Nuova Cronica/Libro tredecimo

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Libro tredecimo

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Libro dodecimo

I Incomincia il tredecimo libro, come il duca d’Atene occupò la signoria di Firenze, e quello ne seguì.

Convienne cominciare il XIII libro, però che richiede lo stile del nostro trattato; perch’è nuova materia, e grandi mutazioni e diverse rivoluzioni avennero in questi tempi alla nostra città di Firenze per le nostre discordie tra’ cittadini, e male reggimento de’ XX uficiali, come adietro fatto avemo menzione; e fieno sì diverse, ch’io autore, che fui presente, mi fa dubitare che per li nostri successori apena fieno credute di vero; e fu pur così, come diremo apresso. Tornata la detta nobile e grande oste e male aventurosa da Lucca, e rendutasi Lucca a’ Pisani, i Fiorentini, parendo loro male stare, veggendo che meser Malatesta nostro capitano non s’era ben portato nella detta guerra, e per tema del trattato avuto col Bavero, come adietro toccammo, per istare più sicuri, elessono per capitano e conservadore del popolo messere Gualtieri duca d’Atene e conte di Brenna francesco, all’entrante di giugno MCCCXLII, col salaro, cavalieri e pedoni ch’avea mesere Malatesta, per termine d’uno anno. E vollesi a suo diletto overo segacità, per quella seguì apresso, tornare a Santa Croce al luogo di frati minori, e·lla gente sua d’intorno. E poi in calen di agosto apresso, finito il termine di meser Malatesta, gli fu agiunta la capitaneria generale della guerra, e che potesse fare giustizia personale in città e di fuori. Il gentiluomo veggendo la città in divisione, ed essendo cupido di moneta, che·nn’avea bisogno siccome viandante e pellegrino, e ben ch’avesse il titolo del ducato d’Atene no·llo possedea, e per suduzione di certi grandi di Firenze, che al continovo cercavano di rompere gli ordini del popolo, e di certi grandi popolani per essere signori e non rendere i debiti loro a·ccui dovieno dare, e·lle loro compagnie sentendosi in male stato, i quali per inanzi al luogo e tempo ci converrà per necessità fare memoria, al continuo a Santa Croce l’andavano a consigliare, di dì e di notte, che si recasse al tutto la signoria libera della città in mano; il quale duca per le cagioni dette, e vago di signoria, cominciò a seguire il malvagio consiglio, e ad essere crudele e tiranno, per lo modo che nel seguente capitolo faremo memoria, sotto titolo di fare giustizia, per essere temuto, e al tutto farsi signore di Firenze.

II Di certe giustizie che ’l duca fece in Firenze per essere signore.

Avenne che il dì di san Iacopo di luglio MCCCXLII, essendo molti Pratesi iti alla festa a Pistoia, Ridolfo di meser Tegghia de’ Pugliesi venne per entrare in Prato, che·nn’era ribello, con forza degli Ubaldini e con Niccolò conte da Cerbaia, e con certi suoi fedeli, nimici de’ Guazalotri, e de’ nostri contadini masnadieri sbanditi in quantità di XL a cavallo e CCC a piè, che·lli dovea esere data l’entrata della terra; e per sua sventura no·lli venne fatto, ma fu preso con da XX nostri isbanditi andandosene per Mugello agli Ubaldini, e menato a Firenze. Il duca lasciò i nostri isbanditi, di cui avea la giuridizione, e al detto Ridolfo, che non gli era suddito né sbandito di Firenze, a torto gli fece tagliare il capo; e questa fu la prima giustizia che fece in Firenze, onde molto fu biasimato da’ savi uomini di Firenze di crudeltà, e dissesi n’ebbe moneta da’ Guazalotri di Prato suoi nimici, overo il fece come dice il proverbio di tiranni: «Chi a uno offende molti minaccia». Apresso all’entrante d’agosto fece pigliare meser Giovanni di Medici stato per lo nostro Comune podestà in Lucca, e fecegli tagliare il capo, aponendoli (e fece confessare) che per danari avea lasciato fuggire di Lucca nel campo di Pisani meser Tarlato d’Arezzo, cui avea in sua guardia; e i più dissero che non v’ebbe colpa, se non di mala guardia. Apresso del detto mese d’agosto fece pigliare Guiglielmo Altoviti stato per lo nostro Comune capitano d’Arezzo, e feceli tagliare il capo, trovando per sua confessione per lui fatte molte baratterie, e alcuni dissono fu procaccio e spendio di Tarlati d’Arezzo, i quali avea mandati presi a Firenze, come è detto adietro; e a·cciò diamo in parte fede; e condannò uno nipote di quello Guiglielmo e Matteo di Borgo stati inn-Arezzo e Castiglione Aretino, ciascuno in D fiorini d’oro, per baratterie. Ancora fece pigliare Naddo di Cenni di Naddo grande popolano, il quale era stato in Lucca camarlingo sopra le masnade, e fecegli rimettere in camera del Comune IIIIm fiorini d’oro, i quali si disse che con inganno avea avuti da’ Pisani sotto falso trattato tenuto co·lloro, e giurato sopra Corpus Domini di far loro compiere l’accordo d’avere Lucca, quando Cenni di Naddo suo padre era priore di Firenze, come toccammo nel quinto capitolo adietro. E oltre a·cciò gli fece rimettere in camera fiorini IImD d’oro, i quali confessò avere guadagnati in Lucca nelle paghe de’ soldati e vittuaglia; e per grazia e prieghi di molti popolani gli perdonò la vita, e prese da·llui mallevadori di fiorini Xm d’oro, e diegli i confini a Perugia. E per simile modo fece rimettere in camera a Rosso di Ricciardo de’ Ricci, compagno e camarlingo del detto Naddo in Lucca, fiorini IIImDCCC d’oro confessati avuti in sua parte, e guadagnati in Lucca sopra i soldati e vittuaglia, e per simile modo per grandi prieghi perdonatogli la vita, e messo in prigione per l’avere e per la persona.

III Come il duca ingannò e tradì i priori e prese la signoria di Firenze.

Per le sopradette giustizie fatte per lo duca in persone e inn-avere di IIII popolani delle maggiori case di Firenze di popolo, Medici, Altoviti, Ricci, e Oricellai, il duca fu molto temuto e ridottato da tutti i cittadini, e i grandi ne presono grande baldanza, e il popolo minuto grande allegrezza, perch’avea messo mano ne’ reggenti, magnificando il duca, gridando quando cavalcava per la città: «Viva il signore »; e quasi in ogni canto o palazzo di Firenze era dipinta l’arme sua per li cittadini, per avere sua benivolenza, e·cchi per paura. E in questi tempi ispirò e si compié l’uficio di XX rettori stati in Firenze e guastatori della republica per le cagioni dette ne’ loro processi adietro, e lasciando il Comune in debito di più di CCCCm di fiorini d’oro a cittadini, sanza il debito promesso a meser Mastino. Per le quali cagioni il duca ne montò in grande pompa, e crebbegli la speranza del suo proponimento d’essere al tutto signore di Firenze col favore di grandi e del popolo minuto; e per consiglio di certi de’ detti grandi ne richiese i priori ch’allora erano all’uficio. I detti priori cogli altri ordini, dodici e’ gonfalonieri, e gli altri consiglieri, in nulla guisa vollono asentire di sottomettere la libertà della republica di Firenze sotto giogo di signore a vita, il quale non mai fu aconsentito o soferto per li nostri padri antichi né a ’mperadori, né a·rre Carlo, né suoi discendenti, e tanto fossero amici o confidenti in parte guelfa o ghibellina, né per isconfitte o male stato ch’avesse il nostro Comune. Il detto duca per sudducimento e conforto quasi di tutti grandi di Firenze, e spezialmente principali quelli della possente casa de’ Bardi, e Frescobaldi, Rossi, e Cavalcanti, Bondelmonti, e Cavicciuli, e Donati, e Gianfigliazzi, e Tornaquinci, per rompere gli ordini della giustizia ch’erano sopra i grandi, e così promise loro il duca; e di popolo: Peruzzi, Acciaiuoli, Baroncelli, Antellesi e loro seguaci, per cagione del male stato delle loro compagnie, perché il duca gli sostenea inn-istato, non lasciandoli rompere, né strignere a’ loro creditori; e gli artefici minuti, a·ccui spiacea il reggimento stato de’ XX e di popolari grassi: tutti gli profersono aiuto in arme. Il duca, il qual era segace e nudrito in Grecia e in Puglia più che in Francia, veggendosi tanto favore, la vilia di nostra Donna di settembre mandò un bando per la città di fare parlamento la mattina vegnente in sulla piazza di Santa Croce per bene del Comune. I priori e gli altri rettori sentendo la traccia del duca e il suo male consiglio, e non sentendosi forti né proveduti, e temendo che faccendosi il detto parlamento non fosse discordia, e romore, e commovizione di città, sì andarono parte de’ priori e di loro consiglio la sera a Santa Croce a trattare acordo col duca; e dopo molta tirata e dibattuta la querela, rimase molto di notte in questa concordia col duca, che ’l Comune di Firenze gli darebbe la signoria della città e contado per uno anno, oltre al tempo ch’elli l’avea, con quella giuridizione e patti e gaggi ch’ebbe meser Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto gli anni MCCCXXVI; e questo accordo si fermò per vallate carte per più notai dell’una parte e dell’altra, e per suo saramento che conserverebbe in sua libertà il popolo e·ll’uficio di priori e gli ordini della giustizia, riducendosi il detto ordinato parlamento la mattina in sulla piazza di priori per confermare i patti di su detti. La mattina di nostra Donna, dì VIII di settembre, il duca fece armare sua gente intorno di CXX uomini a cavallo, ch’avea in Firenze de’ suoi, e da CCC fanti a piè. Ma quasi tutti i grandi, salvo meser Giovanni della Tosa e’ suoi consorti, furonvi co·llui, ch’aveno cavalli, e i detti popolani suoi amici con armi coperte, e l’acompagnaro da Santa Croce alla piazza de’ priori presso ad ora di terza. I priori e gli altri ordini scesono del palagio, e assettati a·ssedere col duca sulla ringhiera, e fatta la proposta per meser Francesco Rustichelli giudice allora priore e aringando sopra·cciò; ma com’era ordinato il tradimento, non fu lasciato più dire, ma a grido di popolo per certi scardassieri e popolazzo minuto, e masnadieri di certi grandi, dicendo: «Sia la signoria del duca a vita a vita, e viva il duca nostro signore!». E preso per li grandi pesolone per metterlo in sul palagio, e perché il palagio era serrato gridarono: «Alle scure! »; sicché convenne s’aprisse, e tra per forza e inganno il misono in sul palagio in signoria; e’ priori furono messi di sotto nel palagio nella camera dell’arme vilmente. E fu per certi grandi istracciato il libro degli ordini e gonfalone della giustizia, e poste le bandiere del duca in sulla torre, sonando le campane a Dio laudiamo. E fece la mattina due cavalieri, messer Cerritieri de’ Visdomini suo scudiere e famigliare, e Rinieri di Giotto da San Gimignano capitano stato di fanti di priori, il quale aconsentì al tradimento a dare e aprire il palagio, ch’agevole gli era a difendere, com’era tenuto e dovea fare per suo uficio; e assentì al detto tradimento messer Guiglielmo d’Ascesi allora capitano del popolo, il quale rimase poi co·llui per suo bargello e carnefice, dilettandosi di fare crudeli giustizie d’uomini. Ma meser Meliaduso d’Ascoli allora podestà non volle consentire al tradimento del popolo di Firenze, anzi volle rinuziare l’uficio della podesteria; ben si disse per alcuno, tutto fece a frode e ipocresia, però che poi pure rimase uficiale del duca. I grandi feciono gran festa d’armeggiare, e·lla sera grandi luminare e falò. Ivi a due dì apresso si fece il duca confermare signore a vita per li opportuni consigli, e mise i priori nel palagio fu de’ figliuoli Petri dietro a San Piero Scheraggio con XX fanti solamente, ove n’avieno prima cento, levando loro ogni uficio e signoria; e levò l’arme a tutti i cittadini brivileggiati, o di che stato si fosse, e poi all’ottava di nostra Donna fece il duca gran festa e solennità a Santa Croce per la sua signoria, e fece offerere più di CL prigioni; e ’l nostro vescovo sermonando molto il lodò e magnificò al popolo. In questo modo e tradimento usurpò il duca d’Atene la libertà della nostra città, e anullò il popolo di Firenze ch’era durato intorno di L anni, in grande libertà, e stato, e signoria. E noti chi questo leggerà come Iddio per le nostre peccata in poco di tempo diede e promise alla nostra città tanti fragelli, come fu diluvio, carestie, fame, e mortalità, e sconfitte, vergogne d’imprese, perdimenti di sustanza di moneta, e fallimenti di mercatanti, e danni di credenza, e ultimamente di libertà recati a tirannica signoria e servaggio. E però, per Dio, carissimi cittadini presenti e futuri, correggiamo i nostri difetti. Abbiamo tra noi amore e carità, acciò che piacciamo all’Altissimo, e non ci rechiamo a l’ultimo giudicio della sua ira, come assai chiaro e aperto ci mostra per le sue visibili minacce: e questo basti a’ buoni intenditori, tornando a nostra matera de’ processi del duca; che poi apresso ch’ebbe la signoria di Firenze, a dì XXIIII di settembre la signoria d’Arezzo, e quella di Pistoia, ove avea già suoi vicari il duca per lo Comune di Firenze, gli si dierono a vita, e poco apresso per simile modo gli si diè Colle di Valdelsa e San Gimignano e poi la città di Volterra, onde molto li crebbe lo stato e signoria, e ricolse a·ssé tutti i Franceschi e Borgognoni ch’erano al soldo inn-Italia, sicché tosto n’ebbe più di DCCC, sanza gl’Italiani; e molti suoi parenti e baroni vennero a·llui infino di Francia per la novella ita di là della sua signoria e groria. E quando ciò fu raportato al re Filippo di Francia suo sovrano, subitamente disse a’ suoi baroni che gli erano d’intorno in sua lingua: «Alberges est le pelegrin, mas il i a mavoes ostes», il quale fu un propio motto e di vera sentenzia e profezia, come poco tempo apresso gli avenne. Ancora nonn-è da dimenticare di mettere in nota una brieve lettera d’amunizione di grande sentenzia, che·ssi trovò in uno suo forziere quando fu cacciato di Firenze, la quale gli avea mandata il re Ruberto come seppe ch’egli avea presa la signoria di Firenze sanza sua saputa o consiglio, la quale di latino facemmo recare in volgare per seguire il nostro stile, la quale dicea [...].

IV La lettera che i·rre Ruberto mandò al duca d’Atene, quando seppe ch’avea presa la signoria di Firenze.

«Non senno, non vertù, non lunga amistà, non servigi a meritare, non vendicatogli di loro onte, t’ha fatto signore de’ Fiorentini, ma·lla loro grande discordia e il loro grave stato, di che se’ loro più tenuto, considerando l’amore che t’hanno mostrato, credendosi riposare nelle tue braccia. Il modo ch’hai a tenere a volerli bene governare si è questo. Che·tti ritenghi col popolo che prima reggea, e reggiti per lo loro consiglio, non loro per lo tuo; fortifica giustizia e i loro ordini, e come per loro si governavano per sette, fa’ che per te si governino per diece, cioè numero comune, che lega in sé tutti i singulari numeri, ciò vuol dire no·lli reggere per sette né divisi, ma a comune. Abbiamo inteso che traesti quelli rettori della casa della loro abitazione, cioè de’ priori, nel palagio del popolo fatto per loro contentamento del propio; rimettilivi, e abiterai nel palagio ove abitava nostro figliuolo, cioè nel palagio della podestà, ove abitava il duca di Calavra, quando fu signore in Firenze. E se questo non farai, non ci pare che·ttua salute si possa stendere inanzi per ispazio di molto tempo. Re di Gerusalem e di Cicilia. Data a Napoli a dì XVIIII di settembre MCCCXLII,... indizione». E nonn-è da lasciare di fare memoria d’una sformata mutazione d’abito che·cci recaro di nuovo i Franceschi che vennero al duca in Firenze; che colà dove anticamente il loro vestire ed abito era il più bello, nobile e onesto, che null’altra nazione, a modo di togati Romani, sì·ssi vestieno i giovani una cotta overo gonnella, corta e stretta, che non si potea vestire sanza aiuto d’altri, e una coreggia come cinghia di cavallo con isfoggiate fibbie e puntale, e con grande iscarsella alla tedesca sopra il pettignone, e il capuccio vestito a modo di sconcobrini col batolo fino alla cintola e più, ch’era capuccio e mantello, con molti fregi e intagli; il becchetto del capuccio lungo fino a terra per avolgere al capo per lo freddo, e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri inn-arme. I cavalieri vestivano uno sorcotto, overo guarnacca stretta, ivi su cinti, e·lle punte de’ manicottoli lunghi infino in terra foderati di vaio e ermellini. Questa istranianza d’abito, non bello né onesto, fu di presente preso per li giovani di Firenze e per le donne giovani di disordinati manicottoli, come per natura siamo disposti noi vani cittadini alle mutazioni de’ nuovi abiti, e i strani contraffare oltre al modo d’ogni nazione sempre al disonesto e vanitade; e non fu sanza segno di futura mutazione di stato. Lasceremo di ciò, e diremo d’altre novità di fuori che furono ne’ detti tempi.

V Come i Ghibellini d’Arezzo entrarono per furto nella terra, e furonne cacciati.

Nel detto anno, a dì VII di giugno, non esendo ancora il duca al tutto signore di Firenze, se non capitano della guardia della terra e come generale della guerra, i Tarlati rimasi fuori d’Arezzo coll’aiuto del capitano di Furlì, e di quello di Cortona, e que’ da Faggiuola, e Pazzi di Valdarno, e Ubertini, in quantità di CCC cavalieri e IIIm pedoni, la mattina per tempo, per trattato di certi Ghibellini ch’erano dentro, furono intorno ad Arezzo, e·ffu data loro porta Buia, e quella tagliata ed aperta, e buona parte entrati dentro per correre la terra. Le masnade del duca e del Comune di Firenze ch’erano in Arezzo a·ccavallo e a piè cogli altri cittadini guelfi francamente combattendo difesono la terra, e cacciarne fuori per forza i nimici con gran danno di morti e di presi. E poi cacciarono d’Arezzo molti Ghibellini chi per ribelli e·cchi a’ confini, i quali poi con molte castella de’ Tarlati, e che rubellaro, feciono gran danno ad Arezzo. E poi, a dì XXVIIII di luglio, meser Tarlato con CCCC cavalieri e pedoni assai valicò l’Ambra, e venne di qua da Montevarchi, guastando quello ch’era di fuori sanza niuno contasto. E in que’ tempi Francesco di Guido Molle degli Ubertini, fratello del vescovo d’Arezzo, rubellò al Comune di Firenze il loro Castiglione per tradimento di certi terrazzani, salvo la torre ch’era in sulla porta, che v’era il castellano per lo duca; il quale Francesco male proveduto, e per lo soccorso tostano delle nostre masnade a cavallo e a piè ch’erano in Montevarchi, cogli altri Valdarnesi si ricoverò il castello, e fu preso il detto Francesco e menato a Firenze, e il duca gli fece tagliare il capo; e poi il detto Castiglione delli Ubertini prima tutto rubato, e poi tutto arso e diroccato e disfatto.

VI Quando morì Carlo Uberto re d’Ungheria.

Nel detto anno, d’agosto, morì Carlo Uberto re d’Ungheria nipote del re Ruberto e figliuolo fu di Carlo Martello; del quale fu gran danno, però ch’era signore di gran valore in prodezza. Rimasene III figliuoli, Lodovico, e Andreas; il quale Lodovico primogenito fu coronato d’Ungheria, e... secondo overo terzo figliuolo fu coronato re di Pollonia, e poco tempo apresso la reina d’Ungheria, moglie che·ffu del detto Carlo Uberto e figliuola del re di Pollonia valente e savia donna, saputa la morte del re Ruberto, che morì il gennaio vegnente, come tosto apresso si farà menzione, sì passò in Puglia e a Napoli all’altro suo figliuolo Andreas, a·ccui succedea il reame di Cicilia e di Puglia, con molti grandi baroni ungheri, per dare favore e consiglio al detto Andreas, ch’era molto giovane; e all’altro figliuolo... rimase il reame da Pollonia per retaggio della madre.

VII Come il papa fece più cardinali, tra’ quali fu un nostro Fiorentino.

Nel detto anno, per le digiune di settembre, papa Clemento sesto apo Vignone, ov’era la corte, fece X cardinali, i nove oltramontani, e·ll’altro messere Andrea Ghini Malpigli di Firenze antico cittadino d’Orto San Michele, il quale era vescovo di Tornai, e molto amico del re di Francia, e a·ssua preghiera fu fatto cardinale. Ma, come piacque a·dDio, morì fra·ll’anno andando inn-Ispagna per legato, onde fu gran danno, ch’era savio e valoroso, e·sse fosse vivuto avrebbe fatto onore e pro alla nostra città. Abbianne fatta memoria, perché pochi cardinali o papa sono stati in tanta città com’è Firenze, per lo poco studio che’ Fiorentini fanno fare a’ loro figliuoli in chericia, a·lloro difetto. Funne il cardinale Attaviano degli Ubaldini; e dicesi, ma no·llo afermiamo, fu un papa fiorentino di casa Papeschi, e uno cardinale di Bellagi di porta San Piero al tempo d’Arrigo terzo imperadore. Lasceremo alquanto delle novità d’intorno, e seguiremo i processi del duca d’Atene.

VIII Quello che ’l duca d’Atene fece in Firenze mentre ne fu signore.

Come il duca d’Atene fu fatto a vita signore di Firenze per lo modo detto adietro, per avere meno a contendere di fuori, e credendosi fortificare dentro il suo stato e signoria, sì fece di presente pace e accordo co’ Pisani e con tutti i loro allegati, non guardando ad onte o vergogne del Comune di Firenze ricevute, ove i Fiorentini speravano ch’elli facesse ogni loro vendetta; e a dì XIII d’ottobre si piuvicò e bandì in questo modo, che·lla città di Lucca rimanesse a’ Pisani per XV anni, e poi lasciarla inn-stato comune, e rimettendo al presente li usciti guelfi in Lucca che tornare vi volessono, e rendendo loro i loro beni, mettendovi il duca podestà cui elli volesse, il detto tempo rimanendo a’ Pisani la guardia del castello dell’Agosta ch’è in Lucca, e tutta la guardia e dominazione della terra, che·lla podestà per lo duca non avea altro che ’l salaro e ’l nome, che altra signoria poco potea fare più che piacesse a’ Pisani, ma pure era una posessione per lo nostro Comune, e freno a’ Pisani mentre che ’l duca dominava Firenze, e dando i Pisani al duca ogn’anno per censo per lo san Giovanni VIIIm fiorini d’oro in una coppa dorata d’argento, faccendo franchi i Fiorentini in Pisa per V anni, ove prima eravamo franchi per sempre per li patti antichi, rimanendo d’accordo a’ Fiorentini tutte le castella di Valdarno e di Valdinievole, che·ssi tenieno, e Barga e Pietrasanta; e che i Fiorentini dovessono rimettere in Firenze e trarre di bando tutti i loro rubelli e usciti, e nuovi e vecchi, stati al servigio e lega di Pisani, e perdonare agli Ubaldini e Pazzi e Ubertini, e lasciare di prigione i Tarlati d’Arezzo e rendendo loro pace, e trarre di prigione meser Giovanni Visconti di Milano; e così fu fatto di presente; al quale meser Giovanni Visconti il duca vestì nobilemente, e diè cavalli e danari, e fatto acompagnare infino a Pisa, e domandando a’ Pisani il mendo di suoi danni e interessi avuti per loro, gli ingrati Pisani nol vollono udire, ma apuosogli ch’egli era venuto in Pisa per trattare cospirazione nella terra per lo duca, e convenne si partisse villanamente nella terra; della quale cosa meser Luchino signore di Milano prese molto sdegno contro a’ Pisani, come si potrà trovare leggendo. Per lo detto accordo dal duca a’ Pisani tornaro i Bardi e’ Frescobaldi e’ loro seguaci in Firenze, e’ Pisani lasciarono ogni prigione fiorentino e·lloro allegati ch’erano presi in Pisa e in Lucca. A dì XV d’ottobre il duca fece nuovi priori, i più artefici minuti, e mischiati di quelli che loro antichi erano stati Ghibellini; e diè loro un gonfalone di giustizia così fatto di tre insegne, ciò fu di costa all’asta l’arme del Comune, il campo bianco e ’l giglio rosso; e apresso in mezzo la sua il campo azurro biliottato col leone ad oro, e al collo del leone uno scudetto dell’arme del popolo; apresso l’arme del popolo il campo bianco e·lla croce vermiglia, e di sopra il rastrello del re; e mise i priori nel palagetto ove prima stava l’esegutore in sulla piazza con poco uficio e minore balìa, se non il nome, e sanza sonare le campane a martello o congregare il popolo, com’era usanza. Del detto nuovo e disimulato gonfalone i grandi ch’avieno fatto signore il duca e crediansi ch’al tutto il duca annullasse il popolo in detto e in fatto, come avea promesso loro, si turbarono forte, e massimamente perché in que’ dì fece condannare subitamente uno de’ Bardi in Vc fiorini d’oro o nella mano, perch’avea stretta la gola a uno suo vicino popolano che·lli dicea villania. E così puttaneggiava e disimulava il duca co’ cittadini, togliendo ogni baldanza a’ grandi che·ll’aveano fatto signore, e togliendo la libertà e ogni balìa e uficio, altro che ’l nome de’ priori, e al popolo; e cassò l’uficio di gonfalonieri delle compagnie del popolo, e tolse loro i gonfaloni, e ogni altro ordine e uficiali di popolo cassò, se non a suo beneplacito ritegnendosi co’ beccari, vinattieri, scardassieri e artefici minuti, dando loro consoli e rettori al loro volere, dimembrando gli ordini antichi dell’arti a·ccui erano sottoposti per volere maggiori salari di loro lavorii. Per le sudette cagioni e altre fatte per lui, come si troverrà leggendo assai poco apresso, si criò conspirazione contro al duca per li grandi e popolani medesimi che·ll’avieno fatto signore, come tosto si potrà trovare. E fece torre tutte le balestra grosse a’ cittadini, e fece fare l’antiporte al palagio del popolo, e ferrare le finestre della sala di sotto per gelosia e sospetto de’ cittadini, e fece comprendere tutto il circuito dal detto palazzo a quelli che furono di figliuoli Petri, e·lle torri e case di Manieri e di Mancini, e di Bello Alberti, comprendendo tutto l’antico gardingo e ritornando in sulla piazza. E il detto compreso fece cominciare e fondare di grosse mura e torri e barbacani per farne col palagio insieme uno grande e forte castello, lasciando il lavorio di deficare il ponte Vecchio, ch’era di tanta necessità al Comune di Firenze, togliendo di quello le pietre conce e legname. Fece disfare le case di Santo Romolo per fare piazza al castello infino nel Garbo. E mandò a corte al papa per licenza di disfare San Piero Scheraggio, e Santa Cicilia, e Santo Romolo, ma no·lli fu assentito per la Chiesa. Fece torre a’ cittadini certi palagi e fortezze e belle case ch’erano nelle circustanze del palagio, e misevi suoi baroni e sua gente sanza pagare alcuna pigione. Fece fare alle porti nuovi antiporti di costa a’ vecchi per più fortezza, e rimurare le porte. Di donne e di donzelle di cittadini per sé e per sue genti cominciato a·ffare di forze e villanie e di laide cose; intra·ll’altre per cagione di donna tolse San Sebbio a’ poveri, della guardia dell’arte di Calimala, e diello altrui illicitamente. E per amore di donna rendé gli ornamenti alle donne di Firenze, e fece fare il luogo comune delle femmine mondane, onde il suo maliscalco traeva molti danari. Fece fare le paci tra’ cittadini e contadini, e questo fu il meglio che facesse, ma bene ne guadagnò egli e’ suoi uficiali grossamente da coloro che·lle richiedieno. Levò gli assegnamenti a’ cittadini sopra le gabelle, di danari convenuti loro prestare per forza al Comune per fornire la ’mpresa di Lombardia e quella di Lucca, come adietro è fatta menzione, ch’erano più di CCCLm di fiorini d’oro, asegnati in più anni con alcuno guiderdone. E questo fu gran male, e onde i cittadini più si gravaro, e·ffu rompimento di fede al Comune; e molti cittadini, che dovieno avere grossamente dal Comune, ne furono diserti; e recò a·ssé tutte le gabelle, che montavano l’anno più di CCm di fiorini d’oro sanza l’altre entrate e gravezze. Fece fare e pagare l’estimo in città e in contado, che montò più di LXXXm di fiorini d’oro, onde i grandi e’ popolani e’ contadini, che vivono di loro rendite, si tennono forte gravati. E quando fece fare l’estimo, promisse e giurò a’ cittadini di non fare loro altre gravezze d’imposte o di prestanze, o di nuove gabelle, ma no·llo oservò, ma al continovo gravava i cittadini di prestanze, e facea criare e crescere nuove e sforzate gabelle per uno ser Arrigo Fei; e quelli era suo amico, che sapea trovare modi d’avere danari, onde che venissono. E in X mesi e XVIII dì ch’elli regnò gli vennero a mano di gabelle e d’estimo, gravezze, e condannagioni, e altre entrate presso di CCCCm di fiorini d’oro pure di Firenze, sanza quelli che traeva delle terre vicine ch’elli signoreggiava, de’ quali rimandò tra in Francia e in Puglia più di CCm di fiorini d’oro, però che non tenea tra tutte le terre che signoreggiava DCCC cavalieri, e quelli mal pagava; ma al bisogno della sua rovina se n’avide a suo danno e vergogna. Gli ordini de’ suoi uficiali e consiglieri erano in questo modo. I priori, come avemo detto, erano in nome, ma non in fatto, sanza alcuna balìa. Era la podestà mesere Baglione da Perugia, che guadagnava volentieri; messer Guiglielmo d’Ascesi chiamato conservadore overo assessino di lui e bargello, e stava nel palagio de’ Cerchi bianchi nel Garbo. Tre giudici avea ordinati, che·ssi chiamavano della Sommaria, che tenieno corte nelle nostre case e cortili e logge de’ figliuoli Villani da San Brocolo; questi giudici rendieno ragione di fatto con molte baratterie; e uno meser Simone da Norcia giudice sopra rivedere le ragioni del Comune, ed era più barattiere che coloro cui condannava per baratterie, abitava nel palagio fu de’ Cerchi dietro a San Brocolo. Di suo consiglio era il vescovo della Leccia sua terra di Puglia; e suo cancelliere Francesco il vescovo d’Ascesi fratello del conservadore; il vescovo d’Arezzo degli Ubertini, e meser Tarlato, e il vescovo di Pistoia e quello di Volterra, e messere Attaviano de’ Belforti: questi tenea per sicurtà delle loro terre, e vescovi per una sua coperta ipocresia. Con cittadini avea di rado consigli, e poco gli prezzava e meno gli oservava, ristrignendosi solo al consiglio di meser Baglione, e del conservadore, e di mesere Cerritieri de’ Visdomini, uomini corrotti in ogni vizio a·ssua maniera, faccendo i suoi dicreti di fatto e sotto suo sugello, il quale il suo cancelliere si facea bene valere. Signore era di poca fermezza e di meno fede di cosa che promettesse, cupido e avaro e mal grazioso; piccoletto di persona e brutto e barbucino; parea meglio Greco che Francesco, segace e malizoso molto. Fece al suo conservadore impiccare meser Piero di Piagenza uficiale della mercatantia opponendoli baratterie, e che mandava lettere a meser Luchino da Melano, e·cchi disse li fé in parte torto. Fece costrignere i mallevadori di Naddo di Cenni, ch’era a’ confini a Perugia, che tornasse con sua sicurtà, e·llui tornato a dì XI di gennaio, non oservandoli fede, il fece impiccare e colla catena in collo, acciò che non si potesse ispiccare, e tolse a’ suoi mallevadori VmDXV fiorini d’oro, opponendo gli avea frodati al Comune in Lucca, oltre agli altri levatoli prima, e tutti i suoi beni confiscò a·ssé, opponendogli ch’egli avea trattato col Comune di Siena e con quello di Perugia contro a·llui, i quali non amavano la vicinanza e signoria del duca; e forse in parte fu vero. Questo Naddo fu un sottile e sagace uomo, e molto grande e prosuntuoso in popolo e in Comune, ma bene guadagnava volontieri. Il padre, Cenni di Naddo, stato molto grande in Comune, per dolore del figliuolo e tema del duca si fece frate di Santa Maria Novella, e fece bene dell’anima sua, se ’l fece con buona intenzione, per fare penitenzia delle colpe commesse in Comune, e spezialmente inn-isturbare l’accordo co’ Pisani onorevole assai per lo nostro Comune, come toccammo adietro. In questi tempi, del mese di marzo, fece il duca lega e compagnia co’ Pisani, e taglia di IIm cavalieri contro a ogni loro aversaro, i Pisani tenere DCCC cavalieri e ’l duca MCC cavalieri; la qual compagnia molto spiacque ai Fiorentini e a tutti i Toscani guelfi, e poco s’oservò, perché non era piacevole mischiato, né buona compagnia. Del mese di marzo detto il duca fece in contado VI podestadi, uno per sesto, con grande balìa di potere fare giustizia reale e personale e con grandi salari, e i più furono de’ grandi, che di nuovo erano stati rubelli, rimessi in Firenze di poco. La qual nuova signoria molto spiacque a’ cittadini, e più a’ contadini, che portavano la spesa e gravezza. Fece pigliare uno Matteo di Motozzo, e in su uno carro atanagliare, e poi tranare sanz’asse, e impiccare, perch’avea rivelato uno trattato de’ Medici e d’altri che doveano offendere il duca, e nol volle credere, a suo pericolo e danno di quello, gli avenne. L’ultimo dì di marzo fece impiccare in su Monterinaldi Lamberto degli Abati, il quale era stato valente uomo all’oste nostra a Lucca della masnada di meser Mastino, perch’elli gli avea rivelato uno trattato che certi grandi tenieno contro al duca con meser Guidoriccio da Fogliano capitano della gente di mesere Mastino, opponendoli il contrario, che tenea trattato con meser Mastino di torli la signoria. La qual cosa non fu vero, ma·ffu vero quello ch’è detto; ma per le sue opere vivea in grande sospetto e gelosia, e chiunque gli rivelava trattato o da beffe o da dovero, o parlava contro a·llui, facea morire; onde più altri di piccolo affare fece a torto morire di crudeli tormenti per mano del suo carnefice conservadore di male opere. Per la Pasqua della Resurresione, MCCCXLIII, tenne gran festa a’ cittadini e suoi baroni conostaboli e soldati con grandi corredi, ma con mala voglia di cittadini, e fece tenere giostre nella piazza di Santa Croce per più dì, ma pochi cittadini vi giostrarono, che·ggià a’ grandi e a’ popolani cominciavano a spiacere i suoi processi. All’uscita d’aprile MCCCXLIII ordinò e cominciò ad afforzare e chiudere San Casciano e afforzare per riducervi dentro le villate d’intorno, e che·ssi chiamasse Castello Ducale, ma poco andò inanzi. Fecesi in Firenze sei brigate di festa, di gente di popolo minuto vestiti insieme ciascuna brigata per sé, e danzando per la terra. La maggiore fu nella Città Rossa, e il loro signore si nomò lo ’mperadore. L’altra a San Giorgio col Paglialoco; ed ebbono zuffa tra queste due. E una ne fu a San Friano, e una nel borgo d’Ognisanti. L’altra in quello di San Pagolo. L’altra nella via larga delli spadai; e·ffu motiva e assento del duca per recarsi all’amore della Comune e popolo minuto, per quella sforzata vanità; ma poco gli valse al bisogno. Per la festa di san Giovanni fece fare l’oferta all’arti al modo antico sanza gonfaloni, e·lla mattina della festa oltre a’ ceri usati delle castella, ch’erano da XX, ebbe da XXV pali di drappi ad oro, bracchetti, sparvieri e astori per omaggio d’Arezzo, Pistoia, Volterra, San Gimignano, Colle, e da tutti i conti Guidi, da Mangona, Cerbaia, e da Montecarelli, e Puntormo, Ubaldini, Pazzi, e Ubertini, e d’ogni baroncello d’intorno, che·ffu coll’oferta de’ ceri una nobile festa; e raunarsi i detti ceri e pali e·lli altri tributi in su la piazza di Santa Croce, e poi l’uno apresso l’altro andaro al palagio ov’era il duca, e poi a San Giovanni. Fece aggiugnere al palio dello sciamito chermisi di foderallo a rovescio di vaio isgrigiato quant’era l’asta, ch’era molto ricco a vedere. La festa fece ricca e nobile, e·ffu la prima e sezzaia che dovea fare in Firenze per le sue opere. All’uscita di giugno fece fare una sconcia giustizia, che a uno Bettone Cini da Campi, de’ menatori de’ buoi dell’antico carroccio, il quale di poco l’avea il duca fatto di priori, e per la dignità del carroccio vestitolo di scarlatto, però che, poi ch’elli uscì dell’uficio, si dolfe e disse alcuna parola oziosa per una imposta gli era fatta per lo duca, gli fece cavare la lingua infino allo strozzule e con essa inanzi in su una lancia per diligione mandandolo per la terra, e poi pintone fuori a’ confini a Pesero, ove poco apresso per quella tagliatura della lingua morì. Di questa giustiza si turbaro molto i cittadini, e ciascuno la riputava in sé di non potere parlare, né dolersi de’ torti e oltraggi; ma la persona di Bettone era degna di quello, e di peggio, ch’egli era publicano e villano gabelliere, e colla piggiore lingua ch’uomo di Firenze, sì che morì nel peccato suo. A dì II di luglio il duca fermò compagnia e taglia con messere Mastino della Scala, e co’ marchesi da Esti, e col signore di Bologna, e co·llui contrasse parentado, ma più gli era utole la compagnia e benivolenza de’ buoni cittadini di Firenze, la quale al tutto s’avea levata e tolta, e quella che fece con quelli signori poco o niente li valsono al suo bisogno, e poco durò. Assai avemo detto sopra i processi e opere del duca d’Atene fatte in Firenze mentre ne fu signore, e non si potea fare di meno, acciò che sieno manifeste le cagioni perché i Fiorentini si rubellaro della sua signoria, e prendano assempro per lo innanzi quelli che sono a venire di non volere signore perpetuo né a vita. Lasceremo alquanto di questa matera, faccendo incidenza, per raccontare altre novità che furono altrove in questi tempi, tornando assai tosto a contare la fine ch’ebbe in Firenze la sua signoria. Ma di tanto volemo fare prima memoria, e questo sentimmo e sapemmo di vero. Il dì e·ll’ora che prese la signoria, per savi astrolaghi fu preso l’ascendente che·ffu gradi XXII del segno della Libra, segno mobile e opposito del segno d’Aries significatore di Firenze, e in termine di Marti, e Marti nostro significatore era nel detto segno della Libra contrario alla sua casa, e il suo signore Venus nel Leone gradi VIII faccia di Saturno e contradio alla sua tripricità. Per la quale costellazione dissono d’accordo che·lla sua signoria non dovea compiere l’anno, e con mala uscita e vituperevole e con molti tradimenti e romori con arme, ma con pochi micidi. Ma più credo che fosse la cagione il suo male reggimento e·lle sue ree opere per lo suo pravo libero albitro, male usandolo.

