compagnia d’uomini e di donne, a l’entrare de la cittá riscontrò la bella schiera che arrivava. Ed essendo giá ciascuno smontato a far riverenza al re ed a la reina, furono tutti graziosamente ricevuti. Volse poi il re che tutti rimontassero ed egli si pose in mezzo di messer Lionato e del signor Timbreo. Madama la reina si pose a destra la bella Fenicia e a la sinistra Belfiore. L’infante don Giacomo si mise a paro a signor Girondo. Fecero il medesimo tutti gli altri gentiluomini e gentildonne, venendo tutti di mano in mano con bellissimo ordine, e verso il real palazzo, volendo cosí il re, tutti se n’andarono. Quivi sontuosamente si desinò e dopo il mangiare, per comandamento del re, a la presenza di tutto il convito, il signor Timbreo narrò tutta l’istoria del suo amore. Cominciarono, fatto questo, a ballare, e tutta la settimana il re tenne corte bandita, volendo che ciascuno in quei dí mangiasse al palazzo reale. Finite le feste, il re chiamò a sé messer Lionato e gli domandò che dote era quella che aveva a le figliuole promessa e che modo aveva di darla. Messer Lionato al re rispose che de le doti niente mai s’era favellato e che egli quella onesta dote darebbe loro che le sue facultá patissero. Disse alora il re: – Noi vogliamo dare a le vostre figliuole quella dote che a noi parrá che a loro ed ai miei cavalieri convenga, e non vogliamo che di piú spesa elle vi siano per l’avvenire in conto alcuno. – E cosí il liberalissimo re, con singular commendazione non solamente di tutti i siciliani ma di chiunque l’intese, fattisi chiamare i dui sposi e le loro mogli, volle che tutti solennemente a quanto mai potessero pretendere di dover avere de la roba di messer Lionato renunziassero, ed a questo egli interpose il decreto regio che ogni atto di tal renunzia confermava. Dapoi senza intervallo, non come figliuole d’un suo cittadino ma quasi come sue, le dotò onoratissimamente, e ai dui sposi accrebbe la pensione che da lui avevano. La reina, non meno del re magnifica, generosa e liberale, volle che le due spose fossero donne de la sua corte e le ordinò su alcuni suoi dazii una ricca provigione per ogni anno, e sempre le tenne care. Elle, che nel vero erano gentilissime, di modo si diportarono che in breve ebbero la grazia di quanti erano in corte. Fu anco dato dal re a messer Lionato un ufficio in Messina molto onorevole, del quale egli traeva non picciolo profitto. E veggendosi egli giá attempato, fece di modo che il re lo confermò ad un suo figliuolo. Cosí adunque avvenne al signor Timbreo del suo onestissimo amore, ed il male che il signor Girondo tentò di fare, in bene se gli convertí, e tutti dui dapoi lungamente le lor donne goderono vivendo in grandissima pace, spesse fiate tra loro rammentando con piacere gli infortunii a la bella Fenicia avvenuti. Esso signor Timbreo fu il primo che in Sicilia fondò la nobilissima schiatta dei signori de la casa di Cardona, dei quali oggidí e in Sicilia nel regno di Napoli molti uomini ci serio di non poca stima. In Spagna medesimamente fiorisce questo nobilissimo sangue di Cardona, producendo uomini che da li avoli loro punto non tralignano cosí ne l’arme come ne la toga. Ma che dirò io dei dui nobilissimi fratelli don Pietro e don Giovanni di Cardona, valorosi nel vero ed eccellenti signori e guerrieri? Veggio esser qui presenti alcuni di voi che conosciuto avete il signor don Pietro conte di Colisano e gran contestabile ed amirante di Sicilia, il quale tanto il signor Prospero Colonna, uomo incomparabile, onorava ed il saggio conseglio di quello apprezzava. E certamente che il conte di Colisano era uomo singolarissimo. Morí egli nel fatto d’arme che si fece a la Bicocca, con general dolore di tutta Lombardia. Ma don Giovanni suo fratello, marchese de la Palude, molto innanzi, sotto Ravenna ne la giornata che tra francesi e spagnoli si fece, valorosamente diportandosi fu ammazzato. Ora io, non m’avveggendo, era trascorso in luogo di novellare a far panegirici.