IX D’una compagna di gente d’arme che feciono i soldati de’ Pisani.

Come fu fatta la pace dal duca d’Atene e Pisani, come dicemmo adietro, quasi tutti i soldati ch’erano co’ Pisani, intorno di MD Tedeschi a cavallo e più di IIm pedoni di masnade Ghibellini, si partirono di Pisa e feciono una compagna con alcuno piccolo soldo de’ Pisani per levarglisi d’adosso, e fare far danno a’ loro vicini. Vennero per quello di San Miniato, e di San Gimignano, e Colle sanza fare danno alcuno, né toccaro di nostro contado, perch’erano alla signoria del duca; il borgo di Staggia guastarono, e poi stettono più dì a fonte Beccia, tanto che’ Sanesi si ricomperarono IIIIm fiorini d’oro; e però non lasciarono di rubare e ardere più loro villate di Valdambra, e simile feciono in Valdichiane sopra quello di Perugia; e dissesi che·cciò fu ordine del duca d’Atene co’ Pisani; e·cche vi misse danari per fare danno a’ Sanesi e Perugini, però ch’avieno rifiutata sua signoria e compagnia, e voleano vivere liberi e franchi. E poi cresciuta la detta compagnia, valicaro in Romagna e sopra a Rimino per fare vergogna a meser Malatesta stato nostro capitano di guerra, e feciono danno assai; poi si distribuì e partì a soldo di signori e Comuni tra in Romagna e in Lombardia, e venne meno la detta compagna.

X Quando morì il re Ruberto.

Nell’anno MCCCXLII, a dì XVIIII di gennaio, passò di questa vita il re Ruberto re di Gerusalem e di Cicilia e di Puglia di sua malattia nella città di Napoli. E inanzi che morisse, come savio signore dispuose i suoi fatti per l’anima cattolicamente, siccome a tanto signore e divoto di santa Chiesa si convenia. Vivette da LXXX anni, e regnò in Puglia anni XXXIII e mesi. E perch’egli non avea figliuoli altro che due nipote, figliuole che furono del duca di Calavra suo figliuolo, inanzi che morisse, la maggiore fece sposare ad Andreas duca di Calavra e figliuolo che fu del re d’Ungheria suo nipote, come gli avea promesso, e fecelo cavaliere, e farli fare omaggio a·llui e alla moglie a tutti i baroni del Regno, siccome succedente re e reina. Lasciolli grande tesoro, e perch’egli era di piccola età, ordinò i suoi principali baroni governatori e guardiani di lui e del regno a beneplacito della Chiesa. Sopellissi al monistero di Santa Chiara in Napoli, il quale elli avea fatto fare e riccamente dotato a grande onore. E in Firenze se ne fece cordoglio ed esequio molto solenne e di grande luminaria, e di molta buona gente e signori cherici e laici al luogo de’ frati minori a dì XXXI di gennaio. L’aprile seguente il duca di Durazzo nipote del re Ruberto, figliuolo di meser Gianni suo fratello, con dispensagione del papa per procaccio del cardinale di Peragorgo zio del detto duca, sposò l’altra figliuola fu del duca di Calavra, per retare il reame, se·ll’altra sirocchia morisse sanza reda, onde nacque grande isdegno tra·lloro e·lla reina sua zia figliuola fu del re di Maiolica, e moglie del re Ruberto; non avendo figliuolo, compiuto l’anno, si commisse nel monistero a Santo Piero a Castello, ch’ella fatto fare. Questo re Ruberto fu il più savio re che fosse tra’ Cristiani già·ffa cinquecento anni, sì di senno naturale sì di scienzia, come grandissimo maestro in teologia e sommo filosofo. Dolce signore e amorevole fu, e amicissimo del nostro Comune, di tutte le virtù dotato, se non che poi che cominciò a ’nvecchiare l’avarizia il guastava in più guise; iscusavasene per la guerra ch’avea per raquistare la Cicilia, ma non bastava a tanto signore e così savio com’era in altre cose.

XI Come papa Clemento VI ordinò il giubileo e perdono a Roma nel L anno.

Nel detto anno MCCCXLII, del mese di gennaio, papa Clemento VI apo Vignone in Proenza, dov’era la corte co’ suoi cardinali e molti vescovi e arcivescovi, ricordandosi che papa Bonifazio VIII avea ritrovato che ’l giubileo, cioè di C anni in C anni chi andasse a Roma confesso e pentuto di suoi peccati e vicitasse per XV dì continui la chiesa di San Piero e di San Pagolo, gli era perdonato colpa e pena, durando per uno anno il detto perdono, e quello confermato l’anno MCCC, come adietro facemmo menzione, parendo al detto papa e cardinali ch’aspettando l’altro centesimo molti fedeli cristiani che sono vivi per le corte vite degli uomini saranno morti, onde molto perderebbono la grazia e ’l benificio, sì ordinò e confermò che ’l detto giubileo e perdono fosse di L anni in L anni, cominciando l’anno MCCCL per la natività di Cristo, ritraendo per l’autorità della sacra iscrittura che di L anni in L anni si celebrava il giubileo di figliuoli d’Isdrael per comandamento di Dio, tutto fosse in altra forma. Della qual cosa il detto papa e suoi cardinali molto furono commendati da tutti i Cristiani, e maggiormente da’ Romani, che·nn’aspettavano la grascia.

XII D’uno gran fuoco che·ffu in Pietrasanta.

Nel detto anno, del mese di febraio, per fuoco apreso, e·cchi disse fatto mettere per li Pisani, arse gran parte di Pietrasanta, salvo la rocca, e·lli abitanti la volieno abandonare, se non che ’l duca d’Atene, a·ccui guardia era per lo nostro Comune, mandò loro danari e C moggia di grano per sovvenire la loro necessità, e fu ben fatto.

XIII D’alcuna novità stata in Firenze in questo anno.

Nel detto anno e mese di febraio per impetuoso vento caddono le mura del nuovo dormentoro di frati di San Marco, e morìvi sotto due frati e uno laico; ben erano le mura per povertà assai sottili e mal fondate. E nel detto anno si mise la nuova via dal Pozzo Toscanelli su per la costa di sopra Santa Felicita e sopra la chiesa di San Giorgio infino alla porta che va inn-Arcetri, acciò che’ popolani d’Oltrarno potessono soccorrere al bisogno la detta porta, e andare spediti intorno alle mura d’Oltrarno sanza convenirli andare sotto la forza di Rossi e di Bardi, e fu ben fatto per lo popolo. Ancora si recò la misura dello staio, ove si facea al colmo, perché vi s’usava frode si recò a raso, crescendo il colmo nel raso, e più da libra I e mezza in II lo staio del grano; e questo anno valse lo staio del grano da soldi XX, e il seguente anno del MCCCXLIII valse da soldi XXV. E il vino comune di vendemmia carissimo da fiorini V in VI cogno, di soldi LXV e mezzo il fiorino.

XIV Come Messina fu rubellata a que’ d’Araona che·lla signoreggiava, e come la raquistò.

Nel detto anno, anzi da due mesi che il re Ruberto morisse, per suo trattato con certi rubelli di quello don Piero che tenea Cicilia, ciò erano que’ della casa de’ Palizzi i più possenti di Messina, per loro amici e di loro setta corsono la città di Messina con armata mano, e uccisono il vicaro, overo capitano, che v’era per lo loro re, e più di sua gente, e presono il forte castello di San Salvadore, ch’è sopra il porto di Messina; e·cciò fatto, mandarono XXX di loro stadichi a Melazzo per dare di loro fidanza al conte Scalore delli Uberti di Firenze, che v’era per capitano per lo re Ruberto, fatto rubello di don Piero, che mandasse sua gente per la terra e per lo castello, il quale vi mandò quelli che poté, non isfornendo Melazzo. Ancora mandarono a Napoli al re Ruberto per soccorso, il quale se di sùbito v’avesse mandato, come potea e dovea, sanza fallo avea raquistata Messina, e poi tutta l’isola; ma·lla tardezza del re Ruberto e·lla sua avarizia, la quale guasta ogni nobole impresa, o forse volle Idio o promisse per non darli tanta gloria mondana inanzi che morisse, tardò tanto il soccorso, che in quella stanza don Guiglielmo figliuolo fu di don Federigo, guardiano e vicario dell’isola per lo figliuolo del re Piero suo fratello, ch’era di poca età, venne a Messina con CCCC cavalieri e popolo assai, e per li cittadini di sua setta contradi di Palizzi li fu data l’entrata della terra, e corse la città di Messina, e uccisono e cacciaro tutti i loro ribelli e genti che v’erano per lo re Ruberto; e per forza di navi e cocche ch’erano nel porto fece combattere Santo Salvadore, e raquistollo, uccidendo quanti dentro ve n’avea. E nota, che·ssi confa alquanto alla presente matera, ch’è delle maraviglie del secolo, i figliuoli di meser Scalore delli Uberti nostri cittadini Ghibellini e rubelli, e quelli d’Antioccia della casa di Soave, e quelli da Lentino, e ’l conte di XX Miglia, e que’ di meser Palmieri Abati principali, che rubellarono i loro antichi l’isola di Cicilia al re Carlo vecchio, e de’ detti Palizzi di Messina, e altri loro seguaci per soperchio e ingratitudine di Catalani s’erano ribellati da quelli che tenea la Cicilia, e tornati al re Ruberto, ed elli ricevutoli e dotatili nel regno di grande baronie. E ben disse il propio meser Farinata, l’antico delli Uberti, dimandato che cosa era parte, cavallerescamente in brieve rispuose: «Volere e disvolere per oltraggi e grazie ricevute»; e·ffu vera sentenzia.

XV Come il re di Raona tolse Maiolica al re di quella suo cugino.

Nel detto anno il re d’Araona con trattato di grandi borgesi di Maiolica tolse Maiolica al re di quella, suo cugino; la qual cosa fu molto biasimata, e messa per grande tradigione, con tutto che quelli che·nn’era re era uomo di cattiva vita e di poco valore, e tenea per sua amica la nipote, e cacciava la moglie, e non amato da sua gente. Lasceremo di più dire de’ fatti delli strani, e torneremo a nostra matera, a racontare de’ fatti di Firenze; e come il duca d’Atene, che se n’era fatto signore per lo modo detto adietro, ne fu cacciato; e molte revoluzioni e novità che alla nostra città ne seguiro apresso, le quali a·nnoi autore, che·lle vedemmo e fummo presenti, ci paiono quasi impossibili a credere, tanto furono diverse e maravigliose.

XVI Di certe congiurazioni che furono fatte in Firenze contra il duca d’Atene che·nn’era signore.

E’ si dice fra·nnoi Fiorentini uno antico e materiale proverbio, cioè: «Firenze non si muove, se tutta non si duole»; e bene che ’l proverbio sia di grosse parole e rima, per isperienza s’è trovato di vera sentenzia, e viene a caso della nostra presente matera; che a certo il duca nonn-ebbe regnato III mesi, che quasi a’ più di cittadini non dispiacesse nella sua signoria per li suoi inniqui e malvagi processi, come detto avemo adietro, e più ancora che scritto non s’è per noi; però ch’ogni singulare cosa e sue operazioni nonn-ho potuto sapere né ricogliere, ma per le generali e aperte assai si può comprendere. Prima che’ grandi che·ll’aveano fatto signore, e aspettavano da·llui stato e grandezza, come avea loro promesso, sì trovato ingannati e traditi, ed eziandio que’ grandi ch’elli avea rimessi in Firenze, non parea loro esere ben trattati; e i grandi e possenti popolani che prima avieno retta la terra, ch’al tutto gli avea anullati e tolto loro ogni stato, onde il nimicavano a morte. A’ mediani e artefici dispiacea la sua signoria per lo non guadagnare, e per lo male stato della città, e per le ’ncomportabili gravezze sì d’estimo, sì di prestanze, e d’intollerabili gabelle, e per levare che fece a’ cittadini gli asegnamenti sopra le gabelle di danari prestati al Comune. E dove i cittadini avieno speranza che per lo suo reggimento scemasse le spese, e desse loro buono stato, fece il contrario; e per le male ricolte montò il grano in più di soldi XX lo staio, onde il popolo minuto male si contentava. E per li oltraggi delle donne fatti per lui e per le sue genti, e altre forze, e crude giustizie, per le quali cagioni quasi i più di cittadini commossi a mala volontà contro a·llui, onde più congiurazioni s’ordinaro per torli la signoria e·lla vita, chi per una forma, e·cchi per un’altra, non sappiendo al cominciamento l’una setta dell’altra, né s’ardieno a scoprire per le sue crudeli giustizie; che eziandio chi·lle rivelava gli facea morire, come detto è adietro. E principali furono III sette e congiurazioni; della prima fu capo il nostro vescovo degli Acciaiuoli frate predicatore, che al cominciamento delle sue prediche tanto il magnificava e gloriava, e co·llui tenieno i Bardi; ciò furono principali: messere Piero, messere Gerozzo, messere Iacopo, e Andrea di Filippozzo, Simone di Geri, tutti della casa de’ Bardi, e rimessi in Firenze per lo duca, e di Rossi Salvestrino e meser Pino, e più suoi consorti. E de’ Frescobaldi i caporali il priore di Sa·Iacopo meser Agnolo Giramonte anche di rimessi in Firenze per lo duca, e Vieri delli Scali, e più altri grandi e popolani, Altoviti, Magalotti, Strozzi, e Mancini. Dell’altra congiura era capo meser Manno e Corso di meser Amerigo de’ Donati, Bindo e Beltramo e Mari de’ Pazzi, e Niccolò di mesere Alamanno, e Tile Benzi de’ Cavicciuli e certi degli Albizi. Della terza era capo Antonio di Baldinaccio degli Adimari, e Medici, e Bordoni, Oricellai, e Luigi di Lippo Aldobrandini, e più altri popolani mediani. E più modi si trovò che cercaron di torli la signoria e·cchi la vita, chi con trattato di Pisani, chi con Sanesi e Perugini e con conti Guidi, alcuni d’asalirlo in palagio andando al consiglio; ma per sua gelosia, di ciò si provide, che due volte mutò i sergenti e’ famigliari che guardavano il palagio, e per sospetto fece ferrare le finestre del palagio; alcuni di saettarlo quando andava per la terra. L’altra setta ordinaro d’asalirlo in casa gli Albizi il dì di san Giovanni, che vi dovea venire a vedere correre il palio; anche per sospetto non v’andò. La terza setta aveno ordinato, imperò ch’egli cavalcava sovente per amore di donna da casa i Bordoni alla Croce a Trebbio. Questi v’allogaro due case, una da ciascuno capo della via, e quelle guernirono d’arme e di balestra e di sbarre per asserragliare la via dall’uno capo e dall’altro e inchiuderlo nel mezzo, e ordinati da L masnadieri arditi e franchi, che ’l dovieno assalire con certi caporali giovani e grandi e popolani a·ccui ne calea, e aveano voglia di farlo, e assalito il duca, levare la terra a romore, e’ caporali di fuori dovieno esere in arme a cavallo e a piè al soccorso e per atterrare lui e sua compagnia; che al principio cavalcava con XXV o XXX di sua gente disarmati, con alquanti cittadini grandi e popolani, di coloro medesimi ch’erano congiurati contro a·llui. Ma tanto gli fu messo sospetto, che poi menava a sua guardia II masnade di L di sue genti a cavallo armati e da C fanti, e smontato lui da cavallo restavano armati in sulla piazza del palazzo a sua guardia: ma poco gli valieno al suo riparo per l’ordine preso per le dette congiure alla sua rovina; però che quasi tutti i cittadini erano commossi contro a·llui per le sue ree opere. Ma come piacque a Dio, per lo meno male, la terza setta e congiura, la qual era più pronta a·cciò fare, fu scoperta per uno masnadiere sanese, che dovea essere a·cciò fare; il rivelò a meser Francesco Brunelleschi, non per tradimento, ma per consiglio e come a suo signore, credendo il sapesse e tenesse mano alla congiura; il quale cavaliere per paura di non esere incolpato, overo per male di suoi nimici, che di tali erano caporali alla detta congiura, il manifestò al duca, e menogli il detto fante sotto fidanza, il quale ritenne segreto e disaminollo, e seppe d’alcuno ch’era de’ detti congiurati e caporali di masnadieri; e di presente fece pigliare Pagolo di Francesco del Manzeca orrevole popolano di porta San Piero, tutto fosse brigante, e uno Simone da Monterappoli a dì XVIII di luglio, e questi per tormento confessarono e manifestaro come Antonio di Baldinaccio era loro capo con più altri; il quale Antonio richesto, per sicurtà di sua grandezza comparì. Il duca il fece ritenere nel palagio; e·llui preso, tutti gli altri principali d’ogni setta per tema di loro chi·ssi partì della città, e·cchi si nascose, onde tutta la città fu in gelosia e in grande sospetto e tremore. Il duca trovando la congiura contro a·llui sì grande, e·cche tanti grandi e possenti cittadini vi tenieno mano, non ardì di fare giustizia de’ detti presi; che·sse di sùbito l’avesse fatta, e corsa la terra colla sua gente e popolazzo minuto che ’l seguiva, rimaneva signore; ma il suo peccato l’accecò, e·lli misse tanta viltà e paura nell’animo, che non sapea che·ssi fare; e mandò d’intorno alla terre e castella per la sua gente, e al signore di Bologna per aiuto, il quale gli mandò CCC cavalieri. E pensossi di fare una grande vendetta e crudele di molti cittadini con grande tradimento, che perché sabato mattina a dì XXVI di luglio era il dì di santa Anna, e il dì dinanzi fece richiedere più di CCC di maggiori cittadini di Firenze, grandi e popolani d’ogni famiglia e casato, che venissono dinanzi a·llui in palagio per consigliarlo quello ch’avesse a·ffare de’ presi, con intenzione (e questo fu poi fuori di Firenze manifesto) che come fossono ragunati nella sala del palagio, ch’avea le finestre ferrate, come detto avemo, di fare serrare la sala, e quanti dentro ve n’avesse fare uccidere e tagliare, e correre la terra al modo fece l’empissimo Totila Fragellum Dei quando distrusse Firenze. Ma Iddio, che sempre ha guarentita al bisogno la nostra città per le limosine e per li meriti delle sante persone religiose e laici, che vi sono innocenti, la guardò di tanto male e pericolo; che prima misse sospetto in cuore a tutti i richiesti di non andare in palagio al detto consiglio, intra’ quali ve n’avea molti di congiurati, e poi il dì medesimo quasi tutti i cittadini di grande accordo insieme, diponendo tra·lloro ogni ingiuria e malavoglienza, scoprendosi l’una setta all’altra, di loro ordine e trattati tutti s’armarono per rubellarsi da·llui, come diremo apresso nel seguente capitolo.

XVII Come la città di Firenze si levò a romore, e cacciaronne il duca d’Atene che·nn’era signore.

Essendo la città di Firenze in tanto bollore, e sospetto e gelosia, sì per lo duca avendo scoperte le congiurazioni fatte per tanti cittadini contra·llui, e fallitoli il suo proponimento di non potere raccogliere i nobili e possenti cittadini al falso e disleale consiglio, e d’altra parte i cittadini i più possenti sentendosi in colpa della congiura, e sentendo il mal volere del duca, e che già nella terra avea più di DC cavalieri di sue masnade, e ogni dì agiugneva; e·lla gente del signore di Bologna e certi altri Romagnuoli che venieno in suo aiuto avieno già valicata l’alpe, dubitarono che·llo indugio non fosse a·lloro pericolo, ricordandosi del verso di Lucano: «Tolle mora, semper etc. ». Gli Adimari, e Medici, e Donati principali, sabato sonata nona, usciti i lavoranti delle botteghe dì XXVI di luglio, il dì di santa Anna anni Domini MCCCXLIII, ordinarono in Mercato Vecchio e in porta San Piero che certi ribaldi fanti fitiziamente s’azzuffassono insieme, e gridassono: «All’arme, all’arme!»; e così feciono. La terra era insollita e in paura, incontanente tutta corse a furore e a sgombrare i cari luoghi; e di presente, com’era ordinato, tutti i cittadini furo armati a cavallo e a piè, ciascuno alla sua contrada e vicinanza, traendo fuori bandiere dell’armi del popolo e del Comune, com’era ordinato, gridando: «Muoia il duca e’ suoi seguaci, e viva il popolo e ’l Comune di Firenze e libertà!». E di presente fu abarrata e aserragliata tutta la città ad ogni capo di vie e di contrade. Quelli del sesto d’Oltrarno, grandi e popolani, si giurarono insieme e baciarono in bocca, e abarraro i capi de’ ponti, con intenzione che se tutta la terra di qua si perdesse, di tenersi francamente di là. E mandato il dì dinanzi da parte del Comune segretamente per soccorso e aiuto a’ Sanesi; e certi di Bardi e Frescobaldi stati a Pisa e tornati di nuovo in Firenze mandarono per loro ispezialtà per aiuto a’ Pisani. La qual cosa quando si seppe per lo Comune e per li altri cittadini, forte se ne turbaro. La gente del duca sentendo il romore s’armaro e montaro a cavallo, e chi potéo di loro al cominciamento corsono alla piazza del palagio in quantità di CCC a cavallo; gli altri, chi·ffu preso, e rubato per li alberghi, e·cchi per le vie fediti e morti e scavallati, e per li serragli impacciati, e rubati i cavalli e·ll’arme. Al cominciamento trassono al soccorso del duca in sulla piazza di priori certi cittadini amici del duca, cui avea serviti, che non sapieno il segreto delle congiure; ciò furono de’ principali: messer Uguiccione Bondelmonti con alcuno suo consorto e cogli Acciaiuoli, e meser Giannozzo Cavalcanti e di suoi consorti, e Peruzzi, e Antellesi, e certi scardassieri e alcuno beccaio, gridando: «Viva lo signore lo duca!». Ma come s’avidono che quasi tutti i cittadini erano sommossi a furore contro a·llui, si tornarono a casa, e seguirono il popolo, salvo messere Uguiccione Bondelmonti, cui il duca ritenne seco in palagio, e i priori dell’arti per sicurtà di sua persona, i quali erano rifuggiti in palagio. Essendo levato il detto romore e tutta gente ad arme, quelli de’ cinque sesti, ond’erano capo gli Adimari, per scampare Antonio di Baldinaccio loro consorto e gli altri presi per lo duca, e Medici, e Altoviti, e Oricellai, e degli altri offesi da·llui, com’è detto adietro, presono le bocche delle vie che menano in sulla piazza del palagio de’ priori, ch’erano più di XII vie, e quelle abarrarono e aforzarono sicché nullo non potea entrare né uscire del palagio e piazza, e di dì e di notte si combattero colla gente del duca, ch’erano in sul palagio e ’n sulla piazza, ov’ebbe alquanti morti, ma molti fediti di cittadini per lo molto saettamento e pietre che venia del palagio dalla gente del duca. Ma alla fine la gente del duca ch’era in sulla piazza, la sera medesima, non poterono durare e non avendo da vivere, lasciando i loro cavalli, i più di loro si fuggiro nel compreso del palagio ov’era il duca e’ suoi baroni, e alquanti si guerentirono tra’ nostri lasciando l’armi e cavalli, e·cchi preso e·cchi fedito. E come si cominciò il detto romore, Corso di meser Amerigo Donati co’ suoi fratelli e altri seguaci ch’avieno loro amici e parenti in prigione assaliro e combattero la carcere delle Stinche, mettendo fuoco nello sportello e bertesca ch’era di legname, e collo aiuto de’ prigioni dentro ruppero le dette carcere, e uscinne tutti i prigioni, e con quello empito, crescendo loro séguito di meser Manno Donati, e di Niccolò di meser Alamanno, e Tile di Guido Benzi de’ Cavicciuli, e Beltramo de’ Pazzi, e di più altri, ch’avieno loro amici in bando e presi in palagio, assalirono combattendo il palagio della podestà, ov’era mesere Baglione da Perugia podestà per lo duca, il quale né egli né sua famiglia si misono a risistenza, ma con grande paura e pericolo si fuggì a guarentigia in casa gli Albizi, che ’l ricolsono; e·cchi di sua famiglia si fuggì in Santa Croce; e rubato il palagio d’ogni loro arnesi infino alle finestre e panche del Comune; e ogni atto e scritture vi furono prese e arse, e rotta la carcere della Volognana, e scapolati i prigioni; e poi ruppono la camera del Comune, e di quella tratti tutti i libri ov’erano scritti gli sbanditi e rubelli e condannati, e arsi tutti; e simile rubati gli atti dell’uficiale della mercatantia sanza contasto niuno. Altra ruberia od offensione corporale non fu fatta in tanto scioglimento di città, se non contro alla gente del duca; che·ffu gran cosa, e tutto avenne per l’unità in che·ssi trovaro i cittadini a ricoverare la loro libertà e quella della republica del Comune. E·cciò fatto, il detto sabato quelli d’Oltrarno apersono l’entrata de’ ponti, e valicaro di qua a cavallo e a piè in arme, e cogli altri cittadini de’ V sesti feciono levare le sbarre e serragli delle rughe mastre, colle ’nsegne del Comune e del popolo cavalcarono per la città gridando: «Viva il popolo e Comune in sua libertà, e muoia il duca e’ suoi! »; e trovarsi i cittadini più di mille a cavallo ben montati, e inn-arme tra di loro cavalli e di quelli tolti alla gente del duca, e più di Xm cittadini armati a corazze e barbute come cavalieri, sanza l’altro minuto popolo tutto in arme, sanza alcuno forestiere o contadino; il quale popolo fu molto amirabile a vedere, e possente, e unito. Il duca e sua gente veggendosi così fieramente assaliti e assediati dal popolo nel palagio con più di CCCC uomini (e non avea quasi altro che biscotto e aceto e acqua), ma credendosi guarentire dal furioso popolo, la domenica fece cavaliere Antonio di Baldinaccio il quale non si volea fare di sua mano; ma i priori, ch’erano rinchiusi in palagio, vollono si facesse a onore del popolo di Firenze; poi lasciò lui e gli altri cui avea presi, e puose in sul palagio bandiere del popolo, ma però non cessò l’asedio e furia del popolo. La domenica di notte giunse il soccorso di Sanesi, CCC cavalieri e CCCC balestieri molto bella gente, e co·lloro sei grandi e popolani cittadini di Siena per ambasciadori. I Saminiatesi mandato al servigio del nostro Comune IIm pedoni armati, e’ Pratesi D. E venne di presente il conte Simone da Battifolle, e Guido suo nipote con CCCC fanti. E di nostri contadini armati il seguente dì vennero in grandissima quantità al Comune e a’ singulari cittadini, onde tutta la città fu piena d’innumerabile gente. I Pisani mandavano alla richiesta di loro amici, come toccammo adietro, sanza assento del Comune, D cavalieri, i quali vennero infino al borgo della Lastra di là da Settimo. Sentendosi in Firenze, se n’ebbe grande gelosia e grande mormorio contro a que’ grandi a·ccui richiesta venivano; e per lo Comune e per loro fu contramandato che non venissono, e così feciono; ma tornandosi adietro, da quelli di Montelupo e di Capraia e d’Empoli e di Puntormo furono assaliti, e tra morti e presi più di cento pure de’ migliori; e perderono più di CC cavalli, che furono loro tra morti e rubati.

Arezzo sentito come il duca era assediato da’ cittadini di Firenze, incontanente si rubellarono alla gente e uficiali del duca per li Guelfi. E il castello dentro fatto per li Fiorentini rendé Guelfo di meser Bindo Bondelmonti. E Castiglione Aretino rendé Andrea e Iacopo Laino de’ Pulci, che·nn’erano castellani, a’ Tarlati. Pistoia si rubellò, e ridussonsi a·lloro libertà e a popolo guelfi, e disfeciono il castello fatto per li Fiorentini e ripresono Serravalle. E rubellossi Santa Maria a Monte e Montetopoli tenendosi per loro; rubellossi Volterra, e tornò alla signoria di meser Attaviano de’ Belforti, che prima la signoreggiava; e Colle, e San Gimignano dalla signoria del duca, e disfeciono le castella, e rimasono i·lloro libertà. Tale fu la rovina della signoria del duca in Firenze e d’intorno. In pochi giorni venuti in Firenze i Sanesi e·ll’altra amistà, il vescovo con certi buoni cittadini grandi e popolani feciono richiedere a bocca tutta buona gente, e sonare la campana della podestà, e bandire parlamento per riformare lo stato e signoria della città. E congregati tutti in Santa Reparata in arme il lunedì apresso, di grande accordo elessono l’infrascritti XIIII cittadini, VII grandi e VII popolani con piena balìa di riformare la terra e fare uficiali e leggi e statuti, per tempo fino a calen di ottobre vegnente; ciò furono del sesto d’Oltrarno messer Ridolfo di Bardi, messer Pino de’ Rossi, e Sandro di Cenni Biliotti; di San Piero Scheraggio messer Giannozzo Cavalcanti, messer Simone Peruzzi, Filippo Magalotti; per Borgo meser Giovanni Gianfigliazzi, Bindo Altoviti; per San Brancazio messer Testa Tornaquinci, Marco degli Strozzi; per porta del Duomo messer Bindo della Tosa, messer Francesco de’ Medici; di porta San Piero mesere Talano degli Adimari, messer Bartolo de’ Ricci. I detti XIIII elessono per podestà il conte Simone, e ragunavansi nel vescovado. Ma il detto conte, come savio, rinuziò e non voll’essere giustiziere de’ Fiorentini; e però chiamato meser Giovanni marchese da Valiano, e infino che penasse a venire elessono luogotenente di podestà l’infrascritti VI cittadini, uno per sesto, III grandi e III popolani; messer Berto di meser Stoldo Frescobaldi, Nepo delli Spini, meser Francesco Brunelleschi, Taddeo dell’Antella, Paolo Bordoni, Antonio degli Albizi; e stavano nel palagio del podestà con CC fanti pratesi, tegnendo ragione sommaria di ruberie e forze e di simili, sanz’altro uficio. In questa stanza non cessava l’assedio del duca, di dì e di notte combattendo il palagio, e di cercare di suoi uficiali. Fu preso uno notaio del conservadore per li Altoviti stato crudele e reo, fu tutto tagliato a bocconi. E apresso fu trovato meser Simone da Norcia stato uficiale sopra le ragioni del Comune, il quale molti cittadini cui a diritto e cui a torto avea tormentati crudelmente e condannati, per simile modo a pezzi tutto tagliato. E uno notaio napoletano, ch’era stato capitano di sergenti a piè del duca, reo e fellone tutto fu abocconato dal popolo. E ser Arrigo Fei, ch’era sopra le gabelle, fuggendosi da’ Servi vestito come frate, conosciuto da San Gallo fu morto, e poi da’ fanciulli tranato ignudo per tutta la città, e poi in sulla piazza de’ priori impeso per li piedi, e sparato e sbarrato come porco: tal fine ebbe della sua isforzata industria di trovare nuove gabelle, e·lli altri di su detti della loro crudeltà. I signori XIIII col vescovo, e ’l conte Simone e·lli ambasciadori di Siena al continuo erano in trattato col duca per trarlo di palagio, e sovente a vicenda a parte a parte di loro entravano e uscivano di palagio, benché poco piacesse al popolo. Alla fine nulla concordia asentiva il popolo, se non avessono dal duca il conservadore, e ’l figliuolo, e meser Cerritieri per farne giustizia. Il duca in nulla guisa l’asentiva, ma i Borgognoni ch’erano assediati in palagio s’allegarono insieme, e dissono al duca che inanzi che volessono morire di fame e a tormento, darebbono preso lui al popolo, non che i detti tre, e ordinato l’avieno, e il podere avieno di farlo, tanti erano, e sì erano forti. Il duca veggendosi a tal partito acconsentì; e venerdì, a dì primo d’agosto, in sull’ora della cena i Borgognoni presono meser Guiglielmo d’Ascesi, detto conservadore delle tirannie del duca, e un suo figliuolo d’età di XVIII anni, di poco fatto cavaliere per lo duca, ma bene era reo e fellone a tormentare i cittadini, e pinsollo fuori dell’antiporto del palagio in mano dell’arrabbiato popolo, e di parenti e amici cui il padre avea giustiziati, Altoviti, Medici, Oricellai, e quelli di Bettone principali, e più altri, i quali, in presenza del padre per più suo dolore, il suo figliuolo pinto fuori inanzi il tagliarono e smembrarono a minuti pezzi; e·cciò fatto pinsono fuori il conservadore e feciono il somigliante, e chi·nne portava un pezzo in sulla lancia e·cchi in sulla spada per tutta la città; ed ebbevi de’ sì crudeli, e con furia bestiale e tanto animosa, che mangiaro delle loro carni cruda e cotta. Cotale fu la fine del traditore e persecutore del popolo di Firenze. E nota che·cchi è crudele crudelmente dee morire, disit Domino. E fatta la detta furiosa vendetta molto s’aquetò e contentò la rabbia del popolo; e·ffu però scampo di meser Cerritieri, che dovea esere il terzo; ma saziati i loro aversari no·llo domandaro; e fuggendosi la sera fu nascosto e poi traviato da certi di Bardi, e altri suoi amici e parenti. E per la detta furiosa vendetta fatta sopra il conservadore e ’l figliuolo, ch’avea giudicati Naddo di Cenni e Guiglielmo Altoviti e gli altri, poco apresso si feciono cavalieri due delli Oricellai e poi due delli Altoviti; la qual cosa poco fu loro lodata da’ cittadini. Ma torniamo a nostra matera de’ fatti del duca, che·lla domenica apresso, dì III d’agosto, il duca s’arrendé e diede il palagio al vescovo e a’ XIIII e a’ Sanesi e conte Simone, salve le persone di lui e di sue genti. La qual sua gente n’uscirono con gran paura acompagnati da’ Sanesi e da più buoni cittadini. E il duca rinuziò con saramento ogni signoria e giuridizione e ragione ch’avesse aquistata sopra la città contado e distretto di Firenze, dimettendo e perdonando ogni ingiuria; e a cautela promettendo di retificare ciò, quando fosse fuori del contado di Firenze. E per paura della furia del popolo, con sua privata famiglia rimase in palagio alla guardia de’ detti signori infino mercoledì notte di VI d’agosto; e raquetato il popolo, in sul mattutino uscì di palagio acompagnato dalla gente de’ Sanesi e del conte Simone, e di più nobili e popolani e possenti cittadini ordinati per lo Comune. E uscì per la porta di San Niccolò e passò Arno al ponte a Rignano salendo a Valembrosa e a Poppi; e·llà fatta la ritificagione promessa, passò per Romagna a Bologna, e dal signore di Bologna fu bene ricevuto, e donatogli danari e cavalli; e poi se n’andò a Ferrara e a Vinegia. E·llà fatte armare II galee, sanza prendere congio di più di sua gente che gli erano iti dietro, lasciandogli mal contenti di loro gaggi, privatamente di notte si partì di Vinegia, e·nn’andò in Puglia. Cotale fu la fine della signoria del duca d’Atene, ch’avea con inganno e tradimento usurpata sopra in Comune e popolo di Firenze, e il suo tirannico reggimento mentre la signoreggiò, e com’elli tradì il Comune, così da’ cittadini fu tradito. Il quale n’andò con molta sua onta e vergogna, ma con molti danari tratti da·nnoi Fiorentini, detti orbi e inn-antico volgare e proverbio per li nostri difetti e discordie, e lasciandoci di male sequele. E partito il duca di Firenze, la città s’aquetò e disarmarsi i cittadini, e disfecionsi i serragli, e partirsi i forestieri e’ contadini, e apersonsi le botteghe, e ciascuno attese a·ssuo mestiere e arte. E detti XIIII cassarono ogni ordine e dicreto che ’l duca avea fatto, salvo che confermarono le paci tra’ cittadini fatte per lui. E nota che come il detto duca occupò con frode e tradigione la libertà della republica di Firenze il dì di nostra Donna di settembre, non guardando sua reverenza, quasi per vendetta divina così permisse Iddio che i franchi cittadini con armata mano la raquistassono il dì di sua madre madonna santa Anna, dì XXVI di luglio MCCCXLIII; per la qual grazia s’ordinò per lo Comune che·lla festa di santa Anna si guardasse come pasqua sempre in Firenze, e si celebrasse solenne uficio e grande oferta per lo Comune e per tutte l’arti di Firenze.

XVIII Come la città di Firenze si recò a quartieri e si raccomunarono gli ufici co’ grandi, ma poco durò.

Riposato alquanto la città di Firenze del furore della cacciata del duca, i signori XIIII col vescovo tennero più consigli co’ cittadini di riformare la terra dell’uficio di priori e collegio di XII e gonfalonieri e degli altri ufici. A’ grandi parea loro ragionevole, siccom’erano stati principali a ricoverare la libertà del Comune, d’avere parte degli ufici del priorato e di tutti gli altri; e certi popolani grassi ch’erano usi di regnare vi si accordavano per tornare inn-istato collo apoggio di grandi, co’ quali aveano molti parentadi. Gli altri artefici e popolo minuto erano contenti di dare parte loro d’ogni uficio, salvo del priorato e di dodici e gonfalonieri delle compagnie del popolo, e a questi s’acordavano per pace del popolo più al convenevole. Ma pure si vinse per lo vescovo, per l’oficio de’ XIIII e col consiglio di Sanesi che’ grandi avessono parte di tutti gli ufici per più unità di Comune. E con ciò sia cosa che quelli del sesto d’Oltrarno e di San Piero Scheraggio parea loro, che non fosse giusto d’avere uno priore per sesto, ed ellino più grandi che gli altri quattro, e portavano delle gravezze del Comune più che·lla metà, cioè il sesto d’Oltrarno della ’mposta di Cm fiorini d’oro XXVIIIm e San Piero Scheraggio XXIIIm, e Borgo XIIm, e San Brancazio XIIIm; e porta del Duomo XIm, e porta San Piero XIIIm; sì·ssi acordarono di recare la terra a quartieri in questo modo; Oltrarno il primo, e chiamossi il quartiere di Santo Spirito colla ’nsegna in arme, il campo azurro, e una colomba bianca co’ razzi d’oro in becco. Il secondo quartiere fu tutto il sesto di San Piero Scheraggio, togliendo più che ’l terzo di porta San Piero, cominciandosi in Calimala fiorentina al chiasso di Rimaldelli con tutto Orto San Michele, e giù per la via di Sa·Martino, e della Badia e di San Brocolo, rimanendo le dette chiese e più che mezzi i popoli loro nel detto quartiere; e·ffu al diritto per la via di San Brocolo per la Città Rossa infino di costa alla porta Guelfa e mura nuove, togliendo del popolo di San Piero Maggiore e di Santo Ambruogio infino a mezza alla via Ghibellina, e più quello ch’era di là dalla via Ghibellina del detto popolo; e questo si chiamò il quartiere di Santa Croce, coll’arme il campo azurro e·lla croce ad oro. Il terzo quartiere fu tutto il sesto di Borgo e quello di San Brancazio, e chiamarlo il quartiere di Santa Maria Novella, coll’arme il campo azurro e uno sole con razzi d’oro. Il quarto quartiere fu tutta porta del Duomo col rimanente di porta San Piero, e chiamarlo il quartiere di San Giovanni, coll’arme il campo azurro e colla cappella di San Giovanni ad oro, con due chiavi dal lato al Duomo per contentare in parte quelli di porte San Piero, che solo di cinque sesti era partito quello per lo modo ch’è detto; che in prima erano i confini di porte San Piero cominciando alla casa dell’arte della lana e tutto Orto San Michele, dividendo la via che viene da casa i Cerchi Bianchi, volgendosi nel Garbo al chiasso che parte le case de’ Sacchetti alle case della Badia e mezzo il palagio del podestà, e tutta quasi quella via dall’uno lato e dall’altro infino alla via delle Taverne, e poi mezza la via Ghibellina, e poi passava quella al crocicchio di sopra infino al Tempio, e tutta quasi l’isola dentro alle mura e del popolo di Santo Ambruogio, ed era del sesto di porta San Piero. Partita la terra a quartieri, sì s’ordinò per lo vescovo e per li XIIII lo squittino per fare i priori, ed elessono XVII popolani e VIII grandi per quartiere, e co·lloro i detti XIIII e ’l vescovo, sicché in tutto furono CXV; e per lo consiglio de’ Sanesi e del conte Simone, per recare la città più a comune, sì ordinaro d’eleggere XII priori per uficio, III per quartiere, uno di grandi e II di popolo, e VIII consiglieri a diliberare le gravi cose co’ priori, in luogo di XII come solieno esere, cioè IIII grandi IIII popolani, II per quartiere, e tutti gli altri ufici fossero per metà co’ grandi. Compiuto il detto squittino di grande acordo, fu messa una voce per la terra, che de’ priori dovea esere meser Manno Donati e di simili caporali di case troppo possenti, onde il popolo si turbò forte, e·ffu quasi in arme per contradiare infino che non furono tratti e palesati i nuovi priori; ciò fu dì II all’uscita d’agosto, dovendo stare infino a Ognisanti. I nomi de’ quali furono questi: nel quartiere di Santo Spirito Zanobi di meser Lapo di Mannelli di grandi, Sandro da Quarata, Niccolò di Cione Ridolfi popolani; nel quartiere di Santa Croce meser Razzante di Foraboschi di grandi, Borghino Taddei, Nastagio Tolosini popolani; nel quartiere di Santa Maria Novella Ugo di Lapo delli Spini di grandi, meser Marco di Marchi giudice, Antonio d’Orso popolani; nel quartiere di San Giovanni meser Francesco Trita delli Adimari di grandi, e Billincione degli Albizi e Neri di Lippo popolani. E gli otto consiglieri de’ priori, II per quartiere, furono questi: Bartolo di meser Ridolfo de’ Bardi, Adoardo Belfredelli, Domenico di meser Ciampolo Cavalcanti, meser Francesco Salvi giudice, Nepo delli Spini, ser Piero di ser Feo da Signa, Beltramo de’ Pazzi, e Piero Rigaletti. Veggendo il popolo ch’erano convenevoli e pacifichi grandi, e non di tiranni gli eletti, s’aquetarono, ma però malcontenti di sì fatto mischiato, come poco apresso si mostrò. E messi i detti priori in palagio, i XIIII si tornarono a·ccasa loro, riserbandosi la loro balìa, e ragunandosi alcuno dì della settimana in vescovado col vescovo a ordinare l’altre bisogne del Comune.

XIX Come il popolo trassono i grandi dell’uficio del priorato, e riformaro la terra.

Ma il nimico dell’umana generazione e d’ogni concordia seminò la sua superbia e invidia nell’animo di certi malvagi grandi e popolani. Prima veggendosi certi rei de’ grandi il favore della signoria, e non essendo rifermi gli ordini della giustizia; e bene avieno ordinato i XIIII che·ssi facesse uno libro di malabbiati, ove si scrivessono i mafattori de’ grandi, e quelli fossero puniti, ma però non si raffrenavano i malvagi grandi, ma cominciaro a·ffare delle forze e micidi in città e in contado, e di false accuse contra i popolani, onde i popolani si tenieno mal contenti della loro consorteria delli ufici, e cominciaro forte a dubitare di maggiore pericolo, sentendo che colle borse dello squittino avea di maggiori caporali grandi di Firenze. Onde il popolo si commosse contro a’ grandi, e collo aiuto e favore di meser Giovanni della Tosa, e di mesere Antonio degli Adimari, e di meser Geri de’ Pazzi cavalieri del popolo, a’ quali dispiacea i modi di tali di loro consorti e degli altri grandi contro al popolo, e non parea loro stato fermo. Bene ci ebbe anche colpa la ’nvidia di certi popolani, che non volieno negli ufici volentieri la compagnia di loro maggiori, e per essere più signori e fare del Comune a·lloro guisa; onde segretamente trattato co’ detti cavalieri e con certi caporali di popolo, e col vescovo, e con certi de’ priori medesimi, ch’erano all’uficio e popolani, di recare il secondo uficio di priori ch’uscisse pure agli otto popolani, due per quartiere, e uno gonfaloniere di giustizia, e nullo de’ grandi per lo meglio del Comune e del popolo, rimanendo a comune co’ grandi gli altri ufici; ed era ben fatto per aquetare il popolo. Il vescovo credendo ben fare, se ne scoperse a’ compagni suoi XIIII, ch’erano, come detto è, VII grandi pure di maggiori, dicendo ch’era il meglio di farlo d’amore e d’accordo co’ grandi, onde ne tenne co’ detti suoi compagni e con altri grandi più consigli in Santa Felicita Oltrarno, ov’erano capo i Bardi e’ Rossi e’ Frescobaldi e di più altre case di grandi di Firenze, pregandoli che·cciò asentissono; i quali nulla ne vollono udire, parlando di grosso e con minacce: «Noi vedremo chi·cci torrà la parte nostra della signoria, e·cci vorrà cacciare di Firenze, che·lla francammo dal duca». E di ciò erano più principali i Bardi, chiamando il vescovo traditore, ch’avea tradito prima il Comune e popolo, e data la signoria al duca, e poi tradito e cacciato lui, «e ora vuogli tradire noi»; e cominciarsi a fornire d’armi e di gente, e a mandare per amici di fuori. Sentendosi questo per la città, tutta fu in gelosia e sotto l’arme, col consiglio e ordine di sopradetti III cavalieri del popolo, che·nn’erano capo; sì vennero molti popolani armati sulla piazza de’ priori gridando: «Viva il popolo, e muoiano i grandi traditori!»; gridando a’ priori popolani ch’erano in palagio: «Gittatene dalle finestre i priori vostri compagni de’ grandi, o·nnoi v’arderemo in palagio co·lloro insieme»; e recarono la stipa, e misono il fuoco all’antiporto del palagio. I priori popolani scusavano i loro compagni di grandi, dicendo ch’erano diritti e·lleali e bene inn-accordo, con tutto che i più di loro il dicevano alla ’nfinta, ed era stato loro operazione. Alla fine crescendo la forza e furore del popolo, convenne che’ detti priori de’ grandi rinuziassono all’uficio, e per grazia uscissono di presente di palagio sotto sicurtà del popolo, e con grande paura acompagnati a casa loro; e·cciò fu lunedì a dì XXII di settembre MCCCXLIII. E nota che in così piccolo tempo la città nostra ebbe tante novità e varie rivoluzioni, come avemo fatto menzione, e faremo nel seguente e terzo capitolo. E bene difinì il grande filosofo maestro Michele Scotto quando fu domandato anticamente della disposizione di Firenze, che·ssi confa alla presente matera; disse in brieve motto in latino: «Non diu stabit stolida Florenzia florum; decidet in fetidum, disimulando vivet». Ciò è in volgare: «Non lungo tempo la sciocca Firenze fiorirà; cadrà in luogo brutto, e disimulando vive». Ben disse questa profezia alquanto dinanzi la sconfitta di Monte Aperti; ma poi pure asseguito ciò si vede manifesto per nostri processi. E ’l nostro poeta Dante Allighieri scramando contra al vizio della incostanza de’ Fiorentini nella sua Commedia, capitolo VI Purgatoro, disse intra·ll’altre parole:

Attena e·lLacedemonia, che fenno

L’antiche leggi e furon sì civili,

Feciono al viver bene un piccol cenno

Verso di te, che·ffai tanto sottili

Provedimenti, ch’a mezzo novembre

Non giugne quel che·ttu d’ottobre fili.

E bene fu profezia e vera sentenzia in questo nostro fortuito caso, e in quelli che seguiranno apresso, per le nostre disimulazioni. Partiti i quattro priori di palagio di grandi, e disfatto l’uficio delli otto loro consiglieri mischiato co’ grandi, col consiglio delle capitudini delle XXI arti, i priori popolari ch’erano rimasi all’uficio elessono i XII consiglieri de’ priori, tutti popolani, ed elessono gonfalonieri delle compagnie del popolo; e de’ XVIIII ch’erano prima che ’l duca regnasse gli recarono a XVI, quattro per quartiere; e feciono gonfaloniere di giustizia Sandro da Quarata, ch’era de’ priori; e feciono il consiglio del popolo LXXV per quartiere. Così fortunando e disimulando si rifermò la città alla signoria del popolo.

XX Di quello medesimo, e d’altre novità che·nne seguirono.

Tegnendosi i grandi forte gravati della villana disposizione di loro priori, e volentieri a·lloro podere n’avrebbono fatta vendetta, e minacciavano al continuo, e d’altra parte temieno della forza e furia dell’arrabbiato e commosso popolo, sì·ssi guernirono d’arme e di cavalli, e mandarono per gente e·lloro amistà. Il popolo non raquetato, rifeciono i serragli per la città più grandi e più forti che quando fu cacciato il duca, faccendo grande guardia di dì e di notte e stando sotto l’arme, temendo che i grandi non facessono novità, e rimandaro pe’ Sanesi e per altra amistà. In questo bollore di città si levò uno folle e matto cavaliere popolano, messere Andrea delli Strozzi, contro a volere de’ suoi consorti, montò a cavallo coverto armato, ragunando rubaldi e scardassieri e simile gente volonterosi di rubare, in grande numero di parecchie migliaia, promettendo loro di farli tutti ricchi, e dare loro dovizia di grano, e farli signori, menandoglisi dietro per la terra, il martedì apresso, dì XXIII di settembre, gridando: «Viva il popolo minuto, e muoiano le gabelle e ’l popolo grasso!»; e così ne vennono sanza contasto in sulla piazza de’ priori per assalire il palagio, dicendo di volervi mettere e fare signore del popolo messere Andrea. E fattigli ammunire da’ priori e da’ consorti di meser Andrea e altri buoni popolani, e comandare al detto commosso popolo e a meser Andrea che·ssi si partissono, non ebbe luogo infino che dal palagio non si cominciò a gittare e pietre e saettare verrettoni, onde alcuno ne fu morto e molto fediti. Allora lo scomunato e disarmato popolazzo col loro pazzo caporale si partiro, e vennero al palagio della podestà per prenderlo, ma per simile modo saettandosi di palagio per la gente del marchese da Valiano podestà, e collo aiuto di buoni popolani vicini, gli mandarono via, e cominciarsi a sciarrare, e·cchi andare in una parte e·cchi in un’altra lo scomunato popolo; e mesere Andrea bestia, tornato a casa, fu preso da’ consorti suoi e vicini, e mandato a suo contrario fuori della città, e·ffu poi condannato nell’avere e nella persona siccome ribello, e somovitore di romore e di congiura contro alla republica e pacifico stato di Firenze. Di questa commovizione del popolo minuto i grandi, ch’avieno mal volere contro al popolo, furono molti allegri, credendo si dovidessono insieme il popolo; e presono speranza d’acostarsi insieme col popolo minuto, gridando a’ loro ridotti e serragli in simile voce: «Viva il popolo minuto, e muoia il popolo grasso e·lle gabelle!», afforzandosi al continuo e aspettando gente i·lloro aiuto. E sentendo i grandi che’ Sanesi venieno a richiesta e servigio del Comune e popolo, mandarono alcuno di loro per ambasciadore, meser Giovanni Gianfigliazzi e altri, infino a San Casciano, pregando che non venissono in Firenze, e che·lla loro venuta poteva generare scandalo tra’ cittadini. E credendolo i Sanesi, s’arestarono più d’uno dì. Questo si disse che i grandi feciono per paura di loro, ma i più dissono il facieno acciò che il loro soccorso giugnesse prima che·lla venuta de’ Sanesi per assalire il popolo; ma a buona opinione noi crediamo che il guernimento che facieno i grandi era più per paura di loro che per assalire il popolo; con tutto ci fosse la loro mala voglia, non ci era il podere, se·ggià il popolo minuto non gli avesse seguiti, onde pure avieno alcuna vana speranza. Ma i priori, ciò sentendo di Sanesi, vi mandarono per lo Comune ambasciadori popolani con lettere, pure che venissono, che n’avieno gran bisogno per sicurtà e aiuto del Comune e del popolo, per la scomovizione della città per li malvagi cittadini che·lla voleano guastare. I quali Sanesi vennero incontanente molto bella gente a·ccavallo e a piè, altrettanti e più che quando il duca fu cacciato; e i Perugini ci mandarono CL cavalieri, e d’ogni parte venia gente d’arme, chi in servigio del popolo e chi in servigio di grandi, onde la città era tutta inn-arme, e con molti forestieri e contadini, e tutta iscommossa in gelosia e paura, il popolo di grandi, e’ grandi del popolo. Ma il Comune e popolo si trovò più possente, ch’avieno i palagi e·lle campane e·lla dominazione delle porte della città, salvo di quella di San Giorgio tenieno i Bardi. E avea il Comune da CCC soldati a cavallo sanza l’amistadi, sicché la forza di grandi nonn-era a comparazione con quella del popolo, se nuovo soccorso non venisse da Pisa o di Lombardia a’ grandi, onde per lo popolo s’avea grande gelosia; e chi avea cose care o mercatantie le fuggia in chiese e in luoghi di riligiosi sicuri. Tal era la disposizione della nostra infortunata città.

XXI Come il popolo di Firenze assaliro e combattero i grandi e rubarono i Bardi e missono fuoco in casa loro.

Stando tutta la città inn-arme e gelosia, i grandi del popolo e ’l popolo de’ grandi, com’è detto, dicendosi molte e varie novelle per la terra, e come i grandi arebbono grande aiuto da’ conti e Ubaldini e Pisani e d’altri tiranni di Lombardia e di Romagna, e che dovieno afforzarsi Oltrarno, ch’avieno la signoria di tutti i ponti, e di qua fare cominciare l’assalto giovedì a dì XXV di settembre; i popolani del quartiere di San Giovanni, onde si feciono capo i Medici e’ Rondinelli e meser Ugo della Stufa giudice, e’ popolani di borgo Sa·Lorenzo co’ beccari e altri artefici, sanza ordine di Comune, in quantità di mille uomini sanz’altra compagnia o forza di gente al cominciamento, mercoledì dopo desinare, dì XXIIII di settembre, per non aspettare il giovedì vegnente, che·ssi dicea che’ grandi doveano fare l’assalto e correre la terra, con tre di loro gonfaloni delle compagnie del loro quartiere, tutti armati a barbute e corazze a piè, e molte balestra, asalirono da più parti quelli del lato degli Adimari chiamati i Cavicciuli, i quali con grandi serragli e guernimento di torri e di palagi e loro case dal crocicchio del Corso dalla loggia loro alla piazza di San Giovanni s’erano aforzati con molta gente d’arme. E cominciato per lo popolo l’asalto e battaglia manesca a’ serragli, saettando e gittando pietre l’una parte all’altra, crescendo al continovo la forza del popolo; i Cavicciuli veggendo non poteano resistere, e aiuto di fuori d’altri grandi non avieno né attendeano, patteggiati s’arrenderono al popolo, salve le persone e·lloro cose, e disfeciono i loro serragli, e puosonsi in su’ loro palagi le bandiere del popolo. E·cchi di loro andò inn-uno luogo e chi inn-altro a casa di loro amici e parenti popolani, sanza danno niuno, se non di fediti dall’una parte e dall’altra. Vintosi per lo detto popolo la detta prima punga e asalto sopra i Cavicciuli, ch’erano i più virili e arditi e possenti grandi di Firenze, presono i popolani molto ardire e vigore, e al continovo crescendo loro la massa del popolo e aiuto d’alquanti di soldati del Comune ch’erano in Firenze, corsono a casa i Donati e poi a casa i Cavalcanti. Ellino sentendo come i Cavicciuli s’erano arrenduti al popolo, non feciono nulla risistenza, ma per simile modo s’arrenderono al popolo. In somma, in poca d’ora tutte le case di grandi di qua da Arno feciono il somigliante, e disarmarsi e disfeciono loro guernigioni e serragli. Le case de’ grandi d’Oltrarno, Bardi, e Rossi, e Frescobaldi, e Mannelli, e Nerli s’erano aforzati molto, e prese le bocche de’ ponti. Il detto commosso popolo volendo passare Oltrarno per lo detto ponte Vecchio, ch’ancora era di legname, non ebbe luogo, però che·lla forza di Bardi e di Rossi era sì grande e di sì forti serragli, e armata la torre della parte e ’l palagio de’ figliuoli di meser Vieri de’ Bardi e·lle case di Mannelli di capo del ponte Vecchio, che ’l popolo non vi potea accedere né passare. Ma combattendo però francamente il serraglio, molti ve n’ebbe fediti di sassi e di verrettoni di balestri. Veggendo il popolo che da quella parte non poteano passare, e dal ponte Rubaconte peggio, per la fortezza de’ palagi de’ Bardi da San Ghirigoro, sì presono partito di lasciare alla guardia del ponte Vecchio parte de’ gonfaloni del quartiere di Santa Croce e di quelli di borgo di Santo Apostolo, e parte rimasono alla guardia del ponte Rubaconte di qua. L’altro popolo molto cresciuto co’ soldati a cavallo si misono ad andare dal ponte alla Carraia, il quale guardavano i Nerli; ma·lla forza di popolani di borgo San Friano e della Cuculia e del Fondaccio fu sì grande, che inanzi che passasse il popolo di qua da Arno presono il capo del ponte e·lle case de’ Nerli, e loro ne cacciaro; e preso per li popolani d’Oltrarno il ponte alla Carraia, il vittorioso popolo di qua passaro al detto ponte incontanente, e acozzatosi co’ popolani d’Oltrarno, e furiosamente assaliro i Frescobaldi, i quali prima assaliti e combattuti a’ loro serragli da quelli di via Maggio e circustanti popolani, ma però non vinti; ma veggendosi venire adosso la furia del detto popolo di qua da Arno, ebbono gran paura, e abandonarono la piazza loro, lasciando ogni fortezza e guernigione, balestra, pavesi, saettamento, fuggendosi in casa, e faccendo croce colle braccia, chieggendo mercé al popolo, il quale gli ricevette sanza fare loro alcuno male. E·cciò fatto, corsono alla piazza a ponte sopra i Rossi, i quali saputo come i Frescobaldi s’erano arenduti al popolo, e tutte le case di grandi di qua da Arno, sanza alcuna risistenza s’arrenderono al popolo. Que’ di casa Bardi veggendosi abandonati da’ Rossi e Frescobaldi ebbono gran paura, ma pure francamente si misono alla difesa de’ loro serragli combattendo, gittando, saettando, dov’ebbe di morti alcuno e di fediti assai, d’una parte e d’altra, però che’ Bardi erano molto forti e guerniti a cavallo e a piè, e con molti masnadieri, sicch’era invano al popolo di vincere il serraglio per forza; ma ordinaro que’ del popolo che i tre di gonfaloni d’Oltrarno salissono al poggio di San Giorgio per la via nuova dal pozzo Toscanelli, e così feciono; e cominciaro loro la battaglia al di dietro. I Bardi veggendosi sì aspramente asaliti da tante parti, isbigottirono forte, e cominciaro abandonare parte di loro il serraglio della piazza a ponte, ch’era sotto la guardia della torre della parte guelfa e del palagio di figliuoli di meser Vieri de’ Bardi, per difendersi di dietro dal canneto e San Giorgio. Allora uno Strozza tedesco conestabole con sua masnada si misse dentro al serraglio della piazza al ponte a grande pericolo, ricevendo di molti sassi e quadrella, e corse infino a Santa Maria sopr’Arno, e il popolo francamente dietro; e quelli del popolo ch’erano di qua alla guardia del ponte Vecchio allora ruppono il serraglio del capo del ponte e valicarono di là, e al tutto cogli altri popolani, ch’erano di là, ruppono la resistenzia e forza di Bardi, i quali tutti si fuggirono nel borgo di San Niccolò, raccomandandosi alla vicinanza, onde furono le loro persone guarentiti da quelli da Quarata e da quelli da Panzano e·ll’altra vicinanza del gonfalone della Scala, i quali per lo popolo avieno in prima alquanto, per non esere corsi e rubati, presi i palagi di Bardi da Santo Ghirigoro ella guardia del capo del ponte di là incontanente i popolani, ch’erano alla guardia del capo del ponte Rubaconte di qua del quartiere di Santa Croce; e quello iscampò i Bardi da morte, i quali per la loro buona vicinanza da San Niccolò ritennero il furioso popolo con quella forza e per guardare la loro contrada. Ma tutti i palagi e case di Bardi da Santa Lucia alla piazza a ponte furono rubate dal minuto popolo d’ogni sustanzia, maserizie e arnesi, quello dì e·ll’altro, ed eziandio di loro vicini non possenti. E·ll’arabbiato popolo, rubate le case, misono fuoco in casa loro, e arsonvi XXII tra palagi e case grandi e ricche, e stimossi il loro danno tra di ruberie e d’arsione il valere di più di LXm fiorini d’oro. Tale fu la fine della risistenza de’ Bardi contro al popolo per la loro superbia e maggioranza e per lo sfrenato popolo. Ma·ffu grande maraviglia e grazia di Dio, che di tanta furia di popolo e di tanti assalti e battaglie fatte in quella giornata, come avemo raccontato, non morì in Firenze nullo uomo di rinomea, e d’altri pochi, ma fediti assai. Per la ghiottornia della ruberia da casa i Bardi, che infino alle lastre de’ tetti e ogni vili cose, non che le care, tale fu il giudicio contro a’ Bardi, che infino alle femminelle e’ fanciulli, non che gli uomini, non si potieno saziare né raffrenare di rubare. Il giovedì medesimo si levò una compagna di malandrini in quantità di più di mille a piè, e si ragunarono per combattere i Visdomini e rubarli sotto titolo di difetti di mesere Cerritieri loro consorte fatti intorno al duca; ma non ci era a ciò giusta cagione, che de’ difetti e falli di meser Cerritieri i Visdomini erano stati crucciosi; ma non movea se non solo per potere rubare, e non sarebbero rimasi a tale, ma tutta la città corsa e rubata, e grandi e popolani; ma·lla vicinanza con molta altra buona gente armata, e·lle signorie e soldati del Comune a cavallo e a piè corsono al soccorso e riparo, e cessarono tanta rovina e pistolenza alla nostra città, andando per la terra le signorie in più parti coll’aiuto della gente di Sanesi, e Perugini, e dell’altre amistadi, e degli altri buoni cittadini a cavallo e a piè, con ceppi e mannaie, tagliando di fatto piedi e mani a’ mafattori; e in questo modo s’atutò la furia dello sfrenato popolo disposti a rubare e a mal fare, e cominciarsi aprire i fondachi e botteghe, e ciascuno fare i fatti suoi.

XXII Come si fece nuovo squittino di lezione di priori e de’ XII e gonfalonieri per più tempo, e tutti popolani.

Riposata la città di Firenze di tanta furia e pericolo, e il popolo fatta sua pruova contro a’ grandi, e vinte le loro forze e risistenze in ogni parte, il popolo montò in grande stato e baldanza e signoria, ispezialmente i mediani e artefici minuti, ch’al tutto il reggimento della città rimase alle XXI capitudini dell’arti. E per riformare la terra di nuovi priori e gonfalonieri delle compagnie, e de’ XII consiglieri di priori, i priori e’ dodici col consiglio delli ambasciadori di Siena e di Perugia e del conte Simone, acciò che·lla lezione andasse più comune, diedono l’ordine nello ’nfrascritto modo, e di grande concordia s’aseguì, e celebrarono in casa i priori nuovo squittino; ciò furono VIIII i priori, e XII consiglieri, e XVI gonfalonieri, e V della mercatantia, e LII uomini delle XXI capitudini, e XXVIII arroti per quartiere, popolani tutti artefici, sicché in somma furono CCVI, mettendo allo squittino ogni buono uomo popolaro degno d’essere all’uficio, e vincendosi, chi rimanesse priore e gonfaloniere di giustizia, e di dodici per CX fave nere il meno; e andato allo squittino IIImCCCCXLVI uomini, ma non ve ne rimasono il decimo, ordinaro che fossono VIII priori, II per quartiere, e uno gonfaloniere di giustizia, acoppiandoli insieme in questo modo, che dovessono esere per priorato popolani II grassi, III mediani, III artefici minuti, e ’l gonfaloniere della giustizia per simile modo, uno d’ogni sorta detta, traendosi a vicenda a quartiere a quartiere come venisse, cominciando a Santo Spirito. E il detto squittino fu compiuto dì XX d’ottobre MCCCXLIII. L’ordine fu assai comune e buono, quando non fosse poi corrotto. Ma trovossi poi per li tempi, quando si traevano i priori, che degli artefici minuti v’aveva più per la rata, che non fu l’ordine dato; e·cciò adivenne, che quando si fece lo squittino furono più forti nelle boci gli artefici delle XXI capitudini e·lli arroti popolani minuti, che·lle boci de’ popolani grassi e de’ mediani; e però si corruppe il buono ordine dato per li ambasciadori di Siena e per lo conte Simone.

XXIII Come si riformaro gli ordini della giustizia sopra i grandi, e·ssi ricorressono in alcuna parte; e più casati di grandi furono recati a essere popolani.

Riformata la città di Firenze a signoria del popolo, come detto avemo, volendo il popolo rifare gli ordini della giustizia contro a’ grandi, i quali aveva anullati il duca e poi l’uficio de’ XIIII, come è detto adietro, gli ambasciadori di Siena e quelli di Perugia e ’l conte Simone, che a ogni nostra fortuna e pericolo ci avieno soccorsi e difesi, e col loro buono consiglio riformata la città a signoria del popolo, per amore e grazia di loro Comuni e di loro e pacifico stato di Comune e di popolo, e contentamento in alcuna parte di grandi che volieno bene vivere, e dimandarono al popolo due pitizioni: l’una, che i capitoli della giustizia dov’era la rigidezza e crudeltà, che’ buoni uomini grandi consorti di mafattori portassono la pena di loro malifici, si correggesse; l’altra, che certe schiatte di grandi meno possenti e non malificiosi si recassono a popolo. Le quali petizioni furono asaudite in parte, come diremo apresso, e fermate per li consigli dì XXV d’ottobre MCCCXLIII. Prima dove diceva l’ordine della giustizia che dove il malfattore di grandi facesse micidio contra la persona d’alcuno popolare, oltre alla sua pena, tutta la casa e schiatta pagasse al Comune libre IIIm, si corresse che non toccasse, se non a’ suoi propinqui, infino terzo grado per diritta linea; e dove mancasse il terzo grado, toccasse al quarto, con patto dove e quando rendessono preso il malfattore, o l’uccidessero, riavessono dal Comune le libre IIIm ch’avessono pagate. Tutti gli altri ordini della giustizia rimasono i·lloro primo stato. Le schiatte de’ nobili di città e di contado che furono recate a popolo furono questi: i figliuoli di meser Bernardo de’ Rossi, IIII de’ Mannelli, tutti i Nerli di borgo Sa·Iacopo, e due di quelli dal ponte alla Carraia, tutti i Manieri, tutti gli Spini, tutti gli Scali, tutti i Brunelleschi, e parte degli Agli, tutti i Pigli, tutti li Allotti, tutti i Compibiesi, tutti gli Amieri, meser Giovanni di Tosinghi e fratelli e nipoti, e Nepo di meser..., messere Antonio di Baldinaccio degli Adimari e fratelli e nipoti, e alcuno altro loro consorto, tutti i Giandonati e Guidi, e altre schiatte quasi spente. Di nobili di contado, il conte da Certaldo e’ figliuoli e’ nipoti, il conte da Puntormo e’ figliuoli e’ nipoti; e con tutto ch’avessono nome di conti erano sì annullati, ch’erano al pari d’altri meno possenti gentili uomini; tutti quelli da Lucardo, quelli da Cacchiano, quelli da Monterinaldi, quelli dalla Torricella, quelli da Sezzata, quelli da Mugnano, i Benzi da Feghine, e da Lucolena, quelli da Colle di Valdarno, e quelli da Monteluco della Gerardinga, e più altre schiatte di contado anullati e divenuti lavoratori di terra. In somma furon Vc i tratti di grandi e recati a esere popolari, per fortificare il popolo e afiebolire e partire la potenza de’ grandi coll’infrascritti patti e ordini. Ma certi altri grandi, onde non faremo menzione, che s’erano messi nella detta petizione, che s’erano messi a morte per francare il popolo, e francaro, per invidia non furono accettati per lo ’ngrato popolo; e tali sono le più volte i meriti de’ servigi si fanno a’ popoli, ispezialmente a quello di Firenze. I patti e’ salvi furono questi. Che i detti grandi e nobili recati a benificio d’essere di popolo non possino esere di priori, dodici e gonfalonieri delle compagnie del popolo, o capitani di lega del contado infra cinque anni; ogni altro uficio possano avere; e·sse alcuno de’ detti infra X anni pensatamente facesse micidio o tagliasse membro, o desse fedita innorma in persona d’alcuno popolano, o facesse fare, o ingiuriasse posessione di popolano, dichiaritosi per lo consiglio del popolo, dee a perpetuo esere rimesso tra’ grandi. Ma nota che parecchie schiatte e case di popolani erano più degne d’esere messe tra’ grandi, che·lla maggior parte di que’ che per grandi rimasono, se andasse pari la bilancia della giustizia, per le loro ree opere e tirannie; e tutto è questo per difetti del nostro male reggimento. Fermati i detti ordini, e tratti del nuovo squittino i priori, e’ dodici, e’ gonfalonieri, ch’entrarono in calen di novembre apresso, si trovarono i più artefici minuti, onde il popolo fu contento, e aquetossi la città d’ogni sospetto e gelosia. E nota ancora e ricogli lettore che quasi in poco più d’uno anno la nostra città avute tante rivolture, e mutati stati di reggimento, ciò sono; inanzi che fosse signore il duca d’Atene signoreggiavano i popolari grassi, e guidarla sì male, come adietro avete inteso, che per loro difetto venne alla tirannica signoria del duca; e cacciato il duca tessono i grandi e’ popolani insieme, tutto fosse piccolo tempo, e con uscita di gran fortuna. Ora siamo al reggimento quasi delli artefici e minuto popolo. Piaccia a·dDio che sia asaltazione e salute della nostra republica, onde mi fa temere per li nostri peccati e difetti, e perché i cittadini sono voti d’ogni amore e carità tra·lloro, ma pieni d’inganni e tradimenti l’uno cittadino contro all’altro; ed è rimasa questa maladetta arte in Firenze in quelli che·nne sono rettori, di promettere bene e fare il contrario, se non sono proveduti o di grandi prieghi o d’onde aspettino utile; onde, e non sanza cagione, permette Iddio il suo giudicio a’ popoli; e questo basti a chi sente e intende.

XXIV Alquante cose fatte in Firenze di nuovo.

Ne’ detti tempi e mese di settembre, per servigi ricevuti dal conte Simone da Battifolle e da Guido suo nipote figliuolo del conte Ugo, il Comune gli ristituì le terre d’Ampinana, Moncione e Balbischio. E diliberossi il Comune d’Arezzo della signoria del Comune di Firenze, dando al servigio del Comune a’ suoi bisogni C cavalieri di qui a IIII anni, rendendo al Comune fiorini... in... anni, che v’avea messi CCm di fiorini d’oro. Diedesi il castello di Pietrasanta al vescovo di Luni, acciò che guerreggiasse i Pisani coll’aiuto di meser Luchino signore di Melano suo cognato, come assai tosto faremo più stesa menzione. Per la rivoltura del duca si perdé la signoria d’Arezzo, e di Pistoia, e Serravalle, e di Volterra, e San Gimignano, e Colle, Pietrasanta, Santa Maria a Monte, e Montetopoli, Castiglione Aretino, e più altre castella, per colpa i più di nostri rei e barattieri cittadini castellani di quelle. E così riescono i nostri mali aquisti, quando il Comune è in divisione e male guidato. Ancora del detto mese s’apresono in Firenze più fuochi da Santo Apostolo e arsonvi XII case, e una a San Giorgio, e una a San Piero Gattolino, e una nel Corso di Tintori, e una a San Piero Celoro con grande danno; e tutto questo è del giudicio di Dio per li nostri peccati.

XXV Come i Fiorentini rifeciono di nuovo pace co’ Pisani.

Riformato il nuovo stato del popolo in Firenze per lo modo ch’avemo detto, per nonn-avere guerra di fuori per lo nostro variato stato, si fece accordo co’ Pisani per lo nostro Comune con poco nostro onore, e guardando più secondo il tempo, con questi patti: che Lucca rimanesse libera alla signoria di Pisani, rimettendo in Lucca i loro usciti, chi vi volesse tornare, e i loro beni rendere alle loro famiglie, e di dare al Comune di Firenze di censo di Lucca, per lo debito, obrigati i Fiorentini per quella a meser Mastino, fiorini Cm d’oro in XIIII anni, ogn’anno la rata per la festa di san Giovanni; e rimanendo al Comune di Firenze tutte le castella e terre di Lucca che si tenieno, franchi i Fiorentini in Pisa di quello venisse per mare l’anno la valuta di CCm di fiorini d’oro allo stimo della legatia, che sono la valuta del quarto più, e da indi in su pagare danari II per libra; che sempre ab anticho erano i Fiorentini al tutto liberi e franchi, e’ Pisani in Firenze. Ma per questi nuovi patti sono i Pisani franchi in Firenze l’anno la valuta di fiorini XXXm d’oro di loro mercatantia che venisse da Vinegia, e ’l soprapiù, pagare danari due per libra. Tale fu la ’nfinta pace co’ Pisani rimagnendo la mala volontà; fu piuvicata e bandita a dì XVI di novembre MCCCXLIII. E con tutto che il duca la facesse co’ Pisani al suo reggimento, come detto è adietro, fu in più casi più onorevole per lo nostro Comune che questa.

XXVI Come mesere Luchino Visconti di Milano si fece nimico di Pisani.

Ma i Fiorentini, come toccammo adietro, lasciarono a’ Pisani una mala azione, quando diedono Pietrasanta al vescovo di Luni di marchesi Malispini, il qual era cognato per la sirocchia moglie di meser Luchino Visconti signore di Milano, il quale indegnato contro a’ Pisani, perché tenieno Serezzano, Lavenza, e Massa di marchesi, e altre loro castella in Lunigiana, né per suoi prieghi no·ll’avieno volute rendere, né a·llui data la ’mpromessa di molti danari gli restavano a date del gran servigio fatto della sua gente contro al nostro Comune, quando ci sconfissono a Lucca, e poi a sostenere l’assedio, ond’ebbono la città; per la quale ingratitudine di Pisani, e per la vergogna feciono a meser Giovanni Visconti stato loro capitano, quando uscì della nostra prigione, come toccammo adietro, e perché avieno cacciati di Lucca i figliuoli di Castruccio suoi amici e racomandati; e con coperto conforto de’ Fiorentini col vescovo di Luni e colla serocchia, messere Luchino si fece nimico di Pisani, e mise in prigione XII stadichi ch’avea figliuoli di maggiori di Pisa, e mandò in aiuto al vescovo di Luni MCC di suoi cavalieri, capitano il detto meser Giovanni Visconti, i quali con altri che mandò apresso feciono molta guerra a’ Pisani, faccendo capo in Pietrasanta, come tosto faremo menzione. Lasceremo alquanto di fatti di Firenze e de’ Pisani, e diremo d’altre novità delli strani state in questi tempi per seguitare il nostro stile.

XXVII Di grandi tempeste che furono in mare.