IL BANDELLO AL MAGNIFICO CUGINO CARISSIMO


MESSER GIACOMO FRANCESCO BANDELLO


Sí come chiaramente è noto, la terra nostra di Castelnuovo è posta non molto lontano da le radici de l’Apennino, a la foce ove Schirmia scarca le sue per l’ordinario limpidissime acque in Po. Quivi è l’aria tanto temperata quanto in altro luogo di Lombardia. Del che fanno fede amplissima i molti uomini vecchi che vi si truovano e la sanitá che di continuo vi persevera, perciò che molto di rado suol avvenire che straordinarie infermitá vi regnino. E, tra l’altre, non ci è memoria che in nessuno di quella patria mai si ritrovasse gotta, se forse altrove non sono andati ad abitare. Io mi ricordo, quando era fanciullo, che per miracolo vedeva messer Pietro Grasso, il qual, essendo nato di madre milanese a Milano ed in Milano nodrito, ne la sua vecchiezza venne a fare il rimanente de la sua vita a Castelnuovo, cosí mal concio de la gotta, che non poteva andare né aiutarsi de le mani, ma se ne stava sempre a sedere; e conveniva che dai servidori in qua ed in lá fosse portato, perciò che aveva i piedi gonfi, stravolti e da le gomme nodose resi assiderati ed attratti, e le mani in modo guaste ed i nodi de le dita di sorte aggroppati e fatti gonfi, che parevano carchi di nespole. Da l’altra parte poi, tra i molti vecchi che ci erano, i quali o arrivavano ai cento anni o gli passavano, io vedeva ogni giorno Giacomo de la famiglia dei Secondi, che, per quello che egli ed altri affermavano, passava cento quindici anni, e nondimeno era la sua vecchiezza sí forte e prospera, che per tutto caminava assai dritto de la persona e con la sua vista ancora chiara ed acuta. Ora io, che mi dilettava di fuggir il disagio piú che io poteva ed imitare le grui e le cicogne, soleva, come piú in destro mi veniva, nel tempo de la state andare o in Valtellina a goder que’ freschi di Caspano e dei Bagni del Masino, o vero mi riduceva a Castelnuovo ne le case di mio padre, ove di luglio le notti sí fresche erano che io, che altrove a quei tempi non poteva lenzuolo sopra di me sofferire, quivi tutta la notte dormiva con una buona coperta a dosso, ed il giorno in una saletta terrena senza sentir caldo quel noioso tempo trapassava, avendo sempre compagnia d’amici nostri e di parenti. Avvenne che messer Gian Guglielmo Grasso, uomo costumatissimo e molto letterato e che de la lingua volgare si diletta, mi diede un giorno desinare in casa sua, presso la chiesa dei Servi, ove si trovarono altri di compagnia. Passato il desinare, s’entrò a dire de la guerra civile che ai tempi degli avoli nostri fu tra i dertonesi e loro, per cagione de l’acque del ruscello che fa il molino di Gualdonasce, e da questo ragionamento si travarcò a ragionar de la fondazione de la patria nostra, essendoci chi voleva che l’origine sua da’ goti venisse, ed altri affermano che da’ longobardi fosse stata fondata. Io alora dissi quanto me n’occorreva. Onde si conchiuse che gli ostrogoti insieme con una banda di soldati romani che nel principio del regno di Teodorico sotto di lui militarono prima che egli a Roma levasse l’armi, furono quelli che Castelnuovo fondarono. Dopo questo, cominciandosi ad investigare quali fossero le famiglie discese dai romani e quali quelle che vennero dagli ostrogoti, e dicendone chi una e chi un’altra, messer Bonifazio Grasso, fratello di messer Gian Guglielmo, interrompendo il parlare, narrò una novella accaduta nel principio de la edificazione de la detta nostra patria, la quale fa generalmente da tutti commendata per l’astuzia che usò una fanciulla in uccellar la sua nutrice a ciò che non si scoprisse il suo amore. Io, ritornato a casa, essa novella scrissi e posi appresso l’altre giá da me scritte. E a questi dí, rivolgendo le reliquie dei miei libri e scritti che da la preda che fecero i soldati spagnuoli ne la mia libraria mi sono rimasi, mi venne tra l’altre cose a le mani questa novella, la quale, volendo io secondo che le truovo ridurre in un colpo insieme, m’è parso di donarvi questa sotto la tutela del vostro nome, portando ferma openione che, come disse messer Bonifazio, il giovine del qual si parla in essa novella fosse quello che diede origine a la nostra famiglia. Non è adunque da meravigliarsi se la maggior parte degli uomini del nostro legnaggio cosí sovente e cosí volentieri si lasciano ne l’amor de le donne irretire, poi che il capo del ceppo nostro fu sí amoroso e a le passioni d’amore soggetto. E nel vero questa amorosa passione è tanto piacevole, tanto dolce, tanto dilettevole e tanto per l’ordinario radicata negli animi degli uomini gentili, che non val forza, non sapere, non santitá, né qual altro ingegno sia al mondo per potersene guardare. Di piú poi, se per sorte s’appiglia in rozzo core e di basso sangue, è tanto il valore e poter suo, che quel core innalza, purga e trasforma in altre qualitá e lo rende nobilissimo, come giá piú e piú volte per prova s’è veduto. Resterá adunque questa novella eternamente sotto il nostro nome, se tanto gli scritti miei dureranno, i quali io pure scrissi a ciò che perpetuamente durassero. Vi dirò ciò che ora mi sovviene. Devete sapere che nel martirologio ecclesiastico si legge che del mese d’aprile a Nemausio in Francia, che ora Nimis si appella, fu martirizzato per la fede san Bandello goto. Il che mi fa credere questo nome Bandello esser stato antico appo la nazione dei goti. State sano.