Nel detto anno e mese di novembre, il dì di santa Caterina, fu in mare una grandissima tempesta per lo vento a scilocco in ogni porto, ov’ebbe podere, e spezialmente in Napoli; che quante galee e legni avea in quel porto tutti gli ruppe e gittò a·tterra, e quasi tutte le case della marina ov’erano i magazzini del vino greco e delle nocciuole, per lo crescimento del mare tutte allagò, e molte ne rovinò e guastò, e menò via le botti del greco e nocelle, e ogni mercatantia e masserizie, onde si stimò il danno più di XLm once d’oro, di fiorini V d’oro l’oncia; e questa fu segno di grande novità e mutazione che dovea avenire e avennero assai tosto, in quello paese. E per simile modo avenne nel porto di Pera in Romania d’incontro a Gostantinopoli con grande danno di Genovesi, cui era la terra. E in questo tempo essendo cominciata una grande zuffa alla città della Tana nel mare Maggiore in Romania tra’ Viniziani e Saracini della terra, avendo i Viniziani della detta zuffa soprastati i Turchi, e mortine alcuni, e fediti molti, onde tutti quelli della terra si commossono a furia, e rubarono e uccisono quanti Viniziani e Genovesi, e Fiorentini alquanti, e altri Cristiani che nella terra si trovarono alla zuffa, chi non poté fuggire alle loro galee; e presono poi da LX mercatanti latini, che a·romore non furono morti, e tennolli in prigione da II anni, e poi per danari e ingegno si fuggiro, e con grande pericolo scamparono. E stimossi il danno delle mercatantie e spezierie rubate per li Turchi da CCCm di fiorini d’oro a’ Viniziani, e da CCCLm a’ Genovesi. E tali sono li stimoli e pericoli di mercatanti per le loro peccata e follie; e per questa cagione rincarò in questo nostro paese ogni spezieria, seta, e avere di levante, cinquanta e più per centinaio subitamente, e tali il doppio.

XXVIII D’alcune novità fatte per li Fiorentini che reggeano la città.

Del mese di dicembre del detto anno, per alcuna gelosia messa in Firenze di grandi non vera, furono fatti confinati V di casa i Bardi, e IIII di Frescobaldi, e II di Rossi, e III di Donati, e II di Pazzi, e uno di Cavicciuli, con tutto che·lla maggiore parte degli uomini de’ detti casati, per levare sospetto al popolo e fuggire la furia, se n’andarono in contado a’ loro poderi ad abitare, lasciando la città. A dì II di marzo del detto anno fu ferma e piuvicata la lega e compagnia tra ’l Comune di Firenze e quello di Perugia e di Siena e d’Arezzo per fortificare il loro stato, e per abattere i Tarlati d’Arezzo e ogni tirannello d’intorno. E in questi tempi i Fiorentini s’accordarono di nuovo, e feciono ragione con meser Mastino della Scala, che·lli restavano a dare per la matta compera di Lucca fiorini CVIIIm d’oro, e asegnarli sopra la gabella del macello e a quella di contratti, ogni mese IIm fiorini d’oro, e tornarono i nostri XXVII stadichi cari cittadini stati a Verona più di due anni: bontà del duca d’Atena, che non ne curava, ma li lasciava per abandonati, e per la sua avarizia non gli dava danaio, né·lle paghe promesse; che·ffu intra gli altri suoi difetti questo uno di quelli che molto gravò e dispiacque a’ cittadini. Mandòvisi poi XII stadichi a vicenda di IIII mesi in IIII mesi a soldi XL il dì per uno per loro spese, e fiorino uno per cavaliere.

XXIX Ancora della guerra dalla gente di meser Luchino Visconti co’ Pisani.

Nell’anno MCCCXLIIII, a dì V d’aprile, avendo la gente di Pisani ch’erano in Versilia e in Lunigiana fatto uno grande fosso con isteccati e bertesche dalla marina al castello di Rotaia, e poi infino alla montagna al castello di Montegioli ch’ellino tenieno, acciò che·lla gente di meser Luchino ch’erano in Lunigiana no·lli potessono correre e guerreggiare sopra il contado di Pisa, e quelle fortezze si guardavano di dì e di notte co·lloro gente assai grossa a cavallo e a piè; e quella notte la gente di meser Luchino ruppono la fortezza tra Rotaia e Montegioli, e passaro, e vigorosamente assaliro la gente di Pisani; e dopo la grande battaglia la gente de’ Pisani furono sconfitti, e molti presi e morti, onde i Pisani molto isbigottiro. E poi a dì II di maggio menando meser Benedetto Maccaioni di Gualandi, rubello di Pisa, CCC cavalieri di que’ di meser Luchino, ch’erano vernati in Maremma, co·llui a guerreggiare i Pisani e·lloro terre per accozzarli colla gente grossa di meser Luchino che per la vittoria avuta a Rotaia volieno passare il Serchio, e venire di qua in su quello di Pisa, essendo albergati a Santa Gonda, provedutamente e posta fatta furono sopresi da D cavalieri di Pisani e molti balestrieri, ch’erano stati al Ponte ad Era per attenderli; e rimasene tra presi e morti più di C a cavallo, e tutti erano tra presi e morti, se non che si fuggiro sopra le spiagge di San Miniato, e quivi coll’aiuto di Saminiatesi quelli che iscampati erano si ridussono a salvamento. Sentendo questa novella meser Giovanni Visconti capitano della gente di meser Luchino si partì di Versilia con LXX bandiere, che furono da MD a cavallo, e passarono il Serchio al ponte a Moriano, e vennero per la Cerbaia e passato la Guisciana a Rosaiuolo, e poi guadarono l’Arno e ricolsono la loro gente da Santa Gonda, e acamparsi a Castello del Bosco, e in sulla Cecina guerreggiando il contado di Pisa per più tempo, e prendendo più loro terre e castella. La gente de’ Pisani, ch’erano da M cavalieri, s’afforzaro al fosso Arnonico e al Ponte ad Era a guardare la frontiera, sanza avisarsi co’ nimici. E partiti da Castello del Bosco, osteggiando per più campi la Valdera e·lla Maremma infino all’agosto, e più vi sarebbono dimorati, se non fosse che per lo soperchio caldo e disagi vi si cominciò una corruzione, onde assai ve ne malarono e morirono. E infra gli altri caporali ne morì meser Benedetto Maccaioni grande nimico di Pisani, e Arrigo di Castruccio che·ffu signore di Lucca. E per la mortalità e pestilenza si partì la detta oste, que’ ch’erano scampati, e tornarsi in Versilia con grande loro dannaggio di gente. Lasceremo alquanto di questa guerra, e diremo d’altre novità occorse in questi tempi.

XXX Come quelli di Castello Franco presono Campogialli, e uccisono certi de’ Pazzi di Valdarno.

Nel detto anno, a dì XXVIIII d’aprile, quelli di Castello Franco di Valdarno di sopra con altri Valdarnesi e masnade d’Arezzo cavalcaro sopra’ Pazzi di Valdarno, e per tradimento ebbono una porta del castello di Campogiallo, ch’era di Pazzi, e in quello entrati, corsono il castello uccidendo uomini e femmine sanza nulla misericordia, e uccisonvi X della casa di Pazzi di migliori di loro, e rubata la terra vi missono fuoco, onde caro costò a’ Pazzi la guerra e oltraggi fatti a quelli di Castello Franco e agli altri Valdarnesi del contado di Firenze per lo tempo passato.

XXXI Come il re di Spagna ebbe per assedio la forte terra della Zizera in Granata.

Nel cominciamento dell’anno MCCCXLIIII, a dì XXV di marzo, s’arrendé al re di Spagna la forte e grande città della Zizera in Granata, ch’era di Saracini, alla quale era stato ad assedio per più di IIII anni per mare e per terra con grande spesa e affanno e mortalità di Cristiani; però che sovente erano asaliti dal re di Granata e sua gente, e guerreggiati e per mare e per terra da’ Saracini di Morocco e da quelli di Barberia, che ogni anno vi venieno al soccorso più volte con grande navilio e gente innumerabile di Saracini, ov’ebbe più battaglie, e per mare e per terra, quando a danno di Cristiani e quando di Saracini, che sarebbe lunga matera a racontare; però che’ Saracini aveano porto in mare sotto il forte castello di Giubeltaro, il quale i Saracini aveano raquistato sopra i Cristiani per tradimento, come adietro facemmo in alcuna parte menzione. Ma tutto era in vano la ’mpresa e assedio del re di Spagna, però che·lla città era fortissima di mura e torri e fossi con buono porto e forte, e fornita di vittuaglia per buono tempo, e di molta gente d’arme e arcieri e balestrieri saracini, e·ll’aiuto di fuori, come detto avemo, e se non fosse l’aiuto del papa e della Chiesa, che con moneta di decima e d’altri susidi atava e fornia il re di Spagna, onde al soldo della Chiesa mantenea al continovo in mare XX galee armate di Genovesi, sanza quelle di Catalani e Spagnuoli, e diede indulgenzia e perdono di colpa e di pena a chi v’andasse o mandasse aiuto. Per la qual cosa molti conti e baroni e cavalieri di Francia, e d’Alamagna, e d’Inghilterra, e di Linguadoco v’andarono alle loro spese al servigio, istando all’oste chi IIII e chi VI mesi; e andòvi il conte d’Analdo con C cavalieri, e così più altri baroni, per la qual cosa si continuò l’assedio; e fu sì stretta la terra per mare e per terra, che nullo vi potea entrare o uscire; e dentro v’avea più di XXXm uomini d’arme saracini, sanza le femmine e fanciulli; sicché fallì loro la vettuaglia per lo lungo assedio, e per fame s’arrendero salve le persone, che se ne andaro tutti in Granata fra terra; onde fu uno nobile aquisto al re di Spagna e a tutta Cristianità. E trovòvisi dentro molto tesoro, cose e arnesi. Ed ha ora il re di Spagna e’ Cristiani porto buono all’entrata del reame di Granata da potere guerreggiare e aquistare il paese. Lasceremo di fatti di Saracini, e torneremo alle novità di Firenze occorse in questi tempi.

XXXII Di certe novità state in Firenze in questi tempi.

Nel detto anno del mese di giugno e di luglio, signoreggiandosi il reggimento di Firenze per lo popolo minuto, come più tempo dinanzi fu detto dovea avenire, cioè per le capitudini di tutte l’arti, come dicemmo adietro nella riformagione della terra, cacciato il duca d’Atene, sì·ssi ricercò per certi uficiali, e fecesi inquisizione di tutti i cittadini, rettori e castellani, stati per lo duca nella città d’Arezzo e nel castello fatto per i Fiorentini in quello, e di Castiglione Aretino, e della città di Pistoia e del castello che v’era dentro, e di Serravalle, e di più castella di Valdarno e di Valdinievole, e della città di Volterra, e di Colle di Valdelsa e di più altri, i quali alla rivoluzione del duca e di sua signoria, e certi de’ detti, rettori e castellani, gli abandonaro, quali per paura e chi per la forza de’ terrazzani, e tali per baratteria, avendone danari. Molti ne furono condannati per l’asegutore delli ordini della giustizia, commessogli per lo reggimento detto del Comune, e chi a diritto e chi a torto; onde assai danari tornaro di condannagioni in Comune; e molto ne furono condannati in persona, che non compatiro dinanzi, e più toccò a’ grandi ch’a’ popolani; però che ’l duca gli avea messi in quelle signorie.

Ancora nel detto tempo e mese furono per lo detto popolo fatti uficiali a rimettere tra ribelli certi Ghibellini caporali, e altri possenti stati rubelli prima; però che per la cacciata del duca tutti i libri di rubelli e sbanditi ch’erano in camera furono arsi, sì che di quelli si fece nuovo ligistro.

Ancora nel detto tempo fu condannato Corso di meser Amerigo di meser Corso Donati nell’avere e nella persona per contumace, per certe lettere che furono trovate, che mandava ed erano mandate a·llui da certi tiranni di Lombardia, con cui tenea alcuno trattato contro al popolo di Firenze, o vero o non vero che fosse, che no·llo aproviamo, però ch’a·llui era impossibile fornire sì grande impresa sanza maggiore séguito; ma non comparì dinanzi a scusarsene, o per tema del popolo o de’ suoi nimici, o per non discoprire chi a·cciò tenea co·llui il trattato. Il quale Corso colla moglie, ch’erano in Forlì, moriro in pochi dì di maggio nel MCCCXLVII, di cui fu gran danno, però ch’era valente donzello, e per venire in grande affare se fosse vivuto.

E nel detto tempo, a dì III di luglio, fu in Firenze disordinata tempesta di venti, tuoni e baleni molto spaventevoli, e caddono dentro alla città VI folgori, ma poco feciono danno, ma maggiore paura alle genti.

E poi la notte di santo Iacopo s’aprese fuoco nel popolo di San Brocolo, e arse quasi una gran casa. E pochi dì apresso arse un’altra casa in Torcicoda a’ confini del detto popolo. E poi pochi dì apresso arse un’altra gran casa nel detto popolo di San Brocolo, non però con troppo danno. E poi a dì VIII d’agosto la notte s’aprese il fuoco nel popolo di San Martino presso ad Orto Sa·Michele in botteghe di lanaiuoli, accendendosi in alcuno panno riscaldato per l’untume e soperchio caldo, onde arsono XVIII tra case e botteghe e fondachi di lanaiuoli con grandissimo danno d’arsione di panni e lane e altri arnesi e maserizie, sanza il danno delle case; e·cciò ne dimostrò la ’nfruenza del pianeto di Marti e del sole e di Mercurio stati nel segno del Leone, atribuiti significatori in parte alla nostra città di Firenze, o più tosto la mala guardia del fuoco per chi l’avea a guardare.

XXXIII Come il conte Simone da Battifolle raquistò il castello di Fronzole colla forza di Fiorentini.

Nel detto anno, essendo il conte Simone da Battifolle con suo sforzo istato più mesi all’asedio del castello di Fronzole, ch’è sopra Poppi, il quale sentia che non era ben fornito di vittuaglia, il quale manteneano i Tarlati d’Arezzo e rubellato l’avieno al conte, e tenutolo più tempo contro a’ detti conti, e aforzato di ricche e forti mura e tocca per lo vescovo stato d’Arezzo di Tarlati, sicché impossibile era da poterlo mai avere, se non per difalta di vettuaglia. Sentendo i detti Tarlati come mancava a quelli d’entro la vettuaglia, feciono e ragunarono loro sforzo a Bibbiena per soccorrello coll’aiuto di Pisani e di Ghibellini della Marca e del Ducato e di Romagna, e furono più di DC cavalieri e popolo grande a piè. Sentendolo i Fiorentini, mandarono al soccorso del conte di loro cavalieri e·lle vicherie di pedoni e masnadieri di Valdisieve e di Valdarno in grande numero, e’ Sanesi gli mandarono in aiuto CC cavalieri, e’ Perugini CL, onde i Tarlati e’ loro amici non s’ardirono di venire al soccorso per la potenza maggiore di loro nimici, e per lo disavantaggio del poggio; e così s’arendé Fronzole al conte Simone, salve le persone, a dì XXIIII d’agosto del detto anno, che·ffu un bello aquisto al conte, però ch’è de’ più forti castelli e rocca di Toscana, e cova e soprasta a Poppi, al di sopra poco più d’uno miglio. Il conte avutane la vettoria, ne fece grandi grazie al Comune di Firenze e Sanesi e Perugini per suoi ambasciadori; e poi elli in persona vegnendo in Firenze, riconoscendo d’averlo raquistato per lo aiuto e forza del nostro Comune, e mandocci la campana del detto castello per segno e ricordanza.

XXXIV Ancora di novità fatte in Firenze per rettori di quella.

Nel detto anno, a dì XXXI d’ottobre, si fece per lo popolo minuto reggente il Comune una nuova riformagione e legge contro a’ grandi, che·ssi guardò adietro, e misesi inn ordine di giustizia, cioè che fosse tenuto l’uno consorto per l’altro nonistante che tra·lloro avessono nimistà, o disimulassono d’averla, per levare ogni vizio a’ grandi contro a’ popolani. Ancora feciono che ogni grande che fosse di fuori in signoria o al soldo d’alcuno signore, dovesse ritornare infra certo tempo, o sarebbe messo per ribello. Questo feciono per sospetto e gelosia presa di loro, però che dopo la cacciata del duca d’Atene, e state le novità e asalti dal popolo a’ grandi, come detto avemo adietro, molti grandi e gentili uomini per fuggire la furia del popolo e per prendere loro vantaggi, chi era ito al servigio di meser Mastino della Scala, e chi di meser Luchino Visconti, e chi del marchese da Ferrara e del signore di Bologna, e chi n’er’ito nel regno di Puglia; e tutti convennono che tornassono co·lloro sconcio e danno. E poi a dì XI di dicembre feciono i magistrati del popolo un’aspra riformagione e crudele contra il duca d’Atene, ciò·ffu che chiunque l’uccidesse avesse dal Comune Xm fiorini d’oro, cittadino o forestiere, e tratto d’ogni bando ch’avesse con asegnamento e ordine. E feciollo per suo dispetto e onta dipignere nella torre del palagio della podestà con messer Cerritieri de’ Visdomini, e meser Meliadusso, e il suo conservadore, e meser Rinieri da San Gimignano stati suoi aguzzetti e consiglieri, a memoria e asempro perpetuo de’ cittadini e forestieri che·lla dipintura vedesse. A cui piacque, ma i più di savi la biasimarono, però ch’è memoria del difetto e vergogna del nostro Comune, che ’l facemmo nostro signore. E·lla detta legge feciono perché il duca d’Atene adoperava in Francia col re e con altri baroni quanto potea di male contro a’ Fiorentini, ed erano in grande dubbio d’esere sopresi di rapresaglia d’infinita moneta che domandava per amenda al Comune di Firenze, se non che·ssi riparò allora col re di Francia con lettere del papa e con solenni ambasciadori, ch’andarono in Francia, faccendo manifesto e chiaro il re di Francia de’ suoi difetti e male reggimento. E oltre a·cciò non finava il duca di mettere sospetto e gelosia in Firenze, e mandando sovente sue lettere in Firenze a·ccerti suoi acconti, dando loro speranza di suo ritorno per male reggimento, dicea, di quelli reggeano la terra, onde poco dinanzi ne fue impiccati due legnaiuoli ch’erano molto suoi credenzieri quand’era signore in Firenze, e ricevieno e mandavano le dette lettere. Lasceremo alquanto de’ fatti del duca e di Firenze, e diremo d’altre novità d’intorno che furono in que’ tempi.

XXXV Come il marchese da Ferrara ebbe la città di Parma.

Nel detto anno, all’uscita d’ottobre, mesere Azzo di quelli da Coreggia che tenea Parma, come l’avea rubellata a mesere Mastino suo nipote per tradimento, come contammo adietro, non potendola tenere, però che s’avea fatto nimico meser Mastino, e per la continua guerra ch’aveano dal signore di Milano e da’ suoi seguaci, da·ccui anche s’era rubellato, ancora e traditolne, e da altri non potea avere aiuto né soccorso; per trattato di meser Mastino della Scala faccendolo fare a’ marchesi, per danari in quantità di fiorini venti milia d’oro diedono la signoria della terra ad Obizo marchese da Ferrara, che tenea Modona: e andòvi a prendere la posessione meser Ghiberto da Fogliano uscito di Reggio con CCC cavalieri, intra’ quali furono VI bandiere di cavalieri del Comune di Firenze, ch’erano al servigio del marchese. Per la qual cosa quelli da Gonzago, signori di Mantova, che tenieno Reggio, spiacendo loro la detta impresa, parendo loro rimanere assediati in Reggio, con tutta la loro forza e aiuto di meser Luchino si ragunarono a Reggio. E poi pochi dì apresso il marchese da Ferrara in persona, con sicurtà e licenza de’ signori di Reggio, andò a Parma con M cavalieri tra di sua gente e di quella del signore di Bologna e di meser Mastino; e riformata la terra della sua signoria, e lasciatola fornita di sua gente, se ne partì a dì VII di dicembre seguente per tornare a Modona e a Ferrara; e mandò inanzi per isguarguato meser Ghiberto da Fogliano con CCC cavalieri armati, e ’l marchese venia da uno miglio apresso colla sua gente quasi disarmati, per la sicurtà avuta da quelli di Reggio. Quelli da Gonzago non tennor fede, ma fuori di Reggio missono due aguati di loro gente, e come meser Ghiberto da Fogliano co’ detti CCC cavalieri fu nell’aguato, furono asaliti dinanzi e di dietro, e inchiusi e presi; e chi·ssi volle difendere fu morto, sicché tutti vi rimasono. E ’l detto meser Ghiberto con due suoi figliuoli e un suo nipote presi, e più altri caporali conestaboli e buona gente. E come questo tradimento sentì il marchese ch’era adietro, si tornò con sua gente in Parma molto crucciato: e ripresi que’ signori da Gonzago del detto tradimento, avendo data la sicurtà e salvocondotto, e’ si scusavano che·ll’aveano dato all’andare ma non al tornare; ma sempre, chi usa tradimento, il vizio dello ’nganno è aparecchiato e conseguente. I detti da Gonzago, coll’aiuto di meser Luchino da Milano, il febraio vegnente, sentendo il marchese da Ferrara in Parma, cavalcato in sul ferrarese insino presso a Ferrara a III miglia, levando grande preda, e faccendo gran dannaggio a’ marchesi. Per le quali cagioni l’altra lega di Lombardi, meser Mastino della Scala, e il signore di Bologna, e quello di Padova, co’ marchesi, alla primavera seguente feciono oste alla città di Reggio con più di IIIm cavalieri e popolo grandissimo, e chiusono sì i passi d’intorno a Reggio, che non vi potea entrare gente né vittuaglia; e per li più si credette non si potesse tenere. Né·ggià però meser Luchino e que’ da Gonzago con tutta la loro potenza non si vollono afrontare a battaglia co’ nimici, ma stavano alle frontiere al borgo a San Donnino e altre loro castella di reggiana a·ffare guerra guerriata in su quello di Parma e all’oste ch’era sopra Reggio. Ma per la state vegnente corruzione si cominciò nella detta oste da Reggio e infertà e mortalità, e intra gli altri di rinomo vi morì meser Francesco di marchesi da Esti, e meser Maffeo da Ponte Carradi capitano dell’oste e più altri; e simile dell’altra parte, onde per necessità si levaro e partiro le dette osti all’entrante d’ottobre MCCCXLV.

XXXVI Di certe novità state in Firenze in questi tempi.

Nel mese di dicembre del detto anno MCCCXLIIII la campana del popolo, che suona per lo consiglio, la quale poi che·ffu fatta era stata sopra i merli del palagio di priori, si tirò e aconciò ad alti in sulla torre, acciò che s’udisse meglio Oltrarno, e per tutta la città, la qual era d’uno nobile suono della sua grandezza. E nel luogo ov’era quella fu posta la campana che venne dal castello di Vernia, e ordinata sonasse solamente quando s’aprendesse fuoco di notte nella città, acciò ch’al suono di quella traessono i maestri e quelli che sono ordinati a spegnere i fuochi.

E del mese di gennaio seguente si fece per lo Comune di Firenze accordo e lega e compagnia col vescovo d’Arezzo, ch’era delli Ubertini, e con suoi consorti, e trattoli d’ogni bando; ed elli diede in guardia le castella del vescovado e·lle loro al conte Simone da Battifolle e a’ suoi fedeli per X anni per lo Comune di Firenze, e per fare guerra a’ Tarlati e rubelli d’Arezzo, e avere gli amici per amici e’ nimici per nimici. Le castella principali furono: Civitella, Cennina, e ’l palagio di Castiglione degli Ubertini e più altre fortezze.

E all’uscita del detto mese s’aprese fuoco al munistero delle donne del Prato, e fece loro danno assai. E apresso il primo dì di febraio s’aprese nella Città Rossa, e arse una casa e una femmina iv’entro. E a dì XV del mese di febraio furono condannati per processo ordinato tutti quelli della casa degli Ubaldini nell’avere e nelle persone siccome ribelli (salvo il lato di quelli da Senno, che non si trovaro colpevoli) per cagione della battaglia e aguato che feciono alla nostra gente a Rifredi, quando andavano al soccorso di Firenzuola, e per la presa della detta Firenzuola e del castello de’ Tirli alla cacciata del duca d’Atene, come in alcuna parte adietro facemmo menzione; e tutti i loro beni ch’erano nel contado di Firenze messi in Comune.

E nel detto mese di febraio vennono in Firenze ambasciadori del re di Francia a petizione del duca d’Atene; ciò fu uno cavaliere e uno cherico, e in pieno consiglio domandaro l’ammenda del detto duca. E nel detto consiglio e i·lloro presenza furono publicati i suoi falli e difetti, e mostrate le sue quitanze; e ordinati e mandati al re di Francia ambasciadori colla risposta per lo nostro Comune, come dicemmo adietro; e a quelli ambasciadori del re presentati per lo Comune, e fatto loro le spese e compagnia e onore assai, mentre dimorarono in Firenze e per lo nostro contado; onde n’andarono molti contenti; ma però non lasciò il re di Francia di proccedere contro a’ Fiorentini per lo duca d’Atene, come inanzi si farà menzione.

E nel detto mese di febraio per lo Comune si fece ordine che qualunque cittadino dovesse avere dal Comune per le prestanze fatte al tempo di XX, come adietro facemmo menzione, che·ssi trovaro più di DLXXm di fiorini d’oro, sanza il debito di meser Mastino della Scala, ch’erano presso di Cm fiorini d’oro, si mettessono in uno ligistro ordinatamente; e dare il Comune ogni anno per provisione e usufrutto a ragione di V per centinaio l’anno, dando ogni mese la paga per rata di mese; e diputossi a fornire il detto guiderdone parte della gabella delle porti e d’altre gabelle, la qual montava l’anno da fiorini XXVm d’oro, ov’erano asegnate le paghe a meser Mastino; e pagato lui, fossero diputate alla detta sodisfazione; il qual meser Mastino fu pagato del mese di dicembre per lo modo diremo inanzi. E cominciossi la paga della detta provisione del mese d’ottobre MCCCXLV. Nel detto anno, a dì XII di marzo, passò di questa vita e santificò uno Iacopo, figliuolo fu di meser Bono Giamboni giudice del popolo di San Brocolo, il qual era stato di santa vita, e vergine di suo corpo, si disse, e statosi in casa rinchiuso più di XXV anni, che non usciva se non alcuna volta anzi il giorno a confessione o prendere Corpus Domini; e avea dato per Dio a’ poveri tutta sua sustanzia e patrimonio, e poveramente e in digiuni e orazioni vivea, scrivendo libri a prezzo, e dittando da·ssé di sante e buone cose; e chi·lli mandava limosina no·lla ricevea, se non da divoti suoi amici; e ’l soperchio di suo guadagno, finito poveramente suo mangiare a giornata, dava per Dio a’ poveri. Fece Iddio visibili e aperti miracoli per lui alla sua morte, e poi e’ soppellissi a Santa Croce a guisa di santo. E a sua vita predisse a’ suoi amici più cose future, e ch’avvennero nella nostra città, e della signoria e cacciata del duca d’Atene per vertù dello Spirito Santo. Lasceremo alquanto de’ fatti di Firenze, che assai n’avemo detto a questa volta, e diremo delli strani.

XXXVII Di novità state nella città di Genova.

Nel detto anno, all’uscita di dicembre, il dogio del popolo di Genova, che avea nome Simone di quelli di Boccanegra, ch’avea regnato signore da anni, come adietro è fatta menzione, per sua motiva, e sentendo che gli Ori e·lli Spinoli, e Grimaldi e altri noboli co·lloro sforzo venivano alla terra, sì rinuziò la signoria dinanzi al parlamento del popolo, e andossene a Pisa con tutta sua famiglia e parenti, e dissesi con più di Cm fiorini d’oro contanti ch’egli avea guadagnati, overo tribaldati al suo uficio.

E il popolo di Genova, acciò che i grandi non prendessono la signoria, di presente elessono dogio del popolo e missono in signoria uno Giovanni da Monterena, il quale cominciò a reggere la signoria francamente per lo popolo, e contradiare i detti grandi e potenti, che venieno contro al popolo. E poi per ordine e trattato del detto dogio que’ della città di Saona levato la terra a romore a dì VIII di gennaio seguente, e feciono popolo, e cacciarono della terra i loro grandi, e quanti grandi e nobili v’avea di Genova, e tolsono loro le castella e ogni fortezza ch’avieno in Saona.

E poi il dì seguente il popolo di Genova feciono il somigliante; e perché gli Squarciafichi e’ Salvatichi, grandi di Genova, feciono alcuna risistenza, furono assaliti e combattuti dal popolo, e morti di loro, e cacciati della terra.

E vegnendo in que’ dì Ottone Doria e suoi seguaci e amici con DCC cavalieri e popolo assai, e dentro de’ borghi di Prea, il popolo di Genova uscì della terra, e con armata mano li assaliro e combattero e missono inn-isconfitta, e rimasene assai di morti e di presi. E il febraio seguente il dogio e popolo di Genova feciono lega e compagnia con meser Luchino Visconti signore di Milano, ed elli promisse a·lloro d’avere li amici per amici e nimici per nimici, e servigli al loro bisogno di D cavalieri. E poi del detto mese gente d’arme di Genova, ch’erano iti a cavallo e a piede a porto Morici, furono rotti e sconfitti da·lloro usciti. Ma poi l’aprile vegnente que’ di Genova coll’aiuto di meser Luchino v’andarono a oste per mare e per terra, e presono il detto porto Morici e·lla terra. Ma poi all’entrante di luglio MCCCXLV messer Luchino Visconti fece fare pace dal popolo di Genova a’ loro usciti.

XXXVIII Ancora della guerra della gente di mesere Luchino co’ Pisani.

Nel detto anno e mese di febraio i Pisani feciono lega e compagnia con certo ordine con meser Mastino della Scala, e col signore di Bologna, e co’ marchesi da Ferrara, e Romagnuoli per dispetto e contrario di meser Luchino Visconti, e richiesonne i Fiorentini; ma non vi si vollono acordare. Per la qual cosa la gente di meser Luchino, ch’era in Versilia, passato il Serchio in quantità di D cavalieri e popolo assai, e corsono insino presso alla città di Pisa per la via di Valdiserchio faccendo gran danno d’arsioni, e levando gran prede d’uomini e di bestie e d’arnesi, e tornarsi in Versilia sani e salvi, che di Pisa non uscì uomo a contradiagli. E poi del mese di maggio MCCCXLV morto il marchese Malaspina cognato di meser Luchino, a cui petizione mantenea la detta guerra; e priego del dogio e popolo di Genova meser Luchino fece pace co’ Pisani, ed ebbe d’amenda Cm fiorini d’oro, rimanendo a’ Pisani le terre di Lucca, ch’allora si tenieno per meser Luchino, e rendé li stadichi a’ Pisani. E questo è il fine de’ tiranni di Lombardia, per trarre loro utole delle guerre e disensione di noi ciechi Toscani. Lasceremo alquanto di nostri fatti di Firenze e d’Italia, e diremo di certe novità d’oltremare.

XXXIX Come i Cristiani presono la città delle Smirre sopra i Turchi.

Nel detto anno MCCCXLIIII, essendo per lo re di Cipri e per lo mastro dello Spedale e magione, che tenea l’isola di Rodi, e per lo patriarca di Gostantinopoli e cogli amiragli delle galee de’ Genovesi e Viniziani, ch’erano al soldo della Chiesa sopra i Turchi, ordinarono una grande armata di navi, cocche e galee con molta buona gente d’arme per andare sopra i Turchi, e ragunarsi all’isola di Negroponte in Romania overo Grecia; e di là si partì la detta armata del mese di..... e puosonsi alla città delle Smirre nel paese che oggi si chiama Turchia, assai presso dove anticamente fu la grande città di Troia, e in quello golfo di mare. La qual città si tenea pe’ Turchi, ed era molto forte fornita di molta gente d’arme Turchi e Saracini. E·lla detta armata di Cristiani entrarono nel porto della detta Smirra, e quello combattendo con aspre battaglie, e con difici e torri di legnami fatti in sulle cocche e navi, per forza presono le torri del porto, e tagliarono e gittarono in mare i Turchi che v’erano alla difesa. E vinto il porto, asalirono la terra da più parti, e combattendo per forza d’arme l’ebbono con gran tagliata e uccisione di Saracini e Turchi, che non vi lasciaro né uomini né femmina né fanciulli che non mettessono alle spade a morte, chi non si fuggì, i quali furono quasi innumerabile gente; e trovarolla fornita di molta ricchezza, cose, maserizie e vittuaglia. Sentendo ciò il soldano di Turchi ch’avea nome Marbasciano, ch’era fra terra a sue castella, di presente vi venne con XXXm Turchi a cavallo e con gente a piè innumerabile, e puose di fuori l’assedio alla detta terra delle Smirre con più campi. I Cristiani, ch’aveano presa la terra, la guernirono e aforzarono di loro gente, e·lla terra era fortissima di mura e torri, e sovente uscivano fuori alli scaramucci e badalucchi contro a’ Turchi, quando a danno dell’una parte e quando dell’altra; e il detto assedio durò parecchi mesi, combattendosi al continovo di dì e di notte. In questa stanza Marbasciano soldano di Turchi, veggendo che seguendo l’assedio perdea al continuo di sua gente, e poco potea fare alla terra, sì era forte, sì si provide maestrevolmente per attrarre i Cristiani di fuori a·ccampo; sì si ritrasse colla maggiore parte di sua gente adietro alquante miglia alle montagne, e lasciò certa parte di sua oste a campo fuori della terra. I Cristiani ch’erano nelle Smirre veggendo asottigliato il campo di nimici di genti, stimando fossono per l’assedio straccati, il dì di santo Antonio, dì XVII di gennaio, popolo e cavalieri, uscirono della città, e asalirono il campo di Turchi vigorosamente, e quello con poco contasto di battaglia missono inn-isconfitta e fuga con grande mortalità di Turchi; e preso e rubato il campo, e intendendo certi alla caccia di Turchi che fuggieno, e certi alle spoglie del campo, e’ capitani dell’oste con buona parte della migliore gente intendeno a·ffare gran festa, e celebrare messa e sagrificio nel campo, credendosi avere tutto vinto, e non prendendosi guardia dell’aguato, Marbasciano con suoi Turchi, com’avea ordinato per certi segni, discesono delle montagne, ch’erano assai presso, e assalì la gente de’ Cristiani, ch’erano sparti, e male in ordine e peggio in guardia e·cchi armato e chi disarmato, e di presente con poco afanno gli ebbono rotti e sconfitti e messi in volta. E chi si fuggì nella terra; e di migliori rimasono nel campo alla battaglia, la quale durò poco, però che’ Cristiani erano pochi alla comparazione di Turchi; e quelli che ressono al campo rimasono tutti morti. Intra gli altri vi morì il patriarca di Gostantinopoli, uomo di grande valore e autoritade, e meser Martino Zaccheria amiraglio di Genovesi, e meser Piero Zeno amiraglio di Viniziani, e ’l maliscalco de·rre di Cipri, e più frieri della magione dello Spedale, e più di D buoni uomini di Cristiani che ressono combattendo al campo, onde fu grande dannaggio; tutti gli altri Cristiani si fuggirono nella terra. E avenne loro bene, che per la detta rotta e sconfitta non isbigottirono, ma vigorosamente salvarono e difesono la terra da’ Turchi, sicché per battaglie che vi dessero no·lla potero raquistare, ma ne moriro molta di loro gente per li molti balestrieri che dentro v’erano alla guardia. Venuta la detta novella in ponente e al papa, lieti ne furono per lo raquisto delle Smirre, e crucciosi della rotta e perdita di quella buona gente che vi rimasono morti. Per la qual cosa incontanente fece il papa indulgenza e perdono di colpa e di pena chi v’andasse o mandasse al soccorso, e andarvi di Firenze di loro volontà, e che furono mandati alle spese di chi volle il perdono, da CCCC di croce segnati, e con tutte armi e soprasberghe bianche con giglio e croce vermiglia, e per loro medesimi ordinati a conestaboli e bandiere. E di Siena ve n’andarono bene CCCL, e così di molte altre terre di Toscana e di Lombardia, chi pochi e·cchi assai, sanza ordini di Comuni, e feciono la via da Vinegia, però che·llà era ordinato il passo e navile alle spese della Chiesa. E ’l papa fece capitano di crociati il Dalfino di Vienna con sua compagna di gente d’arme al soldo della Chiesa; e passò per Firenze all’entrante del mese d’ottobre MCCCXLV, e andonne a Vinegia per seguire il detto viaggio e impresa, e più altri cavalieri oltramontani v’andaro per avere il perdono; e·cchi affiato della Chiesa. Lasceremo al presente della detta impresa, e diremo d’altre novità state ne’ detti tempi.

XL Come fu morto il re d’Erminia.

Nel detto anno MCCCXLIIII il re d’Erminia, il quale avea per moglie la figliuola del prenze di Taranto e della Morea, e nipote del re Ruberto, e per amore della moglie si dilettava co’ baroni e cavalieri latini, che più gli piacea i loro costumi che quelli delli Ermini, e quanta buona gente di ponente capitava in sua corte gli ritenea a suo soldo, chi a cavallo, e chi a piè; per la qual cosa i baroni ermini per invidia ordinarono tradimento, e uccisono il detto loro re. E ancora ci ebbe, e fu grande cagione della sua morte, che ’l papa per suoi legati gli avea promesso sussidio e aiuto alla difensione di Saracini, e·rre di Francia più tempo dinanzi presa la croce e promesso di passare oltremare al conquisto della Terrasanta; e ciascuno de’ detti signori tenea al continuo in vana speranza il re d’Erminia, e·rre i suoi baroni; e ciascuno, cioè il papa e il re di Francia, gli fallirono, e’ Saracini corsono più volte l’Erminia con gran danno del paese; e però i baroni s’indegnarono contro al detto re, e l’uccisono. Lasceremo de’ fatti d’oltremare e d’altre novità d’intorno, faccendo digressione, raccontando d’una grande congiunzione di certi gravi pianeti, che fu in questi tempi, che sono di grande significazione al secolo.

XLI Della congiunzione di Saturno e di Giove e di Marti nel segno d’Aquario.

Nell’anno MCCCXLV a dì XXVIII di marzo, poco dopo l’ora di nona, secondo l’adequazione di mastro Pagolo di ser Piero, gran maestro in questa iscienzia, fue la congiunzione di Saturno e di Giove a gradi XX del segno dello Aquario collo infrascritto aspetto degli altri pianeti. Ma secondo l’almanaco di Profazio Giudeo e delle tavole tolletane dovea esere la detta congiunzione a dì XX del detto mese di marzo; e ’l pianeto di Marti era co·lloro nel detto segno d’Aquario gradi XXVII, e·lla luna scurata tutta a dì XVIII del detto mese di marzo nel segno della Libra gradi VII. E all’entrare che fece il sole nell’Ariete, a dì XI di marzo, fu Saturno in sull’ascendente nel segno d’Aquario gradi XVIII e signore dell’anno, e Giove nel detto Aquario gradi XVI. E Mars nel detto Aquario gradi XXII; ma seguendo l’equazione del detto mastro Paolo, ch’è de’ maestri moderni, e dissene che co’ suoi stormenti visibilmente vide la congiunzione a dì XXVIII marzo, essendo la detta congiunzione nell’angolo di ponente, e ’l sole era quasi a mezzo il cielo un poco dichinante a l’angolo, a gradi XVI dell’Ariete, e in sua saltazione; e il Leone, sua casa, era in su l’ascendente gradi XIII e Mars era già nel Pesce gradi VI; Venus nel Tauro gradi XIIII, sua casa, e in mezzo il cielo; Mercurio in Tauro in primo grado, e·lla luna inn-Aquario gradi IIII. Questa congiunzione co’ suoi aspetti delli altri pianeti e segni, secondo il detto e scritto de’ libri degli antichi grandi maestri di strolomia, significa, Idio consentiente, grandi cose al mondo, e battaglie, e micidi, e grandi commutazioni di regni e di popoli, e morte di re, e tralazione di signorie e di sette, e aparimento d’alcuno profeta e di nuovi errori a fede, e nuova venuta di signori e di nuove genti, e carestia e mortalità apresso in quelli crimanti, regni, paesi e cittadi, la cui infruenza de’ detti segni e pianeti è atribuita; e talora fa nascere inn-aria alcuna stella comata, o altri segni e diluvi e di soperchie piove, però ch’ella è grave congiunzione per la propinquità di Marte, e sì per l’ecrissi proccedente dalla luna, e sì per la figura anuale a·cciò concordevole, e sì ancora perché poco tempo apresso ritrogando Saturno e Giove si rapressaro a gradi uno, minuti XXXV, tanto che·ssi possono un’altra volta congiunti riputare; bene darà più tardezza alli effetti per la ritrogagione. Questo non diciamo fia di nicissità, ma fia il più e ’l meno al piacere di Dio, disponitore de’ detti corpi celestiali, mediante la sua giustizia e misericordia, secondo i meriti e peccati delle genti e de’ regni e de’ popoli per pulire e rimunerare; ed ècci la libertà del libero arbitrio dell’uomo, quando il voglia operare, la qual cosa è in pochi per lo difetto del vizio lascibile e·lla poca costanza delle virtù, onde per li più si vive al corso di fortuna. E nota ancora e troverrai che ’l pianeto di Marti entrò nel segno del Cancro a dì XII del mese di settembre nel detto anno MCCCXLV, e stette nel detto segno tra diretto e ritrogrando infino a dì X di gennaio, che ritrogando tornò in Gemini, e stettevi insino a dì XVI di febraio, e ritornò poi in Cancro, e stette poi in quello infino a dì II di maggio MCCCXLVI, sicché mostra sia stato in Cancro da mesi VI e mezzo tra due volte, che secondo suo usato corso non sta nel segno che L dì. Onde per molti maestri si disse che ’l reame di Francia avrebbe molte aversità e mutazioni, perché il segno del Cancro è asaltazione del pianeto di Giove dolce e pacifico, e dà ricchezze e nobiltà. Il quale segno del Cancro è atribuito al reame di Francia. Ancora il pianeto di Giove fu soprastato da Saturno e da Mars, il quale pianeto di Giove s’atribuisce alla Chiesa e al re di Francia. Ancora nota che partito Giove dalla congiunzione di Saturno e di Marti, ed entrato nel segno del Pesce sua casa, al continuo fu congiunto in quello colla cauda dragonis, ch’ancora li fa ditreazione, e nel paese ov’è atribuito la sua infruenzia.

Ora potrà dire chi questo capitolo leggerà, che utole porta di sapere questa strolomia al presente trattato? Rispondiamo che a chi fia discreto e proveduto, e vorrà investigare delle mutazioni che sono state per li tempi adietro in questo nostro paese e altrove, leggendo questa cronica assai potrà comprendere per comparazione di quelle sono passate pronosticate delle future, aconsentiente Idio, che questa congiunzione in questa tripicità de’ segni dell’aere fu e cominciò a questi nostri presenti tempi gli anni MCCCV nel segno della Libra; e poi gli anni MCCCXXV nel segno del Gemini. A ciascuno fu ed è assai manifesto le novità state nella nostra città e altrove, ch’assai sono fresche dall’una congiunzione e·ll’altra, che sono state quasi di XX anni in XX anni poco meno; ch’è·lla più leggera, e in LX anni tornò, ch’è più grave e muta tripicità. E anche si possono leggermente ritrovare le novità che furono, e·lla discordia e guerra dalla Chiesa e·llo ’mperio, e l’altre novitadi e dell’antico popolo di Firenze, e della tralazione della signoria del re Manfredi al re Carlo, e in CCXL overo in CCXXXVIII l’avrà fatta XII volte in XII segni, le novitadi che furono in que’ tempi adietro, il passaggio d’oltremare e altre grandi cose, e·lla mutazione della signoria del regno di Cicilia a Ruberto Guiscardo. E in DCCCCLX overo DCCCCLIII anni fornite XLVIII congiunzioni, e tornando alla prima, ch’è la più ponderosa di tutte, se cerchi adietro troverrai il cominciamento del calo della potenza del romano imperio alla venuta de’ Gotti e di Vandali inn-Italia, e molte turbazioni a santa Chiesa etc. E questo basti alla presente materia, e diremo d’altro.

XLII Quando morì mesere Albertino da Carrara signore di Padova, e quello ne seguì.

Nel detto anno MCCCXLV, all’uscita del mese di marzo, morì meser Albertino da Carrara, il quale i Fiorentini e’ Viniziani al conquisto della città di Padova da meser Mastino, come dicemmo adietro, ne feciono signore; e male ne fu conoscente, come fanno gli altri tiranni. E·llui morto, lasciò in suo luogo signore meser Marsilietto suo consorto ch’era assai valoroso e da bene; ma·lla invidia, che sempre ditrae ogni beneficio, commosse Iacopo da Carrara nipote carnale del sopradetto meser Albertino, e con suo séguito, poco tempo apresso, per tradimento di notte tempore uccise il detto meser Marsilietto suo consorto, e corse la terra, e come tiranno se ne fece signore.

XLIII D’una aspra legge che ’l popolo di Firenze fece contro a’ cherici.

Nel detto anno, a dì IIII d’aprile, i reggenti e maestri del popolo di Firenze, uomini e collegi della qualità che detto avemo adietro, feciono una aspra e crudele legge sopra i cherici contra ogni ordine e dicreti di santa Chiesa, con molti capitoli contro a libertà di santa Chiesa. Intra gli altri, che quale cherico offendesse ad alcuno laico d’alcuno malificio creminale, fosse fuori della guardia del Comune, e potesse esere punito personalmente dalla signoria secolare inn-avere e in persona, non riserbando degnità; e quello cherico o laico impetrasse in corte di papa, o appo altro legato, lettera o privilegio di giudice dilegato in sua causa e quistione, che da niuna signoria di Comune fosse udito né amesso; ma che i propinqui e parenti di quelli ch’avesse fatta la ’mpetragione fossero costretti inn-avere e in persona, tanto facessono rinuziare la sua impetragione. Di queste leggi, e altri membri che·ssi contengono nella detta riformagione, fu la motiva che certi cherici rei di grandi e di possenti popolari pur facieno sotto titolo della franchigia di loro chericato di sconce cose a’ secolari impotenti. E per cessare l’opposizione di contratti usurari, e per cagione di molte compagnie, che ’n quelli tempi e dinanzi erano falliti, levarono che non si potessono impetrare privilegi di giudici dilegati. Tutte queste fossono le cagioni, e hanno alcuno colore di giustizia, da’ savi uomini fu molto biasimata la detta legge e riformagione, che perché il Comune la si potesse fare, non era licito di farla contro alla libertà di santa Chiesa né mai più fu fatta in Firenze; e·cchi vi diè aiuto o consiglio o favore issofatto fu scomunicato. E·sse in Firenze fosse in quelli tempi stato un valentre vescovo non cittadino, pure come fu il vescovo Francesco da Cingole anticessoro del presente, non sarebbe stato soferto; ma il presente vescovo, nostro cittadino, della casa delli Acciaiuoli, invilito per lo fallimento e cessagione de’ suoi consorti, non ebbe ardimento al riparo della inniqua e ingiusta legge. La quale saputa in corte, ne fu fatto grande clamore al papa e a’ cardinali; e poi tra per ciò e per altri processi fatti per lo Comune di Firenze contra i cherici nacque scandalo dalla Chiesa a’ Fiorentini, come inanzi faremo menzione. E nota che fa il reggimento delle cittadi, essendone signori artefici e manuali e idioti, però che i più delle XXI capitudini dell’arti, per li quali allora si reggea il Comune, erano artefici minuti veniticci di contado e forestieri, a·ccui poco dee calere della republica, e peggio saperla guidare; e però che avolontatamente fanno le leggi straboccate sanza fondamento di ragione, e male si ricordano chi dà le signorie delle cittadi a sì fatte genti quello che n’ammaestra Aristotile nella sua Politica, cioè che’ rettori delle cittadi sieno i più savi e discreti che si possano trovare. E ’l savio Salamone disse: «Beato quello regno ch’è retto per savio signore». E questo basti aver detto sopra la presente materia, con tutto che per difetti di nostri cittadini e per li nostri peccati male fummo retti per li grassi popolani, come poco adietro avemo fatta menzione. E da dubitare è del reggimento di questi artefici minuti idioti e ignoranti e sanza discrezione e avolontati. Piaccia a Dio che sia con buona riuscita la loro signoria, che me ne fa dubitare.

XLIV Come il popolo di Firenze tolse a certi grandi e gentili uomini certe posessioni e beni donati loro per lo Comune.

E poi del mese di maggio del detto anno per li detti reggenti e maestrati del popolo di Firenze fur tolti di fatto, e contra ogni debita ragione, a più nobili indotati dal Comune per antico o per loro meriti e di loro anticessori, o per ogni fare per lo Comune, come diremo apresso; intra gli altri a quelli della casa de’ Pazzi le posessioni e beni che il popolo e Comune di Firenze avea donati e dotati a·lloro anticessori con ogni sollennità che fare si potesse infino gli anni MCCCXI, quando il popolo di Firenze fece cavalieri e difenditori del popolo quattro di loro, II figliuoli di messere Pazzino, e due suoi cugini, per la morte del detto meser Pazzino, stato morto in servigio del popolo, e·llui vivendo, capo e difenditore del popolo con suoi consorti contro ad ogni grande che contro al popolo erano o aoperassono, come adietro in quelli tempi facemmo menzione; e il suo padre mesere Iacopo del Nacca morto a Monte Aperti, caporale e gonfaloniere del popolo; e gli altri suoi consorti le grandi operazioni fatte per lo Comune e popolo di Firenze a·cColle, come adietro è fatta menzione; e per tanti benefici fatti per lo Comune e popolo di Firenze, antichi e moderni, non volere esere udite niuna loro ragione, né commetterla in quale giudice in Firenze o in Bologna, ch’al Comune piacesse. Ma meglio era non dare il dono che·lla cosa donata villanamente ritorre contra a ragione. E per simile modo tolsono i beni a’ figliuoli di meser Pino e di meser Simone della Tosa, donati per lo Comune e popolo, quando gli feciono cavalieri del popolo, che tanto per lo popolo adoperarono, come in questa è fatta menzione. E per simile modo a’ figliuoli di mesere Giovanni Pini de’ Rossi, il quale morì apo Vignone in Proenza, essendo ambasciadore del Comune al papa Giovanni per gran cose. E montarono le dette posessioni più di fiorini XVm d’oro, e convertissi a rifacimento di ponti, ma non ne tornò in Comune la metà in danari che valeano. Di questo torto fatto pe’ reggenti del popolo a’ sopradetti gentili uomini, collo ’nzigamento degli altri grandi per invidia. avemo fatta menzione per dare asempro a quelli che verranno come riescono i servigi fatti allo ’ngrato popolo di Firenze; e nonn-è avenuto pure a’ detti, ma se ricogliamo le ricordanze antiche pure di questa nostra cronica, intra gli altri notabili uomini che feciono per lo popolo, si fu mesere Farinata delli Uberti, che guarentì Firenze che non fosse disfatta; e mesere Gianni Soldanieri, che·ffu capo alla difensione del popolo contra al conte Guido Novello e gli altri Ghibellini; e di Giano della Bella, che·ffu cominciatore e facitore del secondo e presente popolo; e meser Vieri di Cerchi, e Dante Allighieri, e altri cari cittadini e guelfi, caporali e sostenitori di quello popolo. I meriti e guiderdoni ricevuti i detti e’ loro discendenti dal popolo, assai sono manifesti, pieni di grandissimo vizio d’ingratitudine, e co grande offensione a·lloro e a’ loro discendenti, sì d’esili e disfazione de’ beni loro, e d’altri danni fatti per lo ’ngrato popolo e maligno, che discese di Romani e di Fiesolani ab anticho, ancora, se leggiamo l’antiche storie di nostri padri romani, non vogliamo tralignare. Intra·ll’altre notevoli ingratitudini fatte per lo detto popolo, assai sono manifeste: che merito ricevette il buono Camillo che difese Roma e diliberò da’ Gallici? Certo fu sanza colpa cacciato inn-esilio e sbandito. Che diremo del buono Iscipio Africano che diliberò la città di Roma e ’l suo imperio d’Anibale, e vinse e sottomise Cartagine e tutta la provincia d’Africa al Comune di Roma, e per simile modo dallo ’ngrato popolo fu mandato inn-esilio per la invidia e a torto? Che diremo ancora del valente Giulio Cesare? Quanti notabili e grandi cose fece per lo Comune e popolo di Roma inn-Italia e poi in Francia, inn-Inghilterra, Alamagna, e sottomisele con tanto affanno al popolo di Roma, e per invidia de’ rettori e senato del popolo fu rifusato a cittadino, e poi, lui imperadore, da’ rettori del senato e suoi propinqui, e·lloro benefattore, fu morto? Certo questi antichi asempri e moderni danno matera che mai nullo virtuoso cittadino s’intrametta in benificio della republica e di popoli; ch’è grande male apo Dio e al mondo che’ vizii della ’nvidia e della superbia ingratitudine abatta le nobili virtù della magnanimità e della grata liberalità, fontana di benifici. Ma non sanza giusto giudicio d’Iddio sono le pulizioni de’ popoli e de’ regni soventi per li detti falli e difetti: pognamo che Iddio non punisca di presente fatto il fallo, ma quando il dispone la sua potenzia. Se nella matera avessimo detto di soperchio, il soperchio del disordinato vizio della ingratitudine ce ne scusi, per l’opere delli straboccati nostri rettori.

XLV Come volle esere tolto il castello di Fucecchio al Comune di Firenze.

Nel detto anno MCCCXLV, a dì XXVII d’aprile, quelli della Volta di Fucecchio nobili e di più possenti di quelli della terra, coll’aiuto di loro amici di Sa·Miniato e di gente del contado di Lucca, corsono la terra di Fucecchio per rubellalla e torla al Comune di Firenze sotto titolo di cacciarne que’ di meser Simonetto, un’altra casa di maggiori di Fucecchio, loro nimici. E sarebbe loro venuto fatto, se non fosse il sùbito soccorso delle masnade di Fiorentini ch’erano nelle castella di Valdarno e di Valdinievole, che·vvi trassono di presente; e con forza d’arme combattendo, furono i detti della Volta e·lloro seguaci nella terra sconfitti e rotti e cacciati, ov’ebbe assai di morti e fediti, e presi, impiccati per la gola. E poi la state apresso da D fanti di Pisani ch’erano alla guardia del Cerruglio e di Vivinaia e Montechiaro di notte tempo iscesono in Cerbaia, e parte ne passarono la Guisciana con trattato d’aver Fucecchio; per buona guardia si guarentì; onde i Fiorentini si dolfono forte a’ Pisani per loro ambasciadori, onde si scusarono molto che non era loro fattura; ma come sempre hanno usato, il vizio pisanoro d’inganni e tradimenti fu questo, però che non ne feciono né amendo né punizione; e se l’avessono preso, il s’avrebbono tenuto a onta e dispetto di Fiorentini. E per la detta novità di Fucecchio, onde i Malpigli e Mangiadori di Sa·Miniato furono operatori e cagione, il luglio apresso ebbe zuffa e battaglia in Sa·Miniato tra’ Mangiadori e Malpigli e loro seguaci; ma per li Fiorentini vi si mise accordo, perché non si guastasse quella terra. Ancora poi all’entrante di marzo del detto anno volle essere tradito Fucecchio, e più terrazzani colpevoli di ciò ne furono morti e giustiziati. E nel detto anno, all’entrante di giugno, fu fatta pace e accordo dal Comune d’Arezzo a’ Tarlati e·lli altri loro usciti ghibellini per mano di Perugini e Fiorentini.

XLVI Di certi lavorii di ponti e d’altri fatti per lo Comune in questi tempi.

Nel detto anno, a dì XVIII di luglio, si compié di volgere e di serrare il nuovo ponte rifatto sopra l’Arno nel luogo ove anticamente era stato il ponte Vecchio, con due pile e tre archi, molto bello e ricco. Costò bene fiorini... d’oro; e·ffu bene fondato, e largo braccia XXXII, che·lla via rimase larga braccia XVI, che·ffu troppo grande al nostro parere, e basse l’arcora da braccia II; e·lle botteghe dall’uno lato e dall’altro larghe braccia..., e lunghe braccia VIII, e furono fatte in sul sodo dell’arcora fatte a volte di sopra e di sotto, e furono XLIIII, onde il Comune ebbe di rendita di pigione l’anno da DCCC fiorini d’oro o più, ch’anticamente erano di legname sportate sopra l’Arno, e ’l ponte stretto braccia XVI. E nel detto anno si cominciò a rifondare con nuove pile il ponte a Santa Trinita, e compiessi l’anno MCCCXLVI a dì IIII d’ottobre, e·ffu molto bello e forte, e costò da XXm fiorini d’oro. E merlossi con beccatelli isportati il palagio antico, dove abita la podestà dietro alla Badia e da San Pulinari, e missesi in volta il tetto di sopra perché non potesse ardere, come fece altra volta. E nel detto anno si cominciò a rivolgere e rinovare la coperta del marmo del Duomo di San Giovanni, e·lla cornice d’intorno troppo più bella che non era imprima, però che per lo lungo tempo la coperta prima di marmi in alcuna parte era rotta e guasta, e facea acqua e guastava le pinture dentro e storie del musaico. Lasceremo alquanto delle novità di Firenze e d’intorno, e diremo di novità fatte per lo re d’Inghilterra e sue genti in Fiandra e Brettagna e Guascogna, ch’assai furono maravigliose.

XLVII Come il re Adoardo d’Inghilterra venne in Fiandra, e mandò sue osti in Guascogna e ’n Brettagna contro al re di Francia.

Nel detto anno MCCCXLV Aduardo il terzo re d’Inghilterra fece un grande aparecchiamento di navile e di gente d’arme, per passare di qua da mare nel reame di Francia, ch’erano fallite le triegue. E del mese di giugno mandò il conte d’Ervi suo zio, cugino della casa reale, in Guascogna con CC navi cariche di cavalieri e d’arcieri. E mandò il conte di Monforte in Brettagna, a·ccui la duchea di quella a ragione succedea, come dicemmo adietro, con altre CC navi con gente d’arme assai a·ccavallo e a piè; e quello che’ detti due signori colle dette armate adoperarono in Brettagna e in Guascogna diremo ordinatamente nel presente capitolo.

Lo re Aduardo in persona col figliuolo con altre CC cocche, overo navi, con gente d’arme assai, arrivò alle Schiuse in Fiandra a dì VI di luglio, con intenzione e con ordine e trattato colle Comuni di Fiandra di fare conte di Fiandra il figliuolo; e il duca di Brabante d’altra parte avea trattato con Luisi conte di Fiandra lega e compagnia, e fatto matrimonio e parentado co·llui, e dava al suo figliuolo la figliuola del duca per moglie, e dovelo rimettere colle sue forze di Brabanzoni nella signoria della contea di Fiandra. E stando il re Aduardo alle Schiuse sopra i detti trattati, ed esendo andati al re d’Inghilterra Giacomo Artivello di Guanto, caporale e maestro di tutta la Comune di Fiandra, con altri ambasciadori di Guanto e dell’altre ville di Fiandra, e dopo molti parlamenti i detti ambasciadori si partiro inn-accordo col re; Giacomo d’Artivello vi rimase col re alquanti dì per trattare, secondo si disse, sue ispezialtadi, onde gran sospetto generò nelle Comuni di Fiandra; e·llui tornato poi a Guanto, facea come signore sgombrare certi palagi e case di borgesi di Guanto, e fare l’aparecchiamento per lo re d’Inghilterra, che·vvi dovea venire; o per lo sospetto preso, o per l’aroganza del detto Giacomo, o per operazione del duca di Brabante, certi della Comuna di Guanto levaro la terra a romore, e corsono, e combattero e assalirono alle case il detto Giacomo d’Artivello, apellandolo per traditore; ed elli con suo séguito si difendea, e uccise due della Comuna, e molti fediti. Alla fine non potendo durare all’esercito del popolo, fu morto elli e ’l fratello e ’l nipote con bene LXX suoi amici e famigliari, e disfatte le sue possessioni. E·cciò fu dì XVIIII di luglio. E fecesi capo della Comuna di Guanto uno...

E come adietro dicemmo in altro capitolo di fatti di Firenze, tali sono le fini degli uomini troppo prosuntuosi, e che·ssi fanno caporali de’ loro Comuni; e questo basti a tanto. Lo re Aduardo sentendo le dette novità, e non vegnendogli fornito in Fiandra il suo trattato, si partì con suo navilio dalle Schiuse, e tornossi inn-Inghilterra; e fece divieto che lane, né vittuaglia, né suo navilio, né altro che partisse di suo paese, arrivasse in Fiandra o in Brabante, onde i Fiamminghi rimasono molto confusi. Bene si raconciarono poi co·llui, come si dirà in altro capitolo innanzi.

Il conte d’Ervi arrivato in Guascogna si puose ad asedio della città di Bergherago, che teneno i Franceschi, ch’era del siri delle Brette, del mese d’agosto del detto anno. Il siniscalco di Guascogna per lo re di Francia, e il conte di Peragorga con D cavalieri e Xm pedoni vennero di notte per soccorrere la detta terra, credendo improviso avere sopreso il conte d’Ervi e sua oste; il quale stando di dì e di notte in buona guardia, si difese francamente dal detto assalto, e misero inn-isconfitta la gente del re di Francia, ove ne rimasono molti morti e presi. E poi il conte d’Ervi con sua gente combattero la terra, e per forza l’ebbono, ove fu grande uccisione e ruberia.

E sogiornando il detto conte d’Ervi alla detta città di Bergherago con suoi Inghilesi e Guasconi di sua parte, l’oste del re di Francia, in quantità di IIIm cavalieri con gente a piè innumerabile, la maggiore parte Guasconi e di Linguadoco, essendo allo assedio dell’Albaroccia in Guascogna, che tenieno gl’Inghilesi, e meser Gianni figliuolo del re di Francia con più di Vm cavalieri, con gran baronia di Franceschi, era a... presso a X leghe dell’Albaroccia; e per isdegno dell’Inghilesi, avendoli per niente, non volea esere al detto assedio. Gli asediati sentendosi molto stretti, mandaro al conte d’Ervi per soccorso, o a·lloro convenia rendere la terra. Il quale conte d’Ervi, come valente signore, non temendo di tanta cavalleria e potenzia del re di Francia, ch’avea al detto assedio e nel paese con messer Gianni di Francia, si partì da Belgeraco con quanta gente potéo con seco menare. E quando s’apressaro a’ nimici, quelli ch’erano a·ccavallo scesono tutti a piede, lasciando i cavalli adietro a’ loro fanti, ch’erano da MCC cavalieri e arcieri e gente a piè innumerabile, e assalirono così a piede la detta oste una mattina al punto del giorno, dì XXI d’ottobre del detto anno, ove fu aspra e dura battaglia, e grande uccisione dell’una parte e dell’altra; e durò infino al mezzogiorno, che non si sapea chi avesse il migliore. Alla fine essendo malmenata la gente del re di Francia d’uccisione di gente e di loro cavalli, l’Inghilesi e Guasconi di loro parte i cavalieri rimontarono freschi in su i loro cavalli, e per forza d’arme missono in volta e inn-isconfitta la gente del re di Francia, ov’ebbe molti morti e presi. Intra gli altri signori presi furono messer Luigi di Pittieri, il conte di Valentinese, il conte della Illa, il visconte di Nerbona, il visconte di Vilatrico, il visconte di Caramagna, messer Rinaldo d’Uosi nipote fu di papa Clemento V messer Ugotto dal Balzo, il siniscalco di Tolosa, e più altri signori e baroni, quasi tutti di Linguadoco; i quali si ricomperarono per loro raenzione più di libre Lm di sterlini. Messer Giovanni di Francia, che v’era presso colla sua baronia di Francia, come detto avemo, non venne al soccorso, né·ttenne campo, ma·ssi tornò adietro; onde gli fu messo in gran viltade, e preso grande sospetto per quelli di Linguadoco che tenieno col re di Francia. E per le dette due vittorie al conte d’Ervi e sua gente s’arenderono tra in Guascogna e in tolosana più di C tra città, terre e castella murate. E in questi tempi i Normandi, ch’erano sotto al re di Francia, feciono tra·lloro Comuna al modo de’ Fiamminghi, non ubidendo gli uficiali del re di Francia, e’ loro caporali trattando col re d’Inghilterra cospirazione, la qual poco tempo apresso partorì gran cose. Sentendo le dette novelle il papa e’ cardinali di tanta commovizione del reame di Francia per la detta guerra, vi mandò di presente due legati cardinali, messer per mettere pace o triegua tra’ detti signori, ma niente ne poterono fare; però che ’l papa era troppo parte in sostenere le ragioni del re di Francia, più che quelle del re d’Inghilterra, onde poi acrebbe molto male, come inanzi faremo menzione. E volle il papa proccedere contro al re d’Inghilterra, ma di ciò non ebbe concordia con gran parte di suoi cardinali, e però rimase. Essendo state in Guascogna le soprascritte battaglie a danno de’ Franceschi, messer Giovanni di Francia con tutta sua gente, ch’erano grandissima a·ccavallo e a·ppiè, puose assedio al forte castello d’Aguglione, e giurò di non partirsene mai che l’avrebbe; dentro v’avea buona gente d’arme Guasconi e Inghilesi; e spesso meser Giovanni facea combattere il castello, e que’ dentro sovente uscivano fuori a scaramucci e assalire il campo. Avenne che a dì XVI di giugno venendo da Tolosa per lo fiume all’oste de’ Franceschi due grosse navi cariche di vettuaglia e d’arnesi da oste, quelli d’Aguglione uscirono fuori per terra e per acqua, e per forza combattendo presono le dette navi e miserle nel castello con gran danno di nimici, andando con grand’audacia infra·ll’oste di Franceschi prendendo e uccidendo, onde tutto il campo de’ Franceschi fu ad arme, ch’era innumerabile gente, e per la loro moltitudine sopresono loro nimici ch’erano usciti d’Aguglione all’asalto dell’oste. Inanzi che tutti si potessono ricogliere al castello, ve ne rimasono assai morti, e presi gl’infrascritti caporali; messer Allessandro di Camonte, Guiglielmo Pomieri, il siniscalco di Bordello, il signore di Landiros, il signore di Pomiere, Ugo fratello del signore di Signaco, il visconte di Tartas fratello del signore di Soveraco, Giovanni Colombo di Bordello, tutti Guasconi, i quali più si scambiaro con parte di presi detti di sopra. Il conte d’Ervi con sua oste venne verso Aguglione, e rifornì il castello di gente e di vittuaglia. Lasceremo alquanto di questa matera per dire d’altre novità, ma assai tosto ci torneremo; però che·lla detta guerra dal re di Francia a quello d’Inghilterra crebbe diversamente, come inanzi faremo menzione.

XLVIII Come il re d’Ungheria venne inn-Ischiavonia, e come fu morto il re di Pollana.

Nel detto anno MCCCXLV, del mese di luglio, il re Lodovico d’Ungheria con grandi eserciti a·ccavallo e a piè venne inn Ischiavonia per raquistarla, ch’era di risorto del suo reame, onde si rubellò a’ Viniziani la città di Giadra, ch’ellino aveano tenuta lungo tempo, e rendessi al detto re d’Ungheria, la quale i Viniziani tenieno, per forza e potenzia ch’avieno per mare, tirannescamente e con soperchie gravezze; onde a’ Giadrini parea loro male stare, ch’era una grossa terra e buono Comune, usi di stare in loro libertà, salvo di piccolo risorto rispondieno per antico al re d’Ungheria; e questa fu la cagione della loro rubellazione. E per simile modo si rubellarono a’ Viniziani più altre terre; e tutta la Schiavonia era per raquistare il re d’Ungheria, se non che per soperchio di sua gente gli fallia la vettuaglia, sicché di nicistà il convenne ritrarre adietro. Ancora in questa stanza ebbe novella che ’l re di Pollonia fratello della madre avea combattuto in campo con Carlo figliuolo del re Giovanni di Buem, ed era stato sconfitto e morto sanza lasciare alcuno figliuolo. Per la qual cosa si tornò in Ungheria, e poi andò in Pollonia, e coronò del detto reame Stefano suo secondo fratello, a·ccui succedea per retaggio della madre. Lasceremo di dire alquanto de’ fatti degli strani, e diremo di nostri di Firenze.

XLIX Come i Fiorentini s’accordarono con meser Mastino della Scala di danari gli restavano a dare per la compera di Lucca.

Nel detto anno e mese d’agosto, essendo meser Mastino della Scala in discordia co’ Fiorentini per li danari restava ad avere dal Comune di Firenze per la matta e folle impresa di comperare da·llui la città di Lucca assediata, come adietro è fatta menzione, domandando meser Mastino tra di resto e d’amenda più di CXXXm di fiorini d’oro, i Fiorentini saviamente feciono ordine e dicreto che più stadichi non gli si mandassono, sì che allo scambiare, dove n’avea XII non avesse XXIIII, i vecchi e’ nuovi, abandonando quelli che v’erano, e·cche nullo Fiorentino stesse in sue terre, se non a·lloro rischio; onde meser Mastino crucciato rinchiuse in cortese prigione li XII stadichi ch’avea, e fece prendere quanti Fiorentini avea in Verona e Vincenza. E nota, lettore, a·cche fine riescono le compagnie e imprese da’ Comuni a’ tiranni e se mesere Mastino si seppe vendicare con danno e vergogna del nostro Comune delle ingiurie e guerra fatta contra·llui co’ Viniziani insieme, come lungamente adietro facemmo menzione. Avenne poi per bisogno che meser Mastino ebbe di moneta per la ’mpresa fatta fare al marchese da Ferrara dell’oste da Reggio contro quelli da Gonzago signori di Mantova, e per procaccio del marchese da Ferrara ch’era stato mediatore del sopradetto mercato di Lucca da’ Fiorentini a meser Mastino, mandò al Comune di Firenze che volea aconciare la quistione, i quali vi mandarono discreti ambasciadori. E venne meser Mastino in persona a Ferrara, e·llà si diè fine al detto accordo per LXVm di fiorini d’oro, quitando tutto all’uscita del mese di settembre, promettendolo di pagare infra due mesi. La quale civanza del detto pagamento si trovò in Firenze di presente per uno ordine ch’allora si fece per lo Comune, che quale cittadino dovesse avere dal Comune danari per li presti vecchi, prestandone altrettanti contanti, fosse assegnato sopra le gabelle ordinate a meser Mastino infra due anni di riavere i vecchi e nuovi prestati; e trovossi la civanza di presente, che·ffu bella cosa; e meser Mastino fu pagato, e finì il Comune, e tornarono li stadichi.

L Di più novità fatte e occorse in Firenze in questo anno.

Nel detto anno, a dì XXVI d’agosto, si diede al Comune di Firenze il castello delle Poci in su l’Ambra di là dal Bucino, ch’era delle terre del viscontado, e avienvi su ragione i conti da Porciano. Ma ’l Comune compensò per quello dovea dare al Comune di condannagioni Guido Alberti conte di quelli, e per offese fatte al Comune, che·ffu un bello aquisto coll’altre terre del viscontado detto ch’avea il Comune, tutto sieno di giuridizione d’imperio; ma dal fiume d’Ambra in qua tutto è oggi del distretto di Firenze.

In questi tempi certi da San Gimignano corsono la villa di Campo Urbiano con grande ruberia e arsioni e micidi, opponendo ritenieno loro sbanditi; per la qual cosa si turbò forte il Comune e popolo di Firenze, perch’altra volta, come adietro facemmo menzione, avieno fatto il simigliante; però fu condannato il Comune di San Gimignano in..., e’ terrazzani nell’avere e nelle persone. Ma poi del mese di novembre per prieghi de’ Sanesi e Volterrani e Colligiani, e per cessare scandalo, per grazia fu fatta compusizione co·lloro, e pagaro per amenda fiorini Vm d’oro, e rimasene in bando solamente IIII de’ caporali della detta cavalcata.

In questo anno, a dì XII di settembre, e poi a dì XXII di dicembre, di notte, furono grandi tremuoti, ma durarono poco.

In questo anno furono molte piogge in Firenze e in questo paese d’intorno, che dall’uscita del mese di luglio fino a dì VI di novembre non finò di piovere quasi del continuo; onde molto sconciò le ricolte, e guastò molto grano e biade ne’ campi, e uve nelle vigne molte ne guastò, e non fu il detto anno il vino né digesto né naturale, e·lle terre si poterono male lavorare e seminare. Per le quali soperchie piogge crebbe l’Arno per due volte sformatamente d’ottobre e di novembre, e coperse tutta la piazza di Santa Croce, e allagò gran parte del detto quartiere, e venne l’acqua fino al palagio della podestà. E·lla Tersolla crebbe sì sformatamente, che valicò il ponte a Rifredi e quello Borghetto, rovinò case e muri con gran danno e perdimento di cose e guastamento di terre. E simile diluviò il Mugnone e ’l Rimaggio e tutti i fossati d’intorno con gran danno delle contrade, ed ebbesi gran paura in Firenze di generale diluvio. E·lla congiunzione passata ci cominciò a mostrare delle sue influenzie, e·ffu segno e cagione e avenne il seguente anno di male ricolte e carestia di vettuaglia, come inanzi faremo menzione. Lasceremo alquanto di nostri fatti di Firenze, e racconteremo d’uno screpio e scellerato peccato e tradimento commesso per le rede e congiunti del re Ruberto tra·lloro, come diremo nel seguente capitolo.

LI Come e per che modo fu morto Andreas, che dovea essere re di Cicilia e di Puglia.

In questi tempi e anno, regnando nel regno di Puglia Andreas figliuolo di Carlo Umberto re d’Ungheria, il quale avea per moglie Giovanna figliuola prima reda di Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto, a·ccui dovea succedere il reame per lo modo e ordine, come adietro in alcuno capitolo facemmo menzione; il re Ruberto con dispensagione del papa e della Chiesa avea diliberato che fosse re dopo la sua morte. E aspettavasi di presente d’esere coronato del reame di Cicilia e di Puglia, e ordinato era in corte per lo papa uno legato cardinale che ’l venisse a coronare. Invidia e avarizia di suoi cugini e consorti reali, i quali vizi guastano ogni bene, collo iscellerato vizio della disordinata lussuria della moglie, che palese si dicea che stava inn-avoltero con meser Luigi figliuolo del prenze di Taranto suo cugino, e col figliuolo di Carlo d’Artugio, e con meser Iacopo Capano, e collo assento e consiglio, si disse, della zia sirocchia della madre, e figliuola fu di meser Carlo di Valos di Francia, che·ssi facea chiamare imperadrice di Gostantinopoli, che anche di suo corpo non avea buona fama, e del suo figliuolo meser Luigi di Taranto, cugino carnale della reina per madre, di lui secondo cugino, il quale si dicie ch’avea affare di lei, ed era in trattato di torla per moglie con dispensagione della Chiesa per succedere d’esere re dopo Andreas; e dissesi ancora che ’l duca di Durazzo suo frate l’assentì, ch’avea per moglie la sirocchia della moglie, acciò che se·lla prima morisse sanza reda a·llui succedesse il reame. Per questi suoi consorti e cugini della casa reale, si disse che con ordine della moglie e séguito delli infrascritti traditori, se vero fu come corse la fama piuvicamente, ordinarono di fare morire il detto giovane innocente re Andreas. Ed essendo il detto re Andreas ad Aversa colla moglie al giardino di frati del Murrone a diletto, e nella camera colla moglie nel letto, di notte tempore, a dì XVIII di settembre, con ordine e tradimento de’ suoi ciamberlani e alcuna cameriera della moglie, a petizione dell’infrascritti traditori, il feciono chiamare che·ssi levasse per grandi novelle venute da Napoli. Il quale con conforto della moglie si levò, e uscì fuori della camera; e di presente per la cameriera della reina sua moglie li fu riserrata la camera dietro; ed essendo nella sala Carlo d’Artugio e il figliuolo, e ’l conte di Tralizzo, e certi de’ conti della Leonessa e di quelli di Stella, e mesere Iacopo Capano grande maliscalco il quale si dicea palese ch’avea affare colla reina, e due figliuoli di meser Pace da Turpia, e Niccola da Mirizzano suoi ciamberlani, fu preso il detto Andreas e messogli uno capresto in collo, e poi spenzolato dallo sporto della detta sala sopra il giardino, essendo per parte di detti traditori ch’erano in quello preso e tirato pe’ piedi tanto che·llo strangolaro, credendo sotterrarlo nel detto giardino, ch’altri nol sapesse; se non ch’una sua cameriera ungara il sentì, e vidde, e cominciò a gridare, onde i traditori si fuggiro, e lasciaro il corpo morto nel giardino. Tale fu la repente morte del giovane e innocente re, che non avea se non XVIIII anni, per li falsi traditori. Fu recato il corpo a Napoli e sopellito co’ reali, e·lla moglie ne fece piccolo lamento, a ciò ch’ella dovea fare; e quand’elli fu morto, non ne fece cramore né pianto come quella che·ssi disse palese e corse la fama ch’ella il fece fare. E uno meser Niccola ungaro balio del detto re Andreas, passando per Firenze, che n’andava in Ungheria, il disse a nostro fratello suo grande acconto a Napoli, per la forma per noi iscritta di sopra, il qual era uomo degno di fede e di grande autorità; onde seguì poi molto male come inanzi si farà menzione. Ma ella, cioè la reina, pure rimase grossa d’infante di VI mesi, o·llà intorno; di cui si fusse ingenerato, dicea ella del re Andreas.

LII Di quello che seguì della morte del re Andreas.

Della detta scellerata e crudele morte del giovane re Andreas fu molto parlato e biasimato per tutti i Cristiani che·ll’udirono. E venuta la novella in corte, molto se ne turbò il papa e ’l collegio di cardinali, dogliendosi il papa in piuvico consistoro ch’ellino erano cagione della sua morte per avere tanto indugiato la sua coronazione; e scomunicò e privò d’ogni benificio ispirituale e temporale chiunque avesse operato, o dato consiglio o aiuto o favore alla morte del detto re. E commisse nel conte d’Andri, detto conte Novello di quelli del Balzo, ch’andasse nel Regno, e facesse giustizia e vendetta di chiunque di ciò fosse colpevole, in persona e in beni, così a’ clesiastici come a secolari; non risparmiando per nulla dignità. E·llui andato a Napoli; ma prima per l’Università di Napoli a romore di popolo e a baratta la terra, fu preso meser Ramondo di Cattana, ch’andava per Napoli comandando per parte della reina e somovendo come traditore fu preso, e di presente anche fu preso il figliuolo detto meser Pace stato ciamberlano del re Andreas: e disaminato chi ebbe colpa del micidio, e confessatolo, messogli l’amo nella lingua, perché non potesse parlare, menato in carro, levandogli le vive carni da dosso fu impeso e fatto morire; e poi il conte Novello fece inquisizione, e più baroni, e altri fece mettere in prigione, e due femine, la maestressa della reina e dama Ciancia Capana, che sentiro il tradimento; i quali traditori e·lle dette donne la reina difendea a suo podere, di non lasciarne fare giustizia. Ma poi, a dì II d’agosto vegnente MCCCXLVI, il detto conte Novello fece morire il conte di Tralizzi, che·ffu di quelli del Bolardo francesco, e il conte d’Eboli grande siniscalco, quelli si dicea giacea colla reina; e mandandoli in su due carri, e dalle genti furono lapidati, e poi arsi. E poi, a dì VII d’agosto per simile modo fece giustiziare mesere Ramondo di Cattana e notaio Nicola di Mirazzano, riserbandone altri a giustiziare.

Per la morte del detto re Andreas si scompigliò tutto il regno di Puglia; chi tenea colla reina, ch’avea la signoria del castello di Napoli e ’l tesoro del re Ruberto, ciò era meser Luigi fratello del prenze di Taranto, soldando gente d’arme per la reina, e per forza volea entrare in Napoli con D; ma il fratello e ’l duca di Durazzo e gli altri baroni e il popolo di Napoli il contradiarono. E così chi tenea colla reina e con meser Luigi di Taranto, e chi col prenze di Taranto, e·cchi col duca di Durazzo; ciascuno soldò gente d’arme assai a cavallo per sua guardia, e per paura del re d’Ungheria fratello del re Andreas, ch’era venuto a Giadra inn-Ischiavonia, come inanzi faremo menzione, e minacciava colle sue forze di passare nel Regno per essere re, e fare vendetta di quelli reali e della reina, che·ssi dicea ch’avieno fatto morire il fratello. Per la qual cosa tutto il regno stava isciolto e scomunato e in tremore, rubandosi i cammini sanza niuno ordine di giustizia; e’ detti reali male inn-accordo insieme, o da dovero, o per disimulazione insieme per coprire tra·lloro il peccato. E se il re d’Ungheria fosse passato, non avea ritegno, sì era scommosso il paese; ma·lla briga ch’avea co’ Viniziani, ch’erano a oste a Giadra, e ’l caro della vittuaglia al grande esercito, ch’avea di sua gente, e ancora non aparecchiato navile, gli sturbò la venuta allora; e·lla reina in questo stante avea fatto un fanciullo maschio dì XXVI di dicembre MCCCXLVI, e puosegli nome a battesimo Carlo Martello per l’avolo; ma per li più si disse ch’era figliuolo d’Andreas, e di certi segni il simigliava; e·cchi dicea di no, per la mala fama della reina. Lasceremo alquanto di questa matera, ch’a tempo e·lluogo vi ci converrà tornare, e diremo di nostri fatti di Firenze e d’altre novitadi.

LIII Come in Firenze si fece nuova moneta d’argento.

Nel detto anno MCCCXLV, avendo in Firenze grande difetto, e nulla moneta d’argento, se non la moneta da quattro, che tutte le monete d’argento si fondieno e portavansi oltremare; e valea la lega d’once XI e mezzo di fine più di libre XII a·ffiorini la libra, ond’era grande isconcio a’ lanaiuoli e a più altri artefici, temendo non calasse troppo il fiorino a moneta; sì·ssi ordinò il divieto che niuno traesse della città e contado ariento sotto certa gran pena; e ordinossi e fecesi nuova moneta d’argento di soldi IIII di piccioli l’uno, o XII quattrini, di lega di buono argento d’once XI e mezzo di fine per libra; e i soldi XI e danari X de’ detti grossi pesavano una libra, e soldi XI danari VIII ne rendea la zecca, e grossi due rimanea per l’overaggio al Comune. E trassesi di zecca di prima a dì XII d’ottobre del detto anno, e fu molto bella moneta colla ’mpronta del giglio e di santo Giovanni, e chiamavansi i nuovi guelfi; ed ebbe grande corso in Firenze e per tutta Toscana, e per lo caro dell’argento tornò il fiorino a valuta di libre III e soldi II di piccioli, e meno. Prima ci erano guelfi XV e mezzo per fiorino d’oro. Ma in quelli dì certi mali fattori cittadini, alquanti di casa i Bardi, e Rubecchio del Piovano, fatti venire da Siena certi maestri falsari di monete, e nell’alpe di Castro avieno ordinato di falsare la detta moneta nuova e quattrini. Furonne presi due e arsi, e confessaron per loro che, detti tre de’ Bardi la facieno loro fare, citati e non compariti, furono condannati al fuoco come falsari. Lasceremo alquanto de’ fatti di Firenze, ch’assai ne’ detti tempi era in tranquillo e buono stato e sanza guerra, con tutto fosse inn-assai bollore e tribulazioni per le compagnie e singulari persone cittadini falliti, come inanzi faremo menzione, e torneremo a dire d’altre novità delli strani che furono in questi tempi.

LIV Come furono morti il conte d’Analdo e ’l marchese di Giullieri da’ Fresoni.

Nel detto anno, del mese di settembre all’uscita, avendo il conte d’Analdo fatto suo sforzo di gente d’arme col marchese di Giullieri, passato in Frigia di là da Olanda, onde il detto conte d’Analdo era signore per retaggio, per sottomettere a sua signoria i Fresoni, che no·llo ubidivano. Il quale della detta impresa ebbe lieta entrata, che quasi sanza contasto conquistato gran parte del paese, ma poi riuscì con dolorosa fine. Parendo loro essere più al sicuri, i Fresoni si ragunaro in boschi e in maresi, e misero aguato a’ detti signori e loro genti, non prendendosi guardia, e in più parti i Fresoni ruppono i dicchi, ciò sono gli argini fatti e alzati per forza, a modo del Po, alla riva del mare per riparare il fiotto. Onde spandendosi l’acqua, la maggiore parte delle genti de’ detti signori annegarono, e chi dell’acqua scampò furono morti da’ Fresoni ch’erano inn aguato, che non ne campò uomo. E morìvi il detto conte d’Analdo e ’l marchese di Giullieri, onde fu gran dannaggio, ch’erano signori di gran potenza e valore; e rimase la contea d’Analdo sanza reda maschio, e succedette la detta contea a Lodovico di Baviera detto Bavero, ed Aduardo re d’Inghilterra, ch’avea ciascuno di loro per moglie una figliuola del detto conte d’Analdo, a’ccui succedea la contea.

LV Del fallimento della grande e possente compagnia de’ Bardi.

Nel detto anno, del mese di gennaio, fallirono quelli della compagnia de’ Bardi, i quali erano stati i maggiori mercatanti d’Italia. E·lla cagione fu ch’ellino avieno messo, come feciono i Peruzzi, il loro e l’altrui nel re Aduardo d’Inghilterra e in quello di Cicilia; che·ssi trovarono i Bardi dal re d’Inghilterra dovere avere, tra di capitale e di riguardi e doni impromessi per lui, DCCCCm di fiorini d’oro, e per la sua guerra col re di Francia no·lli potea pagare; e da quello di Cicilia da Cm di fiorini d’oro. E’ Peruzzi da quello d’Inghilterra da DCm di fiorini d’oro e da quello di Cicilia da Cm fiorini d’oro, e debito da CCCm di fiorini d’oro; onde convenne che fallissono a’ cittadini e forestieri, a cui dovieno dare più di DLm di fiorini d’oro, solo i Bardi. Onde molte altre compagnie minori, e singulari, ch’avieno il loro ne’ Bardi e·nne’ Peruzzi e negli altri falliti, ne rimasono diserti, e tali per questa cagione ne fallirono. Per lo quale fallimento di Bardi, e Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi, di Cocchi, d’Antellesi, Corsini, que’ da Uzzano, Perondoli, e più altre piccole compagnie e singulari artefici che falliro in questi tempi e prima, per gl’incarichi del Comune e per le disordinate prestanze fatte a’ signori, onde adietro è fatta menzione, ma però non di tutti, che troppo sono a contare, fu alla nostra città di Firenze maggiore rovina e sconfitta, che nulla che mai avesse il nostro Comune, se considerrai, lettore, il dannaggio di tanta perdita di tesoro e pecunia perduta per li nostri cittadini, e messa per avarizia ne’ signori. O maladetta e bramosa lupa, piena del vizio dell’avarizia regnante ne’ nostri ciechi e matti cittadini fiorentini, che per cuvidigia di guadagnare da’ signori mettere il loro e·ll’altrui pecunia i·lloro potenza e signoria, a perdere, e disolare di potenza la nostra republica! che non rimase quasi sustanzia di pecunia ne’ nostri cittadini, se non inn alquanti artefici o prestatori, i quali colla loro usura consumano e raunano a·lloro la sparta povertà di nostri cittadini e distrettuali. Ma non sanza cagioni vengono a’ Comuni e a’ cittadini gli occulti giudici di Dio per pulire i peccati commessi, siccome Cristo di sua bocca vangelizzando disse: «In peccata vestra moriemini etc.». I Bardi renderono per patto i·lloro possessioni a’ loro creditori soldi VIIII danari III per libra, che non tornarono a giusto mercato soldi VI per libra. E’ Peruzzi patteggiarono a soldi IIII per libra in posessioni, e soldi XVI per libra nelle dette di sopradetti signori; e se riavessono quello deono avere dal re d’Inghilterra e da quello di Cicilia, o parte, rimarrebbono signori di gran potenzia di ricchezza; e’ miseri creditori diserti e poveri, perché fallì credenze e·lle malvagie aguaglianze delli ordini e riformagioni del nostro corrotto reggimento del Comune, che chi ha podere più ha a suo senno i dicreti del Comune. E questo basti, e forse ch’è troppo avere detto sopra questa vergognosa matera; ma non si dee tacere il vero per chi ha a·ffare memoria delle cose notabili ch’ocorrono, per dare asempro a quelli che sono a venire di migliore guardia. Con tutto noi ci scusiamo, che in parte per lo detto caso tocchi a·nnoi autore, onde ci grava e pesa; ma tutto aviene per la fallabile fortuna delle cose temporali di questo misero mondo.

LVI Ancora di novità state in questi tempi in Firenze.

Nel detto anno, all’entrante di gennaio, di mezzodì uno lupo grande e salvatico entrò per la porta a San Giorgio, e scese giù, e corse, essendo isgridato, quasi gran parte d’Oltrarno; ma poi fu preso e morto alla porta a Verzaia. E in que’ dì cadde uno scudo di gesso dipinto col giglio, ch’era commesso sopra la porta dove abita il podestà, onde molti aguriosi per li detti segni temettono di future novità alla nostra città. E in que’ dì arse una casa di messer Simone giudice da Poggibonizzi nel popolo di San Brocolo. E nel detto anno passato III volte vi s’accese il fuoco, non trovandovi cagione chi ’l v’avesse acceso o messo; e molti amirandosi di ciò, dissono fu opera d’alcuno maligno spirito.

LVII Come il re di Francia diede rapresaglia sopra i Fiorentini per tutto il suo reame a petizione del duca d’Atene.

Del mese di febraio del detto anno Filippo di Valos re di Francia, a petizione del duca d’Atene, gli diè rapresaglia sopra i Fiorentini inn-avere e in persona in tutto il suo reame se infino al calen di maggio prossimo non avessono contento il detto duca d’Atene di ciò che domandava di menda a’ Fiorentini, ch’era infinita quantità. Poi del mese di luglio la confermò, e diede balìa al duca d’Atene ch’elli li potesse prendere e incarcerare e tormentare a sua volontà, non togliendo loro la vita o membro, siccome traditori del loro signore il duca d’Atene. Questo fu iscortese titolo dato per lo re per la rapresaglia contra il Comune e cittadini di Firenze, sanza volere udire o accettare le ragioni del Comune di Firenze, o·lle fini e quitanze fatte per lo detto duca al Comune, essendo di là al continovo il sindaco e ambasciadore del Comune con pieno mandato e ragioni del nostro Comune, richeggendo ragione al re e suo consiglio e di commetterla in giudice non sospetto, a·ccui al re piacesse fuori del reame; non ebbe luogo né intesa ragione per lo re, o suo consiglio, ch’avesse il Comune di Firenze, onde convenne che tutti i Fiorentini, che non fossono suoi istanti borgesi, da calen di maggio inanzi si partissono di tutto il reame, o stessono nascosi in franchigie o in chiese co·lloro grande sconcio, interessi e dannaggio e pericolo, onde il detto re fu molto biasimato da ogni savio e buono uomo di suo reame e di fuori ch’amassono giustizia e ragione, la quale elli fuggiva, come era usato di fare elli e meser Carlo di Valos suo padre; onde al tutto perdé l’amore e·lla fede di tutti i cittadini di Firenze, così di Guelfi come di Ghibellini, ch’amavano suo onore e stato e della casa di Francia. Ma per gli altri suoi più innormi peccati in spergiuri a santa Chiesa e dislealtadi per lui fatti Iddio ne mostrò e fece tosto vendetta, e·ggià cominciata, e come tosto apresso leggendo si potrà trovare.

LVIII D’una grande disensione che·ffu in Firenze dal Comune allo inquisitore de’ paterini.

Nel detto anno e del mese di marzo, essendo inquisitore in Firenze dell’aretica pravità uno frate Piero dall’Aquila de’ frati minori, uomo superbo e pecunioso, essendo fatto per guadagneria proccuratore ed esecutore di meser Piero... cardinale di Spagna per XIIm fiorini d’oro che dovea avere dalla compagnia delli Acciaiuoli fallita, ed essendo per rettori del nostro Comune messo in tenuta e posessione di certi beni della detta compagnia, e alcuno sofficiente mallevadore di loro preso per sodisfazione, fece pigliare a tre messi del Comune cittadini e più famiglia del podestà messer Salvestro Baroncelli compagno della detta compagnia delli Acciaiuoli, uscendo del palagio de’ priori, e co·lloro licenza acompagnato d’alquanti loro famigliari; onde si levò il romore in sulla piazza, e per gli altri famigliari di priori e per quelli del capitano del popolo, che v’abitava di costa, fu riscosso il detto meser Salvestro; e presi i detti messi e famigliari della podestà e a’ messi per comandamento de’ priori, e per l’ardire e prosunzione di fare contro la loro signorevile franchigia e licenzia, di fatto feciono tagliare loro le mani, e confinare fuori di Firenze e contado per X anni. Alla podestà e sua famiglia scusandosi per ignoranza, e vegnendo alla mercé de’ priori, profferendo ogni amenda al loro piacere, dopo molti prieghi furono liberati i suoi famigliari. Per le detta novità lo ’nquisitore isdegnato, e ancora più per paura, se n’andò a Siena, e scomunicò i priori e il capitano, e lasciò interdetta la terra, se infra sei dì no·lli fosse renduto preso, meser Salvestro Baroncelli, alla quale scomunica e interdetto s’apellò al papa, e a corte sì mandaro grande ambasceria. I nomi de’ detti ambasciadori sono questi: messer Francesco Brunelleschi, messere Antonio delli Adimari, messere Bonaccorso de’ Frescobaldi cherico, messer Ugo della Stufa giudice, e Lippo Spini, e ser Baldo Fracassini con sindacato per lo Comune con pieno mandato, e portarvi le ragioni del Comune, e fiorini Vm d’oro contanti per dare di quelli delli Acciaiuoli al cardinale, e di VIIm fiorini d’oro obrigare il sindaco del Comune per li detti Acciaiuoli in pagare in certe paghe annualmente. Ancora portarono per carte tutte quelle baratterie e rivenderie fatte per lo detto inquisitore, che più di VIImD fiorini d’oro in due anni si disse si trovò fatto ricomperare più di nostri cittadini, gli più ingiustamente, sotto titolo di peccato di resia. E non sia intenzione di chi questo processo leggerà per lo tempo a venire, che a’ nostri tempi avesse tanti eretici in Firenze per le tante condannagioni pecuniali ch’avea fatte lo ’nquisitore, che mai non ce n’ebbe meno, ma quasi niuno. Ma per atignere danari, d’ogni piccola parola oziosa ch’alcuno dicesse per niquità contro a·dDio, o dicesse ch’usura non fosse peccato mortale, o simili, condannava in grossa somma di danari, secondo ch’era ricco. Questo s’oppose per lo Comune, onde a corte dinanzi al papa e cardinali in piuvico concestoro il detto inquisitore fu riprovato per li ambasciadori per disleale e barattiere, e sospese alquanto tempo le sue scomuniche e processi d’interdetto. E dal papa e cardinali i detti ambasciadori furono bene ricevuti e onorati alla loro venuta dal papa, con tutto che tra·lloro male fossono d’accordo, e i più di loro intesono a·lloro singularità, che a bene di Comune, onde ne tornarono con poco onore e benificio fatto per lo Comune; e costarono più di IImCC fiorini d’oro.

E ancora per la detta cagione il Comune e popolo di Firenze, per levare le baratterie alli inquisitori, feciono dicreto e legge al modo de’ Perugini e del re di Spagna e di più altri signori e Comuni, che niuno inquisitore si potesse intramettere in altro che nel suo uficio, e nullo cittadino o distrettuale condannare in pecunia, chi·ssi trovasse eretico mandarlo al fuoco. E fulli tolta e disfatta la carcere datali per lo Comune, ove tenea i suoi presi, e cui per lo ’nanzi facesse prendere, gli mettesse nelle carcere del Comune cogli altri. E fu fatto ordine, che podestà né capitano né secutore né altra signoria non dovesse dar loro famiglia, licenza o messo per fare pigliare nullo cittadino a petizione dello ’nquisitore o del vescovo di Firenze o di Fiesole, sanza licenza de’ signori priori, per cessare cagioni di scandali e di riotta, e per cessare le baratterie e rivenderie di dare la licenza di portare l’arme da offendere a più cittadini per lo inquisitore e per li Vescovi, onde la città parea iscomunata, tanti erano quelli che·lla portavano. E ordinaro che·llo ’nquisitore non potesse tenere più di VI famigliari con arme da offendere, né dare a più licenza di portarla; e al vescovo di Firenze a XII famigliari; e a quello di Fiesole VI; che·ssi trovò, secondo si disse, che ’l detto frate Piero inquisitore avea data la licenza di portalla a più di CCL cittadini, onde guadagnava l’anno presso, o forse più, di mille fiorini d’oro; e me’ i vescovi non ne perdieno, e aquistavano amici al loro vantaggio e sconcio della republica. Partiti i detti ambasciadori da corte, il cardinale di Spagna sopradetto, come fellone, non istando contento all’accordo fatto con infestamento del sopradetto inquisitore, ch’era fuggito in corte, coll’aiuto d’alcun altro cardinale, da capo feciono citare al papa, che venissono in corte il vescovo di Firenze e tutti i prelati che non aveano oservato lo ’nterdetto, e’ priori e signorie e collegi ch’erano allora; onde in Firenze n’ebbe grande turbazione contra la Chiesa, e da capo rifeciono sindacato, e mandarono in corte a riparare. Ma·lla maggiore cagione fu perché il papa volea che per lo nostro Comune si levassono certi inniqui capitoli fatti per lo Comune contra i cherici, i quali pur erano sconci e contra ragione, come dicemmo adietro. E volea il papa trattare co’ nostri ambasciadori concordia coll’eletto suo imperadore, la qual cosa non piacque al nostro Comune.

LIX Come il re d’Ungheria seppe la morte del re Andreas, e venne in Ischiavonia con grande esercito per soccorrere Giadra e passare in Puglia.

Come il re d’Ungheria e quello di Pollana seppono la vergognosa morte del re Andreas loro fratello, come adietro facemmo menzione, furono molto tristi e adontati contro la reina sua moglie e contro a’ reali di Puglia loro consorti, parendo loro che fosse stata loro opera e tradigione, e vestirsi tutti a nero con molti di loro baroni, e giurato di fare vendetta. E per più innanimare li Ungari a·cciò fare, feciono fare una bandiera, la qual sempre si mandavano inanzi: il campo nero, e·llo re Andreas impiccato, ch’era una orribile cosa a vedere.

Per fare la detta vendetta si proferse a·lloro il Bavero re d’Alamagna, e il figliuolo marchese di Brandiborgo, e ’l dogio d’Osteric, e più altri signori della Magna con tutto loro podere per lo innormo oltraggio a·lloro fatto, i quali per loro s’accettarono, e giurarono a·cciò fare lega e compagnia. E·llo re d’Ungheria mandò a corte al papa grande ambasciaria del mese di marzo richeggendo di volere esere coronato del reame di Cicilia e di Puglia, ch’a·llui succedea; e che vendetta fosse della morte del re Andreas così in cherici come in laici, dandone colpa al cardinale di Peragorga cognato del duca di Durazzo, che·ll’avea sentito e ordinato. A’ quali ambasciadori non fu dato concestoro piuvico per la detta cagione, e aponendosi per lo papa che ’l re d’Ungheria avea fatta lega e compagnia col dannato Bavero. Onde il re d’Ungheria e tutti gli Alamanni si tennono mal contenti del papa e della Chiesa; ma però non lasciarono di fare sua impresa per passare in Puglia e per soccorrere la sua città di Giadra, come diremo apresso.

Essendo la città di Giadra inn-Ischiavonia ribellata a’ Viniziani, come adietro facemmo menzione, e partito di Schiavonia il re d’Ungheria con suo esercito l’anno passato MCCCXLV, i Viniziani v’andarono incontanente a oste con gran potenza, e asediarla per terra e per mare, menandovi soldati a cavallo e a piede di Lombardia e di Romagna e di Toscana con gran soldo; onde di Firenze v’andarono per ingordigia del detto soldo tre di casa i Bondelmonti con CCC masnadieri, i quali Fiorentini al continovo dalle mura erano rimprocciati da’ Giaratini, che·ssi partissono dal loro asedio, ch’erano amici, e andassono a farsi sconfiggere a Lucca, e servissono i Viniziani che gli avieno traditi alla guerra di meser Mastino. E così vi continovò l’oste dall’agosto MCCCXLV al maggio MCCCXLVI, dando alla terra continue battaglie e asalti, e que’ d’entro al continuo uscendo fuori a badalucchi e scaramucci, e francamente asalendo il campo. Ma que’ di Giadra dubitando che per lungo assedio non mancasse loro la vettuaglia, rimandaro per lo re d’Ungheria; il quale sentendo ciò per messaggi di quelli di Giadra, e per seguire la sua impresa di venire in Puglia, ritornò inn-Ischiavonia con più di XXXm tra Ungheri e Tedeschi, a cavallo la maggiore parte, che bene i XXm erano arcieri, e gli altri buoni cavalieri. Sentendo i Viniziani la sua venuta ringrossaro il loro oste di gente e di navile, e per non aspettare in campo la sua venuta, vollono provare inanzi d’avere la città per forza. A dì XVI di maggio MCCCXLVI ordinaro di dare alla terra una grande battaglia per mare con IIII navi grosse incastellate, e con ponti da gittare in sulle mura, e con XX piatte imborbottate, e con difici, e XL ghianzeruole e XXXII galee armate con molti balestrieri; e per terra con tutto l’esercito dell’oste, i quali furono tra per mare e per terra più di XVIIm d’uomini in arme, tra’ quali avea più di IIIIm balestrieri. La battaglia fu aspra e dura, e continovò dalla mattina alla sera, sanza potere aquistare niente; però che·lla città era forte di torri e di mura e fossi, dall’altra parte il porto forte e·lla marina; e perché quelli di Giadra erano buona gente d’arme si difesono valentemente, e verso la sera, quando i Viniziani si ricoglieno, apersono una porta della terra seguendogli vigorosamente combattendo, e morivvi della gente di Viniziani più di D, e fediti gran quantità. Veggendo i Viniziani che non poteano avere la città per battaglia, e sentendo che ’l re d’Ungheria con suo esercito era presso a Giadra a XXX miglia, e ogni dì s’apressava, i Viniziani si levarono del campo dov’erano di costa, e quasi intorno intorno alla città, e ritrassonsi in su un forte colletto di lunge da Giadra da uno mezzo miglio sopra la marina, e quello come bastita aforzaro con fossi e steccati e torri di legname. Come il re d’Ungheria s’apressò alla terra con suo oste, mandò parte di sua gente d’arme a richiedere i Viniziani di battaglia; non ebbe luogo che la volessono, ma si stavano rinchiusi nella loro bastita con grande paura e sofratta di vittuaglia più dì. Il re d’Ungheria fece fornire Giadra di vettuaglia e di ciò ch’avea mestiero, e alcuno disse v’entrò in persona isconosciuto, per dare a’ Giaratini vigore. I Viniziani co·lloro ambasciadori stavano in continui trattati col detto re, promettendogli di dare loro navile e aiuto a passare in Puglia, ma voleano Giadra a·lloro signoria con uno piccolo censo di dare a·llui di risorto; il quale trattato non piacendo al re, non ebbe luogo. E però che’ Viniziani co·lloro danari corruppono certi di suoi baroni ungari, e consigliaro dislealmente il loro signore che·ssi tornasse in Ungheria, perch’era caro il paese d’Italia quell’anno di vittuaglia a tanto esercito; e in parte era il vero, e non avea ordinato il navilio da potere passare in Puglia, e però si tornò in Ungheria, lasciando fornita Giadra. La bastita di Viniziani si rimase la detta state con grande spendio di Viniziani, rinovandovi spesso gente; e bisognava bene, però ch’erano assaliti sovente da quelli della terra. E per disagi vi si cominciò grande infermeria e mortalità, e morìvi molta gente, intra gli altri i sopradetti nostri tre cittadini de’ Bondelmonti con i più di loro masnade, che non ne tornaro il quarto. Lasceremo di questa matera, e torneremo a dire della lezione del nuovo imperio Carlo figliuolo del re Giovanni di Buem.

LX Come Carlo figliuolo del re di Buem fu eletto re de’ Romani.

L’anno MCCCXLVI, del mese d’aprile, venuto in corte di papa Carlo figliuolo del re di Buem, a sommossa del papa e per suducimento del re di Francia, per procacciare d’essere eletto imperadore per contastare al Bavero, e per avere di lui il re di Francia più stato e favore, però ch’era suo parente, e venneli al re di Francia bene a bisogno, come si troverrà; e avrebbono bene proccurata la detta lezione per lo re Giovanni di Buem suo padre, se non che per sua malattia era quasi perduto della vista degli occhi. Ma il detto Carlo era pro e savio signore, e d’età di... anni. Per cagione della detta lezione grande disensione n’ebbe tra ’l collegio de’ cardinali tra e per la morte del re Andreas e perché gli ambasciadori del re d’Ungheria non erano esauditi dal papa. Ed erano in due sette partiti i cardinali, che dell’una era capo il cardinale fratello del conte di Peragorgo, e questi volea la lezione del detto messer Carlo, e contradiavano il re d’Ungheria, e tenea co’ cardinali franceschi, ed erane capo il favore del re di Francia; dell’altra setta era capo il cardinale fratello del conte di Cominge co’ cardinali guasconi e loro seguaci, che volieno il contrario; e ciascuna era di gran potenza e séguito; e furono a tanto, che in piuvico consistoro dinanzi al papa si dissono onta e villania insieme, rimprocciando quello di Cominge a quello di Peragorga ch’egli era stato quelli ch’avea ordinato e fatto morire il re Andreas chiamando l’uno l’altro traditore di santa Chiesa, levandosi ciascuno da sedere per offendersi insieme; e fatto l’avrebbono, che ciascuno era guernito d’arme da offendere privatamente, se non fossono quelli ch’entrarono in mezzo, onde tutta la corte ne fu scompigliata e in arme, e cortigiani e·lle famiglie de’ cardinali. E ciascuno di detti due cardinali abarraro le loro case e livree, e stettono armati e in guardia buona pezza, se non che ’l papa e gli altri cardinali gli riconciliarono insieme, rimanendo ciascuno con mala voglia. A tale stato venne il collegio dell’apostolica nostra santa Eclesia per le disensioni di suoi cardinali. Di ciò è gran cagione e colpa di papi ch’hanno eletti a cardinali i detti due grandi e possenti Galli e simiglianti, e questo è l’esempro ci danno a·nnoi laici, e seguono bene a contrario l’umiltà di santi apostoli di Cristo, il cui ordine rapresentano. Iddio gli adirizzi nella sua santa via d’umilità, a riposo e stato di santa Chiesa. Per le dette disensioni non lasciò il papa di procedere in prima di fare nuovi processi contro al Bavero e il figliuolo, e chi loro desse aiuto o favore, e privandoli d’ogni titolo d’imperio, con molti altri articoli; e·lla detta sentenzia fece piuvicare in corte, e poi mandare per tutto il Cristianesimo, per potere meglio fornire la sua intenzione. E questo fu ben fatto, ché ’l Bavero era persegutore di santa Chiesa, come adietro ne’ suoi processi facemmo menzione: e poi di far fare col suo favore la lezione dello ’mperio nella persona del detto meser Carlo. E perché l’arcivescovo di Maganza, ch’era l’uno de’ lettori, nogli volea dare la sua boce, sì ’l dispuose il papa, ed elessene un altro a sua petizione, e questo fu della rinforzata. E partito il detto meser Carlo di corte colla benedizione del papa e con sua dispensagione, che nonistante che·lla lezione si dovesse per consueto fare a Midelborgo in Alamagna, e·lla prima corona prendere ad Asia la Cappella colle solennità usate, ch’elli le potesse fare ove a·llui piacesse, perché il Bavero né ’l suo figliuolo colla potenza delli Alamani, che i più o quasi tutti tenieno co·lloro, nol potesse contastare. E giunto lui in suo paese, a dì XI di luglio MCCCXLVI apo... fu eletto il detto Carlo a re de’ Romani per l’arcivescovo di Cologna e per quello di Trievi suoi congiunti per parentado, e per lo nuovo eletto per lo papa arcivescovo di Maganza, e per lo duca di Sansogna, e confermato per lo re di Buem suo padre, e figliuolo che·ffu dello ’mperadore Arrigo di Luzimborgo: falligli la boce del duca di Baviera e quella del figliuolo marchese di Brandiborgo; ma per dispetto della detta elezione, per li più si chiamava lo ’mperadore de’ preti. Lasceremo di questa lezione e di quello ne seguì, e torneremo a dire della guerra di Guascogna e della venuta del re d’Inghilterra in Normandia, ch’assai ne cresce grande e maravigliosa matera.

LXI Di certa rotta che·lla gente del re di Francia ricevettono dalla gente del re d’Inghilterra in Guascogna.

Tornando a raccontare della guerra di Guascogna, essendo messere Gianni figliuolo del re di Francia intorno al castello d’Aguglione, e per lo paese, per contastare il conte d’Ervi e’ suoi Inghilesi, che non scendessono verso Tolosa (il detto meser Gianni era in Guascogna con VIm cavalieri e bene Lm pedoni tra’ Franceschi e di Linguadoco, Genovesi e Lombardi), del detto campo si partì il siniscalco di Giene con DCCC cavalieri e IIIIm pedoni, per prendere uno castello del nipote del cardinale della Motta presso ad Aguglione a XII leghe. Sentendo ciò l’arcidiacono d’Unforte, cui era il detto castello, andò alla Roela, dov’era il conte d’Ervi colla sua oste per gente, per soccorrere il detto castello; onde il conte li diè gente assai a cavallo e arcieri inghilesi a piè, e cavalcaro tutta la notte, e giunsono al detto castello la mattina per tempo, dì XXXI di luglio MCCCXLVI; e trovarono che·lla gente del re di Francia v’era giunta il dì dinanzi, e forte combatteano il castello, la gente del re d’Inghilterra sanza più attendere, subitamente asalirono i Franceschi, dov’ebbe aspra e dura battaglia. Alla fine furono sconfitti i Franceschi, e rimasevi preso il detto siniscalco di Gienne con molti altri gentili uomini; e molti v’ebbe di morti e presi di cavalieri da CCCC, e pedoni IIm tra morti e presi. Tornati al campo quelli di meser Gianni, quelli che scamparo della detta battaglia, messer Gianni ebbe suo consiglio, e diliberaro di combattere il castello d’Aguglione, tra per queste novelle della detta sconfitta e perch’avea novelle che ’l re d’Inghilterra era arrivato in Normandia con gran navilio e esercito di gente d’arme a cavallo e a piè. E il primo dì d’agosto con tutta sua gente fece dare battaglia intorno intorno al castello d’Aguglione dalla mattina alla sera; quelli del castello, che v’avea dentro assai buon gente d’arme gentili uomini da CCCC, e sergenti guasconi e inghilesi da VIIIc, si difesono francamente. E alla ritratta la sera di Franceschi, quelli del castello uscirono fuori vigorosamente faccendo danno assai a’ loro nimici, e uccisonne da DCC, ma più ne fedirono della gente di meser Gianni ch’erano al di fuori, e rimase la terra fornita per VI mesi. Sentendo ciò meser Gianni, e veggendo che per battaglia nol potea prendere, fece ritrarre sua oste adietro; e mandò al papa pregandolo l’asolvesse del saramento ch’avea fatto del non partirsi se non avesse il castello, ed ebbe l’asoluzione dal papa. E diliberò d’andare colla maggiore parte di sua gente in Francia a soccorrere il re suo padre, che·nn’avea grande bisogno, come diremo apresso nel seguente a questo altro capitolo, e fece mettere fuoco nel suo campo, con gran danno di sua gente inferma e di loro arnesi; e lasciate fornite le frontiere, con sua gente ne venne verso Parigi. Partito meser Gianni di Guascogna, il conte d’Ervi prese molte ville e castella. Lasceremo alquanto de’ suoi andamenti, e diremo d’una battaglia che·ffu in que’ dì dal vescovo di Legge a’ suoi cittadini, ritornando poi a racontare la guerra e battaglie dal re di Francia a quello d’Inghilterra e di loro gente, che furono grandi cose e maravigliose, onde assai ne cresce matera.

LXII Come il vescovo di Legge con sua gente furono sconfitti da quelli della città di Legge.

Nel detto anno MCCCXLVI, a dì XXV di luglio, il giorno di santo Iacopo, avendo grande discordia dal vescovo di Legge ch’era... al suo capitolo di calonaci e borgesi di Legge, ciascuna parte fece sua ragunata di gente d’arme. E col vescovo fu della gente di meser Carlo eletto re de’ Romani, e chi disse vi fu in persona, ch’andava con sua gente a Parigi in servigio del re di Francia, che n’avea gran bisogno; e fuvi il sire di Falcamonte e più altri baroni di Valdireno. E con quelli di Legge simigliantemente avea di baroni del paese, e fuvi inn-arme co·lloro la moglie del Bavero e il figliuolo ch’andavano inn-Analdo, che·lle succedea per la morte del conte suo padre. E fuori della città di Legge fu tra·lloro gran battaglia, tutta non fosse campale né ordinata; e·ffu in quella sconfitto il vescovo e sua gente, e morìvi il sire di Falcamonte, e più altri gentili uomini e de’ calonaci, e dell’una parte e dell’altra. Il Vescovo si fuggì con sua gente a Dinante. Lasceremo a dire più di questa guerra, e torneremo a dire come il re d’Inghilterra passò in Normandia sopra il re di Francia, ch’assai ne cresce matera di scrivere.

LXIII Come il re d’Inghilterra passò con sua oste in Normandia, e quello vi fece.

Nel detto anno MCCCXLVI, avendo il re Aduardo ragunato suo navilio di DC navi a l’isoletta d’Uiche inn-Inghilterra, colla sua gente in quantità di IImD cavalieri e da XXXm sergenti e arcieri a piè per passare nel reame di Francia, udita la messa solennemente, e comunicatosi co’ suoi baroni, e a·lloro fatta una bella diceria, com’elli con giusta causa andava sopra il re di Francia che·lli ocupava la Guascogna a torto, e·lla contea di Ponti per la dote della madre, e per frode gli tenea Normandia, come lungamente adietro facemmo menzione al tempo del bisavolo del padre re Ricciardo d’Inghilterra, e del re Filippo il Bornio re di Francia, quando tornaro d’oltremare gli anni Domini intorno MCC; e ancora proponendo a sua gente com’avea nel reame di Francia più ragione per la successione della reina Isabella sua madre figliuola del re Filippo il Bello, che non avea il re Filippo di Valos figliuolo di meser Carlo fratello secondo che·ffu del re Filippo il Bello che·lla possedea, che non era della diritta linea, ma per collaterale; pregando sua gente che fossono franchi uomini, però ch’elli avea intenzione di rimandare adietro il navile, come fosse arrivato nel reame di Francia, sicch’a·lloro bisognava d’esere valorosi e d’aquistare terra colla spada in mano o d’essere tutti morti, che ’l fuggire non avrebbe luogo; pregando chi dubitasse o temesse di passare rimanesse inn Inghilterra colla sua buona grazia; tutti rispuosono a grido a una boce che ’l seguirebbono come loro caro signore di buona voglia fino alla morte. E·llo re veggendo sua gente ben disposti alla guerra, dando sue lettere chiuse alli amiragli delle navi, se caso avenisse che per forza di vento si partissono dallo stuolo, per le qua’ lettere contava dove volea arrivare, e comandò non l’aprissono, se non quando s’apressassono a terra. E così si partì a dì X di luglio; e navicando più giorni, quando adietro e quando inanzi, come gli portava la marea del fiotto, arrivò sano e salvo con tutto suo navile e genti a Biafiore in Normandia a dì XX di luglio. E come la sua gente fu smontata co·lloro armi e cavalli e arnesi e vettuaglia recata co·lloro, rimandò la maggiore parte del navile adietro inn-Inghilterra; ed elli con sua oste cominciò a correre la Normandia, rubando e ardendo e dibruciando chi nol volea ubidire e darli mercato di vittuaglia; e in pochi dì gli s’arendéo la città di Sallu e Gostanza e Gostantino e Balliuolo terre di Normandia, e ricomperarsi da·llui, perché no·lli guastasse. La terra di Camo gli fece risistenza per lo castello che v’era forte del re di Francia, ed eravi venuto il conte di Du, cioè il conestabole di Francia, con gran gente d’arme a cavallo e a piè; la quale terra di Camo combatté più dì; alla fine per forza combattendo, sconfisse il detto conistabile e sua gente alquanto fuori della terra. Avuta la vittoria del detto conestabile e di sua gente, incontanente ebbe e prese la terra di Camo, che non era guari forte salvo il castello. E prese alla battaglia il detto conestabole, e·ll’arcivescovo di Tervana, e ’l camarlingo di Mollu, e più altri cavalieri e baroni in quantità di LXXXVI, e morìvi assai gente in quantità di Vm; e rubata la terra, che bene XLm panni ebbe tra di Camo e dell’altre ville dette, e’ fece mettere fuoco in Camo, perch’avea fatta risistenza, e arsene assai; e’ prigioni ne mandò presi inn-Inghilterra colla preda presa. E così cominciò la fortuna del franco Aduardo d’Inghilterra, e adirizzò sua oste verso Rueme, crescendoli ogni dì gente d’Inghilterra, che tutto dì vi passavano di volontà per guadagnare, e seguendolo molti Normandi, gentili uomini e altri, che non amavano la signoria di Francia, sicché si trovò con IIIIm cavalieri buona gente, e più di Lm sergenti a piè co’ Normandi, che i XXXm erano arcieri inghilesi.

LXIV Come ’l re d’Inghilterra si partì di Normandia e venne presso di Parigi ardendo, e guastando il paese.

Sentendo il re di Francia come il re d’Inghilterra era arrivato in Normandia, e prese le sopradette terre e ’l suo conestabole e di sua gente, incontanente si partì di Parigi con quanta gente potéo raunare a·ccavallo e a piè, per andare a soccorrere Ruem in Normandia che non si rubellasse, sentendo che certi di baroni del paese ribelli del re di Francia ne tenieno trattato col re d’Inghilterra e con quelli della città di Ruem; e posesi a campo il re di Francia al ponte ad Arce sopra il fiume della Senna, e quello fece tagliare, e tutti gli altri ponti ch’erano sopra Senna, acciò che ’l re d’Inghilterra e sua gente non potesse di qua passare; e fornì Ruem di sua gente a·ccavallo e a piede; e lasciò, quando si partì di Parigi, al suo proposto di Parigi che facesse disfare le case ch’erano di fuori e dentro di costa le mura di Parigi, per afforzare la città. Per la qual cosa i cittadini di cui erano le case cominciarono a·llevare romore, onde la terra fu tutta scompigliata e sotto l’arme, e in pericolo di rubellarsi al re, se non fosse che in quelli giorni giunsono in Parigi il re Giovanni di Buem e Carlo suo figliuolo eletto re de’ Romani con D cavalieri rimasi loro della rotta del vescovo di Legge, come dicemmo adietro. Costoro rifrancarono Parigi, e feciono aquetare il romore, e rimanere la detta disfazione delle case per contentare i borgesi di Parigi. Lo re d’Inghilterra ch’era acampato con sua oste di là da Ruem tre leghe; e·llà venuti due cardinali legati del papa, messer Anibaldo da Ceccano e messer Piero di Chiermonte, i quali cardinali mandava il papa per fare accordo tra·llui e·rre di Francia, volendo che·ssi rimettesse nel papa ogni quistione; il re Aduardo d’Inghilterra non fidandosi del papa, no·lli volle udire dell’accordo, e per più riprese si ruppe da’ trattati de’ detti legati, perch’a·llui parea che ’l papa favoreggiasse troppo la parte del re di Francia; anzi furono d’alquante loro cose rubati dall’Inghilesi; ma il re Aduardo gli fece ristituire, e donò loro del suo assai per amenda, e così si tornaro verso Parigi. Lo re Aduardo perduta la speranza d’avere la città di Ruem, ond’era in alcuno trattato, però che v’era giunto al soccorso il re di Francia con grande oste di cavalieri e popolo, si misse a venire verso Parigi di là dal fiume di Senna, ardendo e guastando il paese con molte prede e prigioni, però che ’l paese era molto popolato e ricco. E·lla vilia di nostra Donna d’agosto s’acampò a Pusci e San Germano dell’Aia e·lla sua gente scorse fino presso a Parigi a due leghe, e arsono la villa di Sancro e quella di Luvieri, e più altre ville grandi e piccole, prima rubate, e poi arse, ch’era il più bello paese e il più caro del mondo del tanto, stato più di cinque centinaia d’anni in riposo e tranquillo sanza guerra, onde fu gran dannaggio. O maladetta guerra, quanti malifici fai a disertamento de’ reami e de’ popoli, per punizione de’ peccati delle genti!Lo re di Francia sentendo come lo re d’Inghilterra con sua oste era venuto verso Parigi, si partì dal ponte ad Arce, e vennene costeggiando la riviera di Senna, in mezzo dall’una oste all’altra verso Parigi; e giunto a Parigi, mandò a meser Carlo Grimaldi e Antone Doria di Genova, amiragli delle sue XXXIII galee, ch’erano a Rifrore in Normandia, che disarmassono, e con tutte le ciurme con balestrieri venissono a Parigi, e così feciono; e·llo re di Francia s’acampò fuori di Parigi mezza lega a San Germano di Prati, e·llà fece sua mostra, e trovossi con VIIIm buoni cavalieri e più di LXm di sergenti a piè, che più di VIm v’avea di Genovesi a balestra, tra delle galee e venuti da Genova per terra al soldo del re; intra ’l quale esercito avea, sanza il re di Francia, V re di corona; ciò era il re di Navarra suo cugino, il re di Maiolica, e il re di Buem, e ’l suo figliuolo eletto re de’ Romani, e il re di Scozia; ciò fu Davit figliuolo di Ruberto di Brus rubello del re d’Inghilterra.

LXV Come il re d’Inghilterra si partì di Pusci per andare in Piccardia per accozzarsi co’ Fiaminghi.

Come il re d’Inghilterra seppe la venuta del re di Francia a Parigi, e avendo guaste le ville fra ’l fiume dell’Era e quello di Senna, e fallendo la vivanda all’oste, per non essere sopreso, com’ordinava il re di Francia, sì ordinò e fece fare uno ponte di legname e barche a Pusci in sulla Senna; e bene che fosse contastato dalla gente del re di Francia, ch’erano dall’altra riva, per forza d’arme e di suoi arcieri li sconfisse, e fece il ponte compiere; e levato il campo da Pusci e da San Germano dell’Aia, in quelli fece mettere fuoco, e con sua oste passò il fiume di Senna a dì XVI d’agosto, e venne a Pontosa, e·llà trovò risistenza di gente che v’avea mandata il re di Francia a·ccavallo e a piè, e fornito il castello; onde combatté la terra per due dì; alla fine la vinse per forza, salvo il castello; e quanta gente vi trovò mise a morte, salvo le femmine e’ fanciulli, a’ quali diè licenzia si partissono con ciò che·nne potessono portare, e guastò la terra, salvo i monisteri e·lle chiese. E poi seguì suo cammino per andare ad Albavilla in Ponti per ritrovarsi co’ Fiammighi ch’erano usciti fuori con più di XXXm in arme, ed erano stati a Bettona, e poi presso ad Arazo a IIII leghe guastando il paese, e poi s’erano ridotti a Scrusieri inn-Artese per accozzarsi col re d’Inghilterra, com’era dato l’ordine tra·lloro, che meser Ugo d’Astighe, parente e barone del re d’Inghilterra, venne a dì XVI di luglio in Fiandra con XX navi e DC arcieri, per sollicitare i Fiamminghi a·cciò fare, i quali erano ritornati all’asedio di Bettona, e a quella diedono più battaglie e co·lloro danno di morti e di fediti. Lasciamo a dire alquanto di Fiaminghi, e torneremo a dire degli andamenti del re di Francia, che seguì il re d’Inghilterra.

LXVI Come il re di Francia con sua oste seguì il re d’Inghilterra.

Come il re di Francia seppe la partita del re d’Inghilterra da Pontosa, si partì con sua gente da San Germano di Prati, e andonne a San Donigi per seguire il re d’Inghilterra, per combattere co·llui in campo, acciò che non distruggesse il paese, e inanzi che s’acostasse co’ Fiaminghi suoi ribelli; e lasciò in Parigi alla guardia della terra, e della reina sua moglie e di più figliuoli, i borgesi possenti di Parigi, che con alcuna altra gente d’arme di suo ostiere e famiglia furono MCC uomini a cavallo. E mandò di sua gente inanzi in Piccardia, che togliessono i passi e gli andamenti al re d’Inghilterra e·lla vittuaglia, e tagliassono i ponti alle riviere, e stare sue genti d’arme a guardare i detti passi e riviere; e il re di Francia con suo esercito n’andò ad Albavilla in Ponti, e così fu fatto. Per la qual cosa il re d’Inghilterra fu a gran pericolo con sua oste, e a gran soffratta di vittuaglia, che VIII dì stettono, che non ebbono se non poco pane né punto di vino, e vivettono di carne di loro bestiame, che·nn’avieno assai, e mangiando alcuno frutto e bevendo acqua, ed ebbono grande difetto di calzamento; e non potendo andare ad Albavilla pe’ passi che gli erano tolti, e fatte le tagliate inanzi. Il re d’Inghilterra prese partito d’andare verso Fiandra, ma i Franceschi e’ Piccardi gli furono apetto alla riviera di Somma, ch’elli avea a passare. Ma per sollicitudine cercò un altro passo in un altro luogo, dove la riviera facea un gran marese che fiottava, ma avea sodo fondo, che·lli fu insegnato, dove mai non era veduto passare cavallo; e·llà, ritratto il fiotto, passò in una notte con tutta sua gente salvamente, lasciando parte delle sue tende e fuochi accesi ov’era stato acampato, per mostrare la notte a’ nimici ch’ancora vi fosse a campo. E come fu passato, la mattina per tempo andò asalire parte di suoi nimici che·ll’avieno contastato il passo, che v’erano assai presso accampati, e non si prendeano guardia, credendo non avessono potuto passare la riviera di Somma, e missegli inn-isconfitta, onde furono tutti morti e presi; che furono tra a·ccavallo e a piè parecchi migliaia. Apresso seguiro loro cammino affamati con grandi disagi, e andarono il venerdì XXV d’agosto tra ’l dì e·lla notte bene XII leghe piccarde, sanza riposare, con grande affanno e fame, e arrivarono presso Amiensa a VI leghe a uno luogo e borgo di costa a uno bosco che·ssi chiama Crescì. E avendo a passare una piccola riviera, ma era profonda, convenne passassono uno o a due insieme, tanto ch’uscissono del passo, che non aveano contasto: e sentendo che ’l re di Francia gli seguitava, sì s’acamparono in quello luogo fuori della villa di Crescì in su uno colletto tra Crescì e Albavilla in Ponti; e per afforzarsi, sentendosi troppo men gente che’ Franceschi, e per loro sicurtà, chiusono l’oste di carri, che·nn’aveano assai di loro e del paese, e·llasciarvi una entrata, con intenzione, e non potendo schifare la battaglia, disposti di combattere e di volere anzi morire in battaglia che morire di fame, che·lla fuga non avea luogo. E ordinò il re d’Inghilterra i suoi arcieri, che·nn’avea gran quantità su per le carra, e tali di sotto e con bombarde che saettavano pallottole di ferro con fuoco, per impaurire e disertare i cavalli di Franceschi. E della sua cavalleria il dì apresso fece dentro al carrino III schiere; della prima fu capitano il figliuolo del re della seconda il conte di Rondello, della terza il re d’Inghilterra; e chi era a·ccavallo isciese a piè co’ cavalli a destro per prendere lena e confortarsi di mangiare e di bere.

LXVII D’una grande e sventurata sconfitta ch’ebbe il re Filippo di Francia con sua gente dal re Adoardo il terzo re d’Inghilterra a Crescì in Piccardia.

Lo re Filippo di Valos re di Francia, il quale con suo esercito seguia il re Aduardo d’Inghilterra e sua gente, sentendo come s’era acampato presso di Crescì e aspettava la battaglia, si andò in verso lui francamente credendolo avere sopreso, come straccato e vinto per lo disagio e fame soferta in cammino. E sentendosi di tre tanti di buona gente d’arme a cavallo, però che ’l re di Francia avea bene da XIIm cavalieri, e sergenti a piè quasi innumerabili, ove il re d’Inghilterra non avea IIIIm cavalieri, e da XXXm arcieri inghilesi e gualesi, e alquanti con acce gualesi e lance corte; e venuto presso al campo dell’Inghilesi quanto un corso di cavallo potesse trarre, uno sabato dopo nona, a dì XXVI d’agosto, anni MCCCXLVI, il re di Francia fece fare alla sua gente III schiere a·lloro guisa, dette battaglie; nella prima avea bene VIm balestrieri genovesi e altri italiani, la quale guidava meser Carlo Grimaldi e Anton Doria, e co’ detti balestrieri era il re Giovanni di Buem, e meser Carlo suo figliuolo eletto re de’ Romani, con più altri baroni e cavalieri in quantità di IIIm a·ccavallo. L’altra battaglia guidava Carlo conte di Lanzone fratello del re di Francia con più conti e baroni in quantità di IIIIm cavalieri e sergenti a piè assai. La terza battaglia guidava il re di Francia, in sua compagnia gli altri re nomati e conti e baroni, con tutto il rimanente del suo esercito, ch’erano innumerabile gente a·ccavallo e a piè. Inanzi che·lla battaglia si cominciasse, aparvono sopra le dette osti due grandi corbi gridando e gracchiando; e poi piovve una piccola acqua; e ristata, si cominciò la battaglia. La prima schiera co’ balestrieri genovesi si strinsono al carrino del re d’Inghilterra e cominciaro a saettare co·lloro verrettoni; ma furono ben tosto rimbeccati, che ’n su carri e sotto i carri alla coverta di sargane e di drappi che·lli guarentieno da’ quadrelli, e nelle battaglie del re d’Inghilterra, ch’erano dentro al carrino nelle battaglie ordinate e schiere di cavalieri, avea XXXm arcieri, come detto è, tra Inghilesi e Gualesi, che quando i Genovesi saettavano uno quadrello di balestro, quelli saettavano III saette co·lloro archi, che parea inn aria uno nuvolo, e non cadieno invano sanza fedire genti e cavalli, sanza i colpi delle bombarde, che facieno sì grande timolto e romore, che parea che Iddio tonasse, con grande uccisione di gente e sfondamento di cavalli. Ma quello che peggio fece all’oste de’ Franceschi sì fu, che essendo il luogo stretto da combattere quant’era l’aperta del carrino del re d’Inghilterra, e percotendo e pignendo la seconda battaglia del conte di Lanzone, strinsono sì i balestrieri genovesi a’ carri, che non si potieno reggere né saettare co’ loro balestri, essendo al continuo al di sopra da quelli ch’erano in sulle carrette fediti di saette degli arcieri e dalle bombarde, onde molti ne furono fediti e morti. Per la qual cagione i detti balestrieri non potendo sostenere, essendo affoltati e ristretti al carrino da’ loro cavalieri medesimi per modo che si misono in volta, i cavalieri franceschi e·lloro sergenti veggendoli fuggire, credettono gli avessono traditi; ellino medesimi gli uccidieno, che pochi ne scamparo. Veggendo Aduardo quarto figliuolo del re d’Inghilterra prenze di Gales che guidava la prima battaglia de’ suoi cavalieri, ch’erano da M, e da VIm arcieri gualesi, mettere in volta la prima schiera di balestrieri del re di Francia, montarono a·ccavallo e uscirono del carrino, e assalirono la cavalleria del re di Francia, ov’era il re di Buem e ’l figliuolo colla prima schiera, e il conte di Lanzone fratello del re di Francia, il conte di Fiandra, il conte di Brois, il conte d’Iricorte, messer Gianni d’Analdo e più altri conti e gran signori. Quivi fu la battaglia aspra e dura, però che apresso lui il seguì la seconda battaglia del re d’Inghilterra, la quale guidava il conte di Rondello, e al tutto misono in volta la prima e seconda battaglia di Franceschi, e massimamente per la fuggita de’ Genovesi. E in quello stormo rimasero morti il re di Buem e ’l conte di Lanzone, con più conti e baroni e cavalieri e sergenti molti. E·llo re di Francia veggendo volgere la sua gente, colla sua terza battaglia e con tutto il rimanente di sua gente percosse alle schiere dell’Inghilesi, e di sua persona fece maraviglie in arme, tanto fece ritrarre gl’Inghilesi al carrino; e sarebbono stati rotti, se non fosse il ritegno del re Aduardo colla sua terza battaglia, ch’uscì fuori del carrino per un’altra aperta che fece fare al suo carreggio per uscire adosso a’ nimici al di dietro, e per essere al socorso di suoi, francamente asalendo i nimici, feggendo per costa, e co’ suoi Gualesi e Inghilesi a piè coll’arcora e lance gualesi, e solo intendeano a sventrare i cavalli. Ma quello che più confuse i Franceschi fu che per la moltitudine della loro gente, ch’era tanta a·ccavallo e a piè, e non intendieno se non a pignere e a urtare co·lloro cavalli, credendo rompere gl’Inghilesi, ch’ellino medesimi s’afollarono l’uno sopra l’altro al modo che divenne loro a Coltrai co’ Fiaminghi, e spezialmente gl’impediro i Genovesi morti, che·nn’era coperta la terra della prima rotta battaglia, e’ cavalli afollati morti e caduti, che tutto il campo n’era coperto, e fediti delle bombarde e saette, che non v’ebbe cavallo di Franceschi, che non fosse fedito, e innumerabili morti. La dolorosa battaglia durò da anzi vespro a due ore infra·lla notte. Alla fine non potendo più durare i Franceschi si misero in fugga, e il re di Francia si fuggì la notte ad Amiensa fedito, coll’arcivescovo di Rens, e col vescovo d’Amiensa, e col conte d’Alzurro, e col figliuolo del cancelliere di Francia con da LX a cavallo sotto il pennone del Dalfino di Vienna; però che tutte le sue bandiere e insegne reali erano rimase al campo abattute. E fuggendo le brigate la notte a·ccavallo e a piè, da’ paesani di loro parte medesima erano rubati e morti; e per questo modo ne perirono assai sanz’altra caccia. La domenica mattina seguente, essendo della gente del re di Francia fuggiti la notte, e ridottisi ivi presso ov’era stata la battaglia in su uno poggetto presso al bosco in quantità di VIIIm a cavallo e a piè, intra gli altri v’era meser Carlo eletto imperadore scampato della prima rotta, e ivi afrontatisi, non sapiendo ove fuggire, il re d’Inghilterra vi mandò il conte di Vervich e quello di Norentona con gente a cavallo e a piè assai, e assalendo quelli, come gente sconfitta, poco ressono, e fuggendo, molti ne furono presi e morti, e ’l detto meser Carlo con tre fedite si fuggì alla badia da Riscampo, ov’erano i cardinali. E·lla domenica mattina medesima giunse il duca dello Renno nipote del re di Francia in sul campo, che venia suo aiuto con IIIm cavalieri e IIIIm pedoni di suo paese, essendo ignorante della battaglia e sconfitta della notte, chi·ss’avesse vinto; veggendo quella gente de·rre di Francia che detto avemo, che per paura tenieno schierati al poggetto, si diè e percosse tra l’Inghilesi; ma tosto fu rotto, e rimasevi morto con da C de’ suoi cavalieri, ma·lla maggiore parte di quelli da piè rimasero morti, e·lli altri si fuggirono. Nella detta dolorosa e sventurata battaglia per lo re di Francia si disse per li più che scrissono che vi furono presenti, quasi inn-accordo, che bene XXm uomini tra piè e a·ccavallo vi rimasono morti, e cavalli innumerabile quantità, e più di MDC tra conti e baroni e banderesi e cavalieri di paraggio, sanza gli scudieri a·ccavallo, che furono più di IIIIm, e presi altrettanti, e tutti i fuggiti fediti quasi di saette. Intra gli altri notabili signori vi rimasero morti il re Giovanni di Buem con V conti d’Alamagna ch’erano in sua compagnia, e quello di Maiolica, il conte di Lanzone fratello del re di Francia, il conte di Fiandra, il conte di Brois, il duca dello Renno, il conte di Sansurro, il conte d’Allicorte, il conte d’Albamala e ’l figliuolo, il conte di Salemmi d’Alamagna ch’era col re di Buem, messer Carlo Grimaldi e Anton Doria di Genova, e molti altri signori, che non si sa per noi i nomi di tutti. Il re Aduardo rimase in sul campo due dì, e fecevi cantare solennemente la messa del santo Spirito, ringraziando Iddio della sua vittoria, e quella di morti, e consagrare il luogo, e dare sepoltura a’ morti, così a’ nimici come agli amici, e’ fediti trarre tra’ morti e farli medicare, la minuta gente e fece dar loro danari, e mandolli via. I signori morti ritrovati fece più nobilmente sopellire ivi presso a una badia, e tra gli altri molto grande onore ed esequio fece al re di Buem, siccome a corpo di re, e per suo amore piagnendosi di sua morte elli con più suoi baroni si vestì a·nnero, e rimandò il suo corpo molto onorevolmente a mesere Carlo suo figliuolo ch’era alla badia da Riscampo, e di là lo ne portò il figliuolo a Luzimborgo. E·cciò fatto, il detto re Aduardo colla sua bene aventurosa vittoria, che poca di sua gente vi morì a comparazione di Franceschi, si partì da Crescì il terzo dì, e andonne a Mosteruolo. O santus santus santus dominus deus Sabaot, cioè i·llatino, santo di santi, nostro signore, Iddio dell’oste; quant’è la potenza tua in cielo e in terra, e spezialmente nelle battaglie! Che talora e bene sovente fa che·lle meno genti e potenza vincono gli grandi eserciti, per mostrare la sua potenzia, e abattere le superbie e orgogli, e pulire le peccata de’ re e de’ signori e de’ popoli. E in questa sconfitta bene si mostrò la sua potenzia, che’ Franceschi erano tre cotanti che·ll’Inghilesi. Ma non fu sanza giusta cagione, e non avenne questo pericolo al re di Francia, che intra gli altri peccati, lasciamo stare il torto fatto al re d’Inghilterra e altri suoi baroni d’occupare il loro retaggio e signorie, ma più di X anni dinanzi a papa Giovanni giurato e presa la croce, promettendo infra due anni andare oltremare a raquistare la Terrasanta, e prese le decime e susidii di tutto suo reame, faccendone guerra contro i signori cristiani ingiustamente; per la cui cagione moriro e furono schiavi di Saracini d’oltramare Ermini e altri Cm Cristiani, che per la sua speranza avieno cominciata guerra a’ Saracini di Soria: e questo basti a tanto.

LXVIII Quello che ’l re d’Inghilterra con sua oste fece dopo la detta vittoria.

Partito il re Aduardo del campo da Crescì, ove avea avuta la detta vittoria, se n’andò con sua oste a Mosteruolo, credendolsi avere, ch’era della contea e dota della madre. La terra era ben guernita per lo re di Francia e di molti Franceschi rifuggiti dalla sconfitta; sì·ssi difese, e no·lla poté avere: guastolla intorno, e poi n’andò a Bologna sor la mere, e fece il somigliante. Poi ne venne a Guizzante, e perché nonn-era murato, il rubò tutto, e poi vi missero fuoco, e tutta la villa guastaro. E poi ne vennero a Calese, e quello era murato e aforzato, e diedonvi più battaglie. E non potendolo avere, vi si puose ad assedio per terra e per mare, e fecevi una bastita di fuori com’una buona terra aforzata e aconcia da vernarvi, e ivi con sua oste istette all’assedio lungamente, come inanzi faremo menzione; e in ciò misse ogni suo podere per aquistarlo, per avere porto forte e ridotto di qua da mare in su·rreame di Francia. E in questa stanza venne al re d’Inghilterra la madre e·lla moglie con due sue sirocchie e·lla figliuola, e poi il conte d’Ervi con molto navilio e gente d’arme e rinfrescamento di vittuaglia ed ogni guernimento da oste. In questa stanza i due legati cardinali con altri baroni di Francia e d’Inghilterra furo più volte presso di Calese a parlamentare di pace; non vi poté avere accordo. Ancora stando il re d’Inghilterra al detto assedio di Calese, avendo d’accordo promessa la figliuola per moglie al giovane conte di Fiandra, e doveasi allegare co·llui; ma per sodducimento e trattato del re di Francia e per onta rimprocciatali, che ’l padre era stato morto essendo col re di Francia alla battaglia di Crescì, come adietro facemmo menzione, sì·ssi partì dal re d’Inghilterra di nascoso, e vennesene al re di Francia, e tolse per moglie la figliuola del duca di Brabante; e ’l detto duca si partì dalla lega del re d’Inghilterra e allegossi col re di Francia e imparentossi co·llui: e diede il duca al suo maggiore figliuolo la figliuola di meser Gianni figliuolo del re di Francia, e all’altro figliuolo la figliuola del duca di Borbona della casa di Francia; e ’l detto duca di Brabante data per moglie la seconda figliuola al duca di Ghelleri nipote del re d’Inghilterra figliuolo della sirocchia, avendo prima tolta e sposata la figliuola del marchese di Giullieri. Tutte queste rivolture e leghe fece fare il re di Francia contro al re d’Inghilterra per danari, onde il duca di Brabante fu molto ripreso; ma però il re d’Inghilterra non lasciò sua impresa e asedio di Calese. E meser Gianni figliuolo del re di Francia, col duca d’Atene e con altri baroni e grande cavalleria e sergenti a piè in grande quantità, stavano in Bologna sor la mere e d’intorno a fare al continuo guerra guerriata al re d’Inghilterra e a·ssua oste, e per mare con galee e altro navile, per fornire Calese; ove ebbe più assalti e badalucchi e scontrazzi, quando a danno dell’una parte e quando dell’altra, che lungamente sarebbe a racontare. E dall’altra parte il re di Francia fece un’altra oste; e fece porre l’assedio a Casella in Fiandra, acciò che’ Fiamminghi non potessono venire in aiuto e accozzarsi a Calese col re d’Inghilterra, onde i Fiaminghi per comune, fatto con ordine del re d’Inghilterra loro capitano e guidatore il marchese di Giulieri, vennero verso Casella per combattersi co’ Franceschi, i quali rifusaro la battaglia, e partirsi dall’asedio di Casella, e andarsene a Santo Mieri. Lasceremo alquanto de’ processi della detta guerra de’ due re insino ch’arà altra riuscita, e diremo di nostri fatti di Firenze e d’altre novità che furono ne’ detti tempi.

LXIX Come Luigi il giovane, che tiene la Cicilia, riebbe Melazzo, e trattò di fare parentado e lega col re d’Ungheria.

A dì V d’agosto, l’anno MCCCXLVI, Luigi il giovane, figliuolo che fu di don Piero figliuolo di don Federigo, che possiede l’isola di Cicilia, sentendosi per lo suo balio e zio don Guiglielmo, valente uomo d’arme, e per li Ciciliani, la discordia ch’era nel regno di Puglia rede del re Carlo e Ruberto, per la morte del giovane re Andreas, onde adietro è fatta menzione, si puosono assedio alla terra di Melazzo in Cicilia, che·ssi tenea per li detti reali, per mare e per terra, e stettonvi più tempo all’assedio, però che·ll’era molto forte e bene guernita di gente e di vittuaglia. Ma i capitani che v’erano alla guardia, per le dette discordie de’ reali del Regno non poteno avere le loro paghe per loro e per la gente v’avieno alla guardia, e veggendo non poteno avere né soccorso né rinfrescamento del Regno, cercaro loro concordia co’ Ciciliani, e per danari che n’ebbono rendero la terra detto dì. E nel detto mese essendo venuti in Cicilia ambasciadori del re d’Ungheria per contrario de’ detti reali del Regno per trattare lega e compagnia col detto Luigi il giovane che tenea la Cicilia, e adomandaro XXX galee al soldo del detto re d’Ungheria al suo passaggio nel Regno. Guiglielmo zio del detto giovane Luigi, che·ssi facea chiamare duca d’Atene, ed era balìo del detto Luigi, e governatore dell’isola di Cicilia, si trattarono e ragionarono di fare parentado che il detto Luigi, torrebbe per moglie la sirocchia del detto re d’Ungheria, e promise di darli aiuto, quando volesse passare nel Regno, di XL galee armate al soldo del detto Luigi; e mandò in Ungheria suoi ambasciadori in su una galea armata per confermare la detta lega e matrimonio. Ma venuti in Ungheria gli ambasciadori di quello di Cicilia, dimandavano di rimanere libero re di Cicilia, e dimandavano Reggio in Calavra e altre terre che vi tenea l’avolo suo don Federigo; la qual domanda il re d’Ungheria non accettò, ma sarebbe condisceso a lasciarli l’isola, rispondendogli certo censo, e rimanendo a quello d’Ungheria il risorto e·ll’apello come sovrano, e il titolo del reame. A·cciò non s’accordarono quelli di Cicilia, e rimase il trattato, e poi il tennero co’ reali di Puglia. Il fine a·cche ne vennero si dirà inanzi a tempo e luogo, quando saremo sopra la detta matera.

LXX Come certe galee di Genova passaro nel mare Maggiore, e presono Sinopia e·ll’isola del Silo.

Nel detto anno e tempo si partirono di Genova XL galee armate e andarono in Romania per fare vendetta del cerabi signore di Turchi del mare Maggiore, per lo tradimento e danno ch’elli avea fatto a’ Genovesi, come in alcuna parte adietro facemmo menzione; e presono la terra di Sinopia, e quella rubaro e guastaro, e corsono il paese, e recarne molta roba e mercatantia di Turchi; e ’l simile feciono all’isola del Silo in Arcipelago di Romania, e quella presono e sonne signori, e tolsolla a’ Greci, ove nasce la mastica, la quale è di grande frutto e rendita. Lasceremo a dire delle novità delli strani, e torneremo a dire di nostri fatti di Firenze e d’altre parti d’Italia.

LXXI Di certe novità che furono in questi tempi nel Regno.

Nel detto anno, a dì VIII d’ottobre, passò per Firenze il cardinale d’Onbruno legato del papa, ch’andava nel Regno per recarsi in sua guardia per la Chiesa il detto Regno, per le discordie de’ reali per la morte del re Andreas; da’ Fiorentini gli fu fatto grande onore. Andato lui nel Regno, male vi fu veduto da quelli reali e per la reina, e peggio vi fu ubidito, e ’l paese tutto scommosso quasi in rubellione; e rubellossi l’Aquila per uno ser Ralli cittadino di quella col suo séguito, e coll’aiuto e favore di meser Ugolino de’ Trinci signore di Fuligno, e più altre terre d’Abruzzi a petizione del re d’Ungheria, e ’l paese tutto corrotto a rubare i Comuni, e chi più potea. Il legato colla reina feciono più signori per giustizieri, ma poco furono ubiditi e temuti. Il legato veggendo così corrotto il paese, se n’andò a dimorare a Benevento, e poco era tenuto a capitale.

LXXII Di certi ordini si feciono in Firenze, che niuno forestiere non potesse avere ufici di Comune, e come si compié il ponte a Santa Trinita.

Nel detto anno, a dì XVIIII d’ottobre, si fece ordine e dicreto in Firenze che nullo forestiere fatto cittadino, il quale il padre e·ll’avolo ed elli non fossono nati in Firenze o nel contado, non potesse essere uficiale o avere alcuno uficio, nonistante che fosse eletto o insaccato, sotto certa grande pena. E questo si fece per molti artefici minuti veniticci delle terre d’intorno, sotto titolo di reggenti delle XXI capitudini dell’arti; erano insaccati priori e altri assai ufici. Ed era il loro un gran fastidio, che con maggiore audacia e prosunzione usavano il loro maestrato e signoria, che non facieno gli antichi originali cittadini. Ben fu questa motiva opera di capitani di parte guelfa e di loro consiglio, che parea loro vi si mischiassono di Ghibellini, e per afiebolire il reggimento delle XXI capitudini dell’arti che reggevano la città; e fu quasi uno cominciamento di rivolgimento di stato per le sequele che ne seguirono apresso, come inanzi ne faremo menzione. Nel detto anno, a dì IIII d’ottobre, si serrò l’arco di mezzo del ponte da Santa Trinita con III pile e archi; molto bene fondato e ricco lavorio, e costò da XXm fiorini d’oro, e fecevisi in su una pila una bella cappella di San Michele Agnolo.

LXXIII D’uno grande caro che fu in Firenze e d’intorno e in più parti.

Nel detto anno MCCCXLVI, cominciandosi la cagione d’ottobre e di novembre MCCCXLV, al tempo della sementa furono soperchie piove, sicché corruppono la sementa, e poi l’aprile e ’l maggio e giugno vegnente MCCCXLVI non finò di piovere, e talora tempeste, onde per simile modo si perdé la sementa delle biade, e·lle seminate si guastarono; e·cciò avenne quasi in più parti di Toscana e d’Italia, e in Proenza, e Borgogna, e Francia (onde nacque grande fame e caro ne’ detti paesi), ed a Genova, e a Vignone in Proenza, ov’era il papa colla corte di Roma. E·cciò avenne, secondo dissono gli astrolagi e maestri in natura, per la congiunzione passata di Saturno e di Giove e di Marti nel segno dell’Aquario, come adietro è per noi fatta menzione. Onde avenne che già sono più di cento anni passati non fu sì pessima ricolta in questo paese di grano e biada, di vino e d’olio e di tutte cose, come fu in questo anno. E ’l vino valse di vendemmia il comunale da fiorini VI in VIII il cogno, e quasi non rimasono colombi e polli per difetto d’esca, e valea il paio di capponi fiorini uno d’oro e libre IIII, e non se ne trovavano; e’ pollastri per Pasqua soldi XII il paio, e’ pippioni soldi X, e·ll’uovo danari IIII o V danari, e non se ne trovavano; e·ll’olio montò in libre VIII l’orcio. Per difetto di ciò la carne di castrone e di bue grosso e di porco montò in danari XX in soldi II la libra, e quella della vitella in soldi II e mezzo in soldi III la libra, e fu gran caro di frutte e di camangiare; e tutto ciò fu per la cagione sopradetta. Per la qual cosa, avegna che per li tempi passati alcuni anni fosse caro, pure si trovava della vittuaglia in alcuna contrada; ma questo anno quasi non se ne trovava, imperciò che·lle terre non rispuosono al quarto, né tali al sesto del dovuto e usato tempo. E valse di ricolta lo staio del grano presso a soldi XXX, montando ogni dì; e inanzi che fosse l’altra ricolta, o calen di maggio MCCCXLVII, montò a fiorino uno d’oro lo staio; e·llo staio dell’orzo e delle fave in soldi L lo staio, e·ll’altre biade all’avenante; ella crusca in soldi XI lo staio e più, che non se ne trovava per danaio; e sarebbe il popolo morto di fame, se non fosse la larga e buona provedenza fatta per lo Comune, come diremo apresso. E·ffu sì grande la nicissità, che·lle più delle famiglie di contadini abandonarono i poderi, e rubavano per la fame l’uno all’altro ciò che trovavano, e molti ne vennero mendicando in Firenze, e così di forestieri d’intorno, ch’era una piatà a vedere e udire, e non si poteno lavorare le terre né seminare; se non che coloro cui erano, se n’avieno il podere, convenia che pascesse quelli che·lle lavoravano, e fornire di seme, e quello con grande necessità e costo. E con tutto che·ll’anno MCCCXXVIIII e del MCCCXL fosse gran caro, come adietro in que’ tempi facemmo menzione, ma pure del grano e della biada si trovava in città e in contado; ma in questo anno non si trovava né grano né biada, ispezialmente in contado a più di lavoratori e contadini. Il Comune si provide e comperòne e fece mercati, con caparra di moneta con certi mercatanti genovesi e fiorentini e altri, di XLm moggia di grano di Pelago, di Cicilia, di Sardigna, e da Tunisi, e di Barberia, e di Calavra, e di IIIIm moggia d’orzo, ma non ci se ne potéo conducere per la via di Pisa in tutto che moggia XXIIm di grano, e moggia MDCC d’orzo, il quale venne costato, posto in Firenze, fiorini XI d’oro il moggio del grano, e fiorini VII il moggio dell’orzo. Ma perché non avemmo tutto quello che per lo nostro Comune fu comperato, sì fu la cagione però che i Pisani n’avieno bisogno grande di grano, e simile i Genovesi, che per forza si prendeno il grano della nostra compera giunto in Porto Pisano, tanto che si fornivano inanzi a·nnoi; e questo ci diede grande difetto, e più volte grande stretta e paura, e non ce ne potavamo atare. Di Romagna e di Maremma ne fece venire il Comune quello si potéo avere di grazia da quelli signori e Comuni, al di dietro intorno di moggia IImCC, e costò caro, da fiorini XX d’oro il moggio, ond’ebbe tra d’interesso colla spesa il Comune più di XXXm fiorini d’oro. Bene si trovò che certi ch’erano camarlinghi de’ detti uficiali aveano frodato il Comune falsare per la misura e ’l peso del pane, e mischiare il grano col loglio e altre biade, onde trassono di guadagno grossa quantità, i quali furono presi e condannati in fiorini Xm d’oro a ristituzione del Comune. E nota che tutto questo è infama grande di mali cittadini e di coloro che·lli chiamano agli ufici, se colpa v’ebbono, come si disse, e confessaro per tormento. Ed era rimaso al Comune della provisione dell’anno passato da moggia MDCC di grano; sicché in tutto fu il soccorso e fornimento del Comune da XXVImD di moggia di grano e da MDCC moggia d’orzo. Al cominciamento gli uficiali del Comune faceano mettere per dì in piazza moggia LX in LXXX di grano a soldi XL lo staio; e poi montando il grano a soldi L e·ll’orzo a soldi XL lo staio; ma tutto questo non fornia per li molti contadini ch’erano ritratti nella città sanza gli altri cittadini bisognosi. Feciono gli uficiali del Comune fare in su i casolari de’ Tedaldini di porta San Piero, ch’è uno grande compreso, X forni con palchi e chiuso a porte per lo Comune, ove per uomini e femmine di dì e di notte si facea pane della farina del grano del Comune sanza aburattare o trarne crusca, ch’era molto grosso e crudele a vedere e a mangiare, di peso d’once VI l’uno, che se ne facea per istaio da VIIII serque, e cocevasene il dì da LXXXV in C moggia; e poi si stribuiva la mattina a cenno della campana grossa de’ priori a più chiese e canove per tutta la città, e di fuori dalle mastre porte per li contadini d’intorno presso alla città del piviere San Giovanni, e d’altri pivieri che venieno alle porti per esso, e davanne per bocca II pani per danari IIII l’uno. E soprabondò tanta gente, e che·nne volieno più che due pani per bocca, che per la calca gli uficiali non potieno cospicere; sì ordinaro di dare il pane alle famiglie per iscritte e polizze, II pani per bocca. E trovossi in mezzo aprile nel MCCCXLVII che da LXXXXIIIIm bocche erano, che n’avieno a dispensare per dì; e di questo sapemmo il vero dal mastro uficiale della piazza, che ricevea le scritte e polizze. Omai potete avisare, chi·ssa albitrare come innumerabile popolo era ritratto per la carestia in Firenze a pascersi; e nel detto numero non erano i cittadini e loro famiglie ch’erano forniti per loro vivere, e non volieno pane di Comune, o comperavano del migliore pane alle piazze o a’ fornai danari VIII il pane, e tale X in XII il meglio, ché ciascuno potea fare e vendere pane sanza ordine o di peso o di pregio, e non contando i religiosi mendicanti né i poveri che viveano di limosine, ch’erano sanza numero, che di tutte le terre circustanti erano per lo caro ch’aveno acommiatati e ridotti in Firenze, ond’era una continua battaglia quella di poveri e di dì e di notte a’ cittadini. E con tutto il bisogno e·lla grande nicissità del Comune e di cittadini, non si acommiatò povero niuno, né forestiere o contadino che fossero, ma al continuo pasciuti di limosine al convenevole, considerando il disordinato caro e fame; e per più ricchi e buoni e piatosi cittadini si feciono di belle e di larghe limosine, onde dovemo sperare in Dio, che non guarderà alli soperchi peccati de’ cittadini, ché, come avemo detto adietro, la città nostra n’è bene fornita; ma per le limosine e pe’ buoni e cari cittadini Iddio compenserà, se fia suo piacere la misericordia, come fece a quelli di Ninive, «però che·lla limosina spegne il peccato»; dixit Domino. Avenne come piacque a·dDio, per la festa di san Giovanni Battista MCCCXLVII, sforzandosi delle primaticce ricolte, subitamente calò il grano novello di soldi XL in XXII, e ’l vecchio del Comune in soldi XX lo staio; e·ll’orzo in soldi XI in X. Per questo sùbito calare del grano i fornai e chi facea pane a vendere innarravano il grano a gara, e subitamente il feciono rimontare in presso a soldi XXX lo staio, e feciono postura di non far pane a vendere se non con certo loro ordine, per sostenere il caro. Per la qual cosa il popolo si commosse contro a·lloro, e fu quasi la città per correre a romore e ad arme, se non che per li savi rettori s’aquetò il romore, e uno, che·nne fu cominciatore, ne fu impiccato; e ’l grano tornò al suo stato di soldi XXII lo staio. E poi in piena ricolta del mese d’agosto e di settembre si riposò da soldi XVII in XX, bene che poi rimontò per lo caro stato; che·ffu una grande consolazione al popolo per la fame passata. Ma bene lasciò, com’è usato, ancora alquanta carestia e per conseguente infermità e mortalità, come per lo ’nanzi si troverrà leggendo. Lasceremo di questa passione della carestia e fame, e diremo d’altre cose che furono in questi tempi.

LXXIV Come messer Luchino Visconti signore di Melano ebbe la città di Parma.

Tegnendo la città di Parma i marchesi da Esti da Ferrara, che·ll’avieno comperata da meser Ghiberto da Coreggia, come in alcuno capitolo adietro facemmo menzione, messer Luchino signore di Melano al continovo la guerreggiava colle sue forze e coll’aiuto di quelli da Gonzago signori di Mantova e di Reggio, e per dispetto e contradio di meser Mastino ch’era i·llega co’ detti marchesi, e quasi per lui la tenieno; essendo circundata di qua della città di Reggio, e di là da Mantova e da Piagenza e dalle terre di meser Luchino, e male poteno avere aiuto né soccorso da meser Mastino e da altri loro amici e da Ferrara sanza grande pericolo; si cercaro loro accordo con meser Luchino, al quale si diede compimento all’uscita del mese di settembre MCCCXLVI, che·ssi feciono compari di meser Luchino d’un suo figliuolo, e renderli Parma, ed ebbono da·llui LXm fiorini d’oro; e riebbono per patti il loro castello di San Filice e’ loro prigioni che tenieno quelli da Gonzago, e con grande festa n’andarono con meser Luchino a Milano affare il suo figliuolo cristiano, e fermarono lega e compagnia insieme. E nota s’elli ha tra’ Cristiani al suo tempo nullo re, se non se quello di Francia e quello d’Inghilterra e d’Ungheria, di tanto podere quanto mesere Luchino, che tenea del continuo più di IIIm cavalieri al soldo, e talora IIIIm e Vm e più, che non ha re tra’ Cristiani che·lli tenga. E signoreggiava le ’nfrascritte XVII città colle loro castella e contadi Milano, Commo, Bergamo, Brescia, Lodi, Moncia, Piagenza, Pavia, Cremona, Cremma, Asti, Tortona, Allessandra, Noara, Vercelli, Torino, e ora Parma. Ma guardisi del proverbio che disse Marco Lombardo al conte Ugolino di Pisa, quand’era nella sua maggiore felicità e stato; come dicemmo nel suo capitolo, ch’egli era meglio disposto a ricevere la mala miccianza, e così gli avenne. E a meser Mastino signore di XI cittadi le perdé tutte, se non se Verona e Vincenza, e in quelle fu osteggiato. E però non si dee niuno groriare troppo delle filicità mondane, e spezialmente i tiranni; che la fallace fortuna come dà a·lloro co·llarga mano, così ritoglie; e questo basti a tanto, e tosto si vedrà il fine.

LXXV Come il conte di Fondi sconfisse la gente della reina moglie che fu del re Andreas.

In questi tempi il conte di Fondi, nipote che·ffu di papa Bonifazio, a petizione del re d’Ungheria prese Terracina e il castello d’Itri presso di Gaeta per cominciare la guerra da quella parte alla reina e a’ reali di Napoli, i quali vi mandarono DC cavalieri e pedoni assai del Regno, per assediare il detto castello d’Itri. Il conte fece suo sforzo di gente di Campagna, e con CC cavalieri tedeschi ch’avea furono CCCC a cavallo e gente a piè assai, e assalì la detta oste e miseli inn-isconfitta; ov’ebbe assai di presi e di morti; e·lla città di Gaeta quasi si rubellò, tegnendosi per loro medesimi, sanza rispondere a’ reali o alla reina di Napoli. In questi tempi, all’entrante d’ottobre, morì a Napoli quella si facea chiamare imperadrice di Gostantipoli, figliuola che fu di meser Carlo di Valos di Francia, e moglie che·ffu del prenze di Taranto. Di questa si disse ch’ordinò colla moglie del re Andreas sua nipote la morte del detto re, e con più altri signori e baroni, come racontammo nel capitolo adietro della morte del re Andreas, per darla per moglie a meser Luigi di Taranto suo figliuolo, come fece poi, come diremo alquanto inanzi. Ed ella dopo la morte del prenze suo marito portò mal nome di sua persona, se vero fu, che palese si dicea, che infra gli altri suoi amadori tenea meser Niccola Acciaiuoli nostro cittadino per suo amico, ed ella il fece cavaliere e fecelo molto ricco e grande. Lasceremo alquanto di fatti del Regno, e torneremo a’ fatti e guerra del re d’Inghilterra.

LXXVI Come fu sconfitto il re Davit di Scozia dagl’Inghilesi a Durem.

Essendo il re Aduardo d’Inghilterra rimaso di qua da mare all’asedio di Calese, come lasciammo adietro, il re di Francia dopo la sua sconfitta tornò a Parigi, e sommosse tutto il suo reame ed i suoi amici per ragunare gente maggiore che di prima, per vendicarsi del re d’Inghilterra, e levarlo dall’asedio di Calese. E oltre a·cciò rimandò inn Iscozia Davit di Brustro re di Scozia, che·ffu co·llui alla battaglia, e diègli molti danari e gente d’arme, acciò che di Scozia venisse con sua oste inn-Inghilterra. Il quale giunto inn-Iscozia, e sapiendo che ’l re d’Inghilterra era colla sua oste dell’Inghilesi a Calese, ragunò sua oste di bene Lm uomini tra piè e a cavallo di suoi Scotti, e·lla gente gli avea data il re di Francia, e passò inn Inghilterra insino alla città di Durem, faccendo gran danno al paese di ruberia e d’arsione. Certi baroni ch’erano rimasi inn-Inghilterra alla guardia del reame, onde fu capo... e none isbigottiti perché non vi fosse il loro re, ragunarono bene XVIm uomini buona gente d’arme tra a cavallo e a piè, la più gran parte Inghilesi e Gualesi, e francamente vennero contro al re di Scozia e sua oste, ch’erano tre tanti di loro, e al valico della riviera dell’Ombro gli asaliro vigorosamente. Gli Scotti del sùbito assalto e dubitandosi che gl’Inghilesi non fossono in maggior quantità, si misero in volta e furono sconfitti, e molti Scotti vi rimasero presi e morti, e fuvi preso il loro re Davit e ’l figliuolo, e menati presi a Londra; e·cciò fu a dì XVI d’ottobre MCCCXLVI. E nota ch’ancora è, e fia sempre, che ’l nostro Idio Sabaot fa vincere e perdere le battaglie a cui gli piace, non guardando a numero e forza di gente, secondo i suoi giudici per punizione di peccati di re e de’ popoli.

LXXVII Ancora della guerra di Guascogna.

Dopo la sconfitta ch’ebbe il re di Francia dal re d’Inghilterra a Crescì, come adietro facemmo menzione, il conte d’Ervi, ch’era per lo re d’Inghilterra in Guascogna, non istette ozioso, ma più vigorosamente e con più audacia e baldanza con sua oste proccedette contro alla gente del re di Francia, cavalcando il paese; e·lla gente del re di Francia impaurita e sbigottita molto, però che se n’era partito meser Giovanni figliuolo del re di Francia con sua oste, e venuto verso Parigi per la vittoria ch’ebbe il re d’Inghilterra sopra il re di Francia a Crescì; sì·lli si arrendéo la terra di San Giovanni Angiulini, e·lla città di Pittieri, e·lLisignano, e Minorto, e Santi in Santogia, con più altre castella e ville, sanza alcuna risistenza; e quelle rubò d’ogni sustanzia, e ritennesi San Giovanni e·lLisignano e Minorto, e quelle fornì di sua gente per guerreggiare il paese; onde il paese era in gran tremore, e tutta tolosana infino a Tolosa. Fatto il conte d’Ervi il detto conquisto, fornì le terre e frontiere di gente d’arme, e tornossi inn-Inghilterra. Partito il conte d’Ervi del paese, que’ di Pittieri colle loro vicinanze, sanz’altro capitano del re di Francia, feciono una cavalcata, credendosi riprendere Lisignano che facea loro una grande guerra, e furonvi isventuratamente sconfitti dal conte di Monforte, ed erano tre cotanti che·lla gente del re d’Inghilterra; e così aviene chi è in volta di fortuna. Lasceremo alquanto della guerra del re di Francia a quello d’Inghilterra, e diremo del nuovo eletto imperadore.

LXXVIII Come Carlo re di Buem fu confermato per lo papa e per la Chiesa a esere imperadore, e come prese la prima corona.

Nel detto anno MCCCXLVI a Vignone, ov’era il papa colla corte, essendovi venuti ambasciadori di Carlo re di Buem colla sua confermagione della lezione dello ’mperio fatta di lui, come adietro facemmo menzione, il papa a priego e stanza del re di Francia, e per abattere il titolo dello ’mperio del Bavero, sì confermò a essere degno imperadore il detto Carlo con autorità di santa Chiesa, commendandolo il papa di molte virtudi in suo sermone in piuvico consistoro, ove furono tutti i cardinali vescovi e prelati ch’erano in corte, e tutti i cortigiani che vi vollono essere, promettendogli ogni aiuto e favore alla sua dignità che·ssi potesse per santa Chiesa, e dandoli licenza che·ssi potesse coronare della prima corona inn-Alamagna, ov’elli volesse, e per quale vescovo o arcivescovo ch’a·llui piacesse, nonistante il luogo consueto d’Asia la Cappella, o coronare per l’arcivescovo di Cologna; e ciò fu a dì VI di novembre gli anni MCCCXLVI. Il detto Carlo avuta dal papa la sua confermagione, sanza indugio, non potendosi coronare ad Asia la Cappella per la forza del Bavero e de’ suoi amici ch’era in quello paese ragunato con forza d’arme per contastarlo, sì·ssi fece coronare a una terra che·ssi chiama Bona presso di Cologna, in forza di lui e di suoi amici, non tenendo tre dì campo in arme, come dice ed è consueto per dicreto; e·cciò fu il dì di santa Caterina, dì XXV di novembre MCCCXLVI. E pochi signori e baroni d’Alamagna furono alla sua coronazione, però che·lla maggiore parte tenieno con Lodovico di Baviera chiamato Bavero. Lasceremo alquanto delle novità di là da’ monti e del nuovo imperio, infino che luogo e tempo sarà, e torneremo a dire di fatti di Firenze e di nostro paese che furono in que’ tempi.

LXXIX Di novità fatte in Firenze per cagione degli ufici del Comune.

Nel detto anno, avendosi in Firenze novelle della confermazione e prima coronazione del nuovo imperadore Carlo di Buem, come detto avemo, considerando ch’egli era nipote dello ’mperadore Arrigo di Luzimborgo, il quale fu all’asedio di Firenze, e trattocci come suoi nimici e ribelli, come ne’ suoi processi al suo tempo facemmo menzione; e con tutto che ’l papa e·lla Chiesa mostri di favorallo, per quelli della parte guelfa in Firenze se n’ebbe gran sospetto. E sentendo e sapiendo che ne’ bossoli, overo borse della lezione de’ priori avea mischiati più Ghibellini sotto nome d’artefici delle XXI capitudini dell’arti, e d’esere buoni uomini e popolari, più consigli se ne tennero per correggere la detta lezione de’ priori. Ma era tanto il podere delle capitudini dell’arti e delli artefici, e per tema di non comuovere la terra a romore e ad arme, che si rimase di non fare cerna, o toccare la lezione di priori; ma per contentare in parte i Guelfi si fece a dì XX di gennaio, dicreto e riformagione che d’allora inanzi nullo Ghibellino, il quale, elli o suo padre, suo congiunto, dal MCCCI in qua fosse stato ribello, o in terra ribella stato, o venuto contro al nostro Comune, potesse avere niuno uficio; e se fosse eletto, pena a’ lettori o·llui che ricevesse fiorini M d’oro o·lla testa; e che niuno altro, il quale non fosse vero Guelfo e amatore di parte di santa Chiesa, bene ch’elli né suoi non fossono stati ribelli, non possa avere alcuno uficio, a pena di libre D e alle signorie, ove ne fosse acusato, pena libre M se nol condannasse; e·lla pruova di ciò si dovesse fare per VI testimoni di piuvica fama, aprovati i detti testimoni fossero idoni, se·ll’accusato fosse artefice, per li consoli di sua arte, e se fosse l’accusato iscioperato, i detti VI testimoni aprovati per li priori, e XII loro consiglieri; e funne condannato Ubaldino Infangati, perché accettò l’uficio di XVI sopra i sindacati de’ falliti in libre D; e alcuni altri per quello uficio e altri ufici, per non esere condannati né isvergognati, non accettaro né vollono giurare i detti ufici, e altri Guelfi furono messi in quello scambio.

LXXX Di novità ch’ebbe in Arezzo simile per cagione degli ufici.

All’entrante del mese di novembre del detto anno nella città d’Arezzo si levò romore, e furono sotto l’arme per cagione che a’ Guelfi d’Arezzo, ond’erano capo i Bostoli, per potere meglio tiranneggiare i loro cittadini, dicendo che parea loro che troppi Ghibellini fossono mischiati co·lloro agli ufici e reggimento della città; e convenne si facesse la cerna, e che i Ghibellini ch’erano ne’ sacchetti, overo bossoli, per essere rettori e uficiali, ne fossono tratti. E tutto questo avenne per gelosia del nuovo imperadore, onde seguì poi assai sconcio alla città d’Arezzo e a’ detti della casa de’ Bostoli, come si troverrà per inanzi leggendo.

LXXXI Come la città di Giadra inn-Ischiavonia s’arrendé a’ Viniziani.

Nel detto anno, il dì di santo Tommaso di dicembre, la città di Giadra inn-Ischiavonia, ove i Viniziani erano stati sì lungamente ad asedio, per difalta di vittuaglia s’arenderono al Comune di Vinegia, salve le persone e l’avere, rimanendosi sotto la signoria di Vinegia per lo modo s’erano inanzi si rubellassono. Il re d’Ungheria, a·ccui petizione e baldanza Giadra s’era rubellata, e di ragione n’era signore e sovrano, come adietro facemmo menzione, no·lli poté soccorrere per difalta e fame ch’era inn-Ischiavonia; non vi poté venire né mandare suo oste né poterla far fornire. Néd eziandio il detto re d’Ungheria non potéo seguire la sua impresa di passare in Puglia, per la carestia e fame che·ffu quasi in tutta Italia e in più parti, e maggiormente inn-Ischiavonia.

LXXXII Di certe novità che furono nel castello di Sa·Miniato e come si diedono alla signoria e guardia del Comune di Firenze per V anni.

Nel detto anno, del mese di febraio, essendo podestà di Sa·Miniato mesere Guiglielmo delli Oricellai popolano di Firenze, volendo fare giustizia di certi malfattori i quali erano masnadieri di Malpigli e Mangiadori, le dette case co·lloro sforzo d’amici con armata mano levaro la terra a romore, e per forza tolsono i malfattori alla detta podestà, e voleno disfare gli ordini del popolo. Se non che’ popolani di Sa·Miniato furono ad arme, e col sùbito soccorso delle masnade di Fiorentini ch’erano nel Valdarno di sotto, a·ccavallo e a piè vi trassono, onde il popolo si difese e guarentì, e ’l Comune di Firenze vi mandò loro ambasciadori per riformare la terra, e così feciono; per la qual cosa il popolo e Comune di Sa·Miniato, di loro buona volontà e per vivere in pace, dierono la signoria e guardia della loro terra al Comune di Firenze per V anni. E poi per fortificare il popolo di Sa·Miniato si fece, dì XIII d’ottobre MCCCXLVII, riformagione in Firenze, che’ grandi di Firenze s’intendessono e fossono grandi e trattati per grandi in Sa·Miniato, acciò che non potessono fare forza e violenze a’ popolani, e che i grandi di Sa·Miniato s’intendessono per grandi in Firenze. E ordinossi di raforzare la rocca e fare via chiusa di mura larga braccia XVI dalla rocca alle mura di fuori, con una porta, alle spese comuni del Comune di Firenze e di Sa·Miniato, acciò che ’l Comune di Firenze avesse spedita l’entrata ella guardia della detta rocca. E ordinossi di fare un ponte sopra il fiume de l’Elsa alle spese de’ detti due Comuni, acciò che quando bisognasse, ad ogni tempo, la forza di Fiorentini potesse essere in Sa·Miniato alla loro difesa.

LXXXIII Di certe novità e ordini che·ssi feciono in Firenze per lo caro ch’era, e mortalità.

Essendo in Firenze e d’intorno il caro grande di grano e d’ogni vittuaglia, come poco adietro avemo fatta menzione, essendone afritti i cittadini e contadini, spezialmente i poveri e impotenti, e ogni dì venia montando il caro ella difalta; e oltre a·cciò conseguente cominciata grande infermità e mortalità, il Comune provide e fece dicreto a dì XIII di marzo che niuno potesse esere preso per niuno debito di fiorini C d’oro, o da indi in giù, infino a calen di agosto vegnente, salvo all’uficiale della mercatantia da libre XXV in su, acciò che·ll’impotenti non fossono tribolati di loro debiti, avendo la passione della fame e mortalità. E oltre a·cciò feciono ordine che nessuno potesse vendere lo staio del grano più di soldi XL; e chi·nne recasse di fuori del contado di Firenze per vendere, avesse dal Comune fiorino uno d’oro del moggio; ma non si potéo osservare, che tanto montò la carestia e difalta, che·ssi vendea fiorino uno d’oro lo staio, e talora libre IIII; e se non fosse la provisione del Comune, come dicemmo adietro, il popolo moria di fame. E per la pasqua di Risoresso seguente, che·ffu in calen di aprile MCCCXLVII, il Comune fece offerta di tutti i prigioni ch’erano nelle carcere che riavessero pace da’ loro nimici, e stati in prigione da calen di febraio adietro; e chiunque v’era per debito da libre C in giù, rimanendo obrigato al suo creditore; e·ffu gran bene e limosina, che per la ’nopia è·ggià cominciata la mortalità, ogni dì morivano nelle carcere due o tre prigioni; furono gli oferti in quello dì CLXXIII, che ve ne avea più di D in più in grande inopia e povertà. E poi a l’uscita di maggio per le sudette cagioni si fece riformagione per lo Comune di Firenze, che chiunque fosse nelle carcere o fosse in bando di pecunia da fiorini C d’oro in su, ne potesse uscire pagando al Comune in danari contanti soldi III per libra di quello fosse condannato o sbandito, e scontando ancora i soldi XVII per libra del debito del Comune che s’avea chi·llo volea comperare per XXVIII o XXX per C da coloro che doveano avere dal Comune, che venia la detta gabella di pagare da soldi VII e mezzo per libra. Certi gli pagaro e uscirono di bando e di prigione, ma non furo guari; tanto era povero il comune popolo di cittadini per lo caro e·ll’altre aversità occorse.

LXXXIV Di grande mortalità che·ffu in Firenze, ma più grande altrove, come diremo apresso.

Nel detto anno e tempo, come sempre pare che segua dopo la carestia e fame, si cominciò in Firenze e nel contado infermeria, e apresso mortalità di genti, e spezialmente in femine e fanciulli, il più in poveri genti, e durò fino al novembre vegnente MCCCXLVII ma però non fu così grande, come fu la mortalità dell’anno MCCCXL come adietro facemmo menzione; ma albitrando al grosso, ch’altrimenti non si può sapere a punto in tanta città come Firenze, ma in di grosso si stimò che morissono in questo tempo più di IIIIm persone, tra uomini e più femmine e fanciulli; morirono bene de’ XX l’uno; e fecesi comandamento per lo Comune che niuno morto si dovesse bandire, né sonare campane alle chiese, ove i morti si sotterravano, perché·lla gente non isbigottisse d’udire di tanti morti. E·lla detta mortalità fu predetta dinanzi per maestri di strologia, dicendo che quando fu il sostizio vernale, cioè quando il sole entrò nel principio dell’Ariete del mese di marzo passato, l’ascendente che·ffu nel detto sostizio fu il segno della Vergine, e ’l suo signore, cioè il pianeto di Mercurio, si trovò nel segno dell’Ariete nella ottava casa, ch’è casa che significa morte; e se non che il pianeto di Giove, ch’è fortunato e di vita, si ritrovò col detto Mercurio nella detta casa e segno, la mortalità sarebbe stata infinita, se fosse piaciuto a·dDio. Ma·nnoi dovemo credere e avere per certo che Idio promette le dette pestilenze e·ll’altre a’ popoli, cittadi e paesi per pulizione de’ peccati, e non solamente per corsi di stelle, ma talora, siccome signore dell’universo e del corso del celesto, come gli piace; e quando vuole, fa accordare il corso delle stelle al suo giudicio; e questo basti in questa parte e d’intorno a Firenze del detto delli astrolagi. La detta mortalità fu maggiore in Pistoia e Prato e nelle nostre circustanze all’avenante della gente di Firenze, e maggiore in Bologna e in Romagna, e maggiore a Vignone e in Proenza ov’era la corte del papa, e per tutto il reame di Francia. Ma infinita mortalità, e che più durò, fu in Turchia, e in quelli paesi d’oltremare, e tra’ Tarteri. E avenne tra’ detti Tarteri grande giudicio di Dio e maraviglia quasi incredibile, e·ffu pure vera e chiara e certa, che tra ’l Turigi e ’l Cattai nel paese di Parca, e oggi di Casano signore di Tartari in India, si cominciò uno fuoco uscito di sotterra, overo che scendesse da cielo, che consumò uomini, e bestie, case, alberi, e·lle pietre e·lla terra, e vennesi stendendo più di XV giornate atorno con tanto molesto, che chi non si fuggì fu consumato, ogni criatura e abituro, istendendosi al continuo. E gli uomini e femine che scamparono del fuoco, di pistolenza morivano. E alla Tana, e Tribisonda, e per tutti que’ paesi non rimase per la detta pestilenza de’ cinque l’uno, e molte terre vi s’abandonaro tra per pestilenzia, e tremuoti grandissimi, e folgori. E per lettere di nostri cittadini degni di fede ch’erano in que’ paesi, ci ebbe come a Sibastia piovvono grandissima quantità di vermini grandi uno sommesso con VIII gambe, tutti neri e coduti, e vivi e morti, che apuzzarono tutta la contrada, e spaventevoli a vedere, e cui pugnevano, atosicavano come veleno. E in Soldania, in una terra chiamata Alidia, non rimasono se non femmine, e quelle per rabbia manicaro l’una l’altra. E più maravigliosa cosa e quasi incredibile contaro avenne in Arcaccia uomini e femine e ogni animale vivo diventarono a modo di statue morte a modo di marmorito, e i signori d’intorno al paese pe’ detti segni si propuosono di convertire alla fede cristiana; ma sentendo il ponente e paesi di Cristiani tribolati simile di pistolenze, si rimasono nella loro perfidia. E a porto Talucco, inn-una terra ch’ha nome Lucco inverminò il mare bene X miglia fra mare, uscendone e andando fra terra fino alla detta terra, per la quale amirazione assai se ne convertirono alla fede di Cristo. E stesesi la detta pistolenza infino in Turchia e Grecia, avendo prima ricerco tutto Levante i·Misopotania, Siria, Caldea, Suria, Cipro, il Creti, i·Rodi, e tutte l’isole dell’Arcipelago di Grecia, e poi si stese in Cicilia, e Sardigna, Corsica, ed Elba, e per simile modo tutte le marine e riviere di nostri mari; ed otto galee di Genovesi ch’erano ite nel mare Maggiore, morendo la maggiore parte, non ne tornarono che quattro galee piene d’infermi, morendo al continuo; e quelli che giunsono a Genova, tutti quasi morirono, e corruppono sì l’aria dove arivavano, che chiunque si riparava co·lloro poco apresso morivano. Ed era una maniera d’infermità, che non giacia l’uomo III dì, aparendo nell’anguinaia o sotto le ditella certi enfiati chiamati gavoccioli, e tali ghianducce, e tali gli chiamavano bozze, e sputando sangue. E al prete che confessava lo ’nfermo, o guardava, spesso s’apiccava la detta pistilenza per modo ch’ogni infermo era abandonato di confessione, sagramento, medicine e guardie. Per la quale sconsolazione il papa fece dicreto, perdonando colpa e pena a’ preti che confessassono o dessono sagramento alli infermi, e·lli vicitasse e guardasse. E durò questa pestilenzia fino a... e rimasono disolate di genti molte province e cittadini. E per questa pistilenza, acciò che Iddio la cessasse e guardassene la nostra città di Firenze e d’intorno, si fece solenne processione in mezzo marzo MCCCXLVII per tre dì. E tali son fatti i giudici di Dio per pulire i peccati de’ viventi. Lasceremo della matera, e diremo alquanto de’ processi di Carlo di Buem nuovo eletto imperadore.

LXXXV Come Carlo di Buem eletto imperadore venne in Chiarentana.

Nel detto anno, all’uscita del mese d’aprile e all’entrante di maggio MCCCXLVII, Carlo re di Bueme nuovamente eletto a esere imperadore e già confermato per la Chiesa, come adietro facemmo menzione, con aiuto di cavalieri di messer Luchino Visconti signore di Milano, e di meser Mastino della Scala signore di Verona, venne in Chiarentana per raquistare il paese, che in parte gli succedea per retaggio della madre, e per avere spedita l’entrata d’Italia; e rendéllisi la città di Trento e quella di Feltro e Civita Bellona colla forza del patriarca d’Aquilea per comandamento del papa, e arse il borgo e terra di Buzzano, e puosesi allo assedio a Tiralli. Sentendo ciò il marchese di Brandiborgo figliuolo del Bavero, ch’ancora cusava ragione in parte della detta contea per la madre, e ancora per la nimistà impresa contra il suo padre Bavero, avendosi fatto eleggere imperadore lui vivendo, si venne della Magna con grande cavalleria per soccorrere Tiralli e raquistare il paese. Sentendo la sua venuta il detto Carlo eletto imperadore, e ch’egli era con maggiore potenza di gente di lui, si partì con sua oste d’asedio dal detto Tiralli con alcuno danno di sua gente e con vergogna, perdendo parte del paese aquistato. Lasceremo alquanto di suoi fatti, e diremo ancora del processo della guerra del re di Francia e di quello d’Inghilterra, ch’ancora ne cresce matera.

LXXXVI Di certo parlamento che fece il re di Francia per andare contro al re d’Inghilterra.

Nel detto anno, il dì di domenica d’ulivo, il re di Francia fece grande ragunata di suoi baroni a Parigi, e fece suo parlamento richieggendo tutti i suoi baroni e prelati e Comuni di suo reame d’aiuto per fare suo oste contra al re d’Inghilterra, ch’era con suo oste all’asedio di Calese, come lasciammo adietro. E giurò di non fare mai co·llui pace o triegua infino a tanto che non avesse fatto vendetta della sconfitta ricevuta a Crescì, e dell’onta che ’l re d’Inghilterra avea fatta alla corona di Francia, d’essere venuto con oste in suo reame e d’essere ancora all’asedio di Calese. Il quale saramento non poté oservare, ma procacciò di farne suo podere in ragunando tutti i suoi baroni prelati e caporali di grandi Comuni e cittadi al suo parlamento. Nel quale parlamento tutti quelli del reame gli promissono aiuto di gente d’arme, i gentili uomini e gli altri di sussidio di moneta. E fece trarre di San Donigi la ’nsegna d’oro e fiamma, la quale per usanza non si trae mai, se non a grandi bisogni e necessitadi del re e del reame, la quale è adogata d’oro e di vermiglio; e quella diede al siri di... di Borgogna, nobile e gentile uomo e prode in arme; e comandato a tutti che s’aparecchiassono di seguirlo alla sua richesta; e poi si partì il parlamento.

LXXXVII Del parlamento che fece il re d’Inghilterra co’ Fiaminghi e col duca di Brabante.

In questo medesimo tempo lo re d’Inghilterra, lasciata sua oste ordinata e fornita all’assedio di Calese, venne in Fiandra, e·llà fece suo parlamento co’ rettori delle buone ville, e fuvi il duca di Brabante e ’l giovane conte di Fiandra, rimaso del conte suo padre, che morì alla battaglia di Crescì in servigio del re di Francia. E in quello parlamento ordinaro insieme lega e compagnia contro al re di Francia; e promissono parentado, il duca di Brabante di dare al figliuolo una sirocchia del re d’Inghilterra, e al giovane conte di Fiandra la figliuola; e ordinarono guidatore di Fiandra e del giovane conte il marchese di Giulieri. E·cciò fatto, il re d’Inghilterra si tornò alla sua oste allo assedio di Calese. Ma partito di Fiandra il detto parlamento, i detti parentadi e·llega non si oservarono per lo duca di Brabante, né per lo giovane conte di Fiandra, come assai tosto per lo innanzi faremo menzione, per procaccio e spendio del re di Francia. Lasceremo alquanto dire della detta guerra, e diremo d’altre novità d’Italia e della nostra città di Firenze.

LXXXVIII Di novità e discordia che fu nella città di Genova.

Nel detto anno, del mese d’aprile, essendo i Genovesi tra·lloro in discordia da’ noboli al popolo, trattaro di dare il reggimento della terra, quasi come mediatore tra·lloro, a meser Luchino Visconti signore di Milano, e mandarli ambasciadori il popolo per sé, di darli la signoria limitata e a certo termine; e’ noboli e’ grandi aveano mandato per li loro ambasciadori ch’elli gliele voleano dare libera, tegnendosi mal contenti del reggimento del dugi e del popolo; onde messere Luchino sdegnato contro al popolo, non volendoli dare libera la signoria. Per la qual cosa tornati a Genova i detti ambasciadori, si levò il popolo a romore e ad arme, e corsono sopra i grandi, e presonne da L pure de’ migliori, e impuosono loro di pena libre Cm di genovini, e convenne che li pagassono al Comune; e racchetossi il romore nella città, rimanendo il dogi e ’l popolo signori; e di caporali delle case di grandi il dogio mandò a’ confini in diverse parti; ma i più ruppono i confini e fecionsi rubelli, e poi, come diremo inanzi, vennero sopra Genova. E di questo mese d’aprile essendo arrivate in Porto Pisano II cocche cariche di grano, che venia di Cicilia comperato per gli uficiali del Comune di Firenze, essendo in Genova gran caro di grano, mandaro loro galee in Porto Pisano, e combattero le dette cocche, e per forza le menarono a Genova, pagandone poi con male pagamento i mercatanti di cui era il carico, quello ch’a·lloro piacque. Per la quale ingiuria e tirannia fatta pe’ Genovesi al Comune di Firenze subitamente montò il grano in Firenze a soldi XLV lo staio, poi salì tosto a fiorini uno d’oro e più. E per questa cagione e oltraggio di Genovesi ebbe in Firenze grande gelosia e paura che non mancasse la vittuaglia, e mandarono in Romagna a farne venire con gran costo e interesso del nostro Comune, come adietro facemmo menzione nel capitolo della carestia.

LXXXIX Come l’Aquila e altre terre d’Abruzzi si rubellarono a’ reali di Puglia a petizione del re d’Ungheria.

Nel detto anno, essendo quasi rubellata l’Aquila alla reina di Puglia e agli altri reali rede del re Ruberto per uno ser Ralli dell’Aquila, che se n’era fatto signore, a pitizione del re d’Ungheria, giunsono nella città dell’Aquila del mese di maggio l’arcivescovo d’Ungheria e meser Niccola ungaro, il quale meser Niccola era stato nel Regno balio del re Andreas, ed eravi, quando fu morto, ambasciadore del re d’Ungheria, con grande quantità di moneta per mantenere que’ dell’Aquila, e per soldare gente d’arme e cavallo e a piè, sì che tosto ebbono più di M cavalieri. Del mese di giugno e’ corsono il paese; e più terre d’Abruzzi si rubellaro alla detta reina e reali, e·ssi tennero per lo re d’Ungheria. Ciò fu Civita di Tieti, e Civita di..., e Popoli, e Lanciano, e·lla Guardia, e altre terre e castella; e puosono oste alla città di Sermona. Sentendosi ciò a Napoli, i detti reali, tra di baroni del Regno e soldati, assai tosto feciono più di IImD cavalieri e gente d’arme a piè assai, e feciono capitano dell’oste il duca di Durazzo, figliuolo che fu di meser Gianni e nipote del re Ruberto, e vennero al soccorso di Sermona. Sentendo ciò quelli dell’Aquila, che v’erano a oste, se ne partirono con alcuno danno, e ridussonsi nell’Aquila a guardia della terra, e quella aforzaro e guerniro di vittuaglia. Il duca di Durazzo colla sua oste, ch’ogni dì gli crescea gente, si puose all’asedio della città dell’Aquila, e quivi stettono fino all’uscita d’agosto guastando intorno; ed ebbevi più scontrazzi e badalucchi, quando a danno dell’una parte, e quando dell’altra. In questa stanza arrivò in Italia il vescovo di Cinque Chiese, overo di V Vescovadi, fratello bastardo del re d’Ungheria (si dicea savio signore e valentre in arme) con da CC gentili uomini d’Ungheria e d’Alamagna a cavallo e in arme, e con danari assai, e sogiornò alquanto a Forlì e in Romagna, prima ricevuti graziosamente da meser Mastino al suo valicare, e poi da tutti i signori di Romagna, e ivi soldò quanta gente poté avere a cavallo, e arrivò a Fuligno; sicché con gente ch’era soldata a Fuligno, ch’al tutto si tenieno dalla parte del re d’Ungheria, ond’era capo mesere Ugolino de’ Trinci, vi si trovò più di M cavalieri, e nell’Aquila e d’intorno al paese n’avea bene altri mille al soldo del re d’Ungheria. Sentendo ciò quelli ch’erano all’asedio dell’Aquila, ed essendo già fornito il servigio di tre mesi che’ baroni deono servire la corona, e non avendo soldo dalla corte, si cominciarono a partire; e ’l primo si partisse fu il conte di Sanseverino, che per li più si disse ch’amava più la signoria del re d’Ungheria che degli altri reali; e partito lui, tutti gli altri si partirono sconciamente e sciarrati, ricevendo alcuno danno dalla gente ch’erano nell’Aquila. E giunti all’Aquila, la gente ch’era a Filigno de·rre d’Ungheria corsono il paese, e presono il castello della Leonessa, e quello arsono. Lasceremo alquanto di questa impresa del re d’Ungaria, ch’assai tosto di ciò ci crescerà matera, e diremo d’una grande novità che·ffu nella città di Roma di mutazione di popolo e di nuova signoria.

XC Di grandi novitadi che furono in Roma, e come i Romani feciono tribuno del popolo.

Nel detto anno, a dì XX di maggio, il dì di Pentecosta, essendo tornato a Roma uno Niccolò di... ch’era andato a corte del papa per lo popolo di Roma a richiederlo che venisse a dimorare alla sedia di san Piero, come dovea, colla sua corte; e avendoli il papa di ciò data buona ma vana speranza, si ragunò parlamento in Roma, ove si congregò molto popolo, e in quello isposta sua ambasciata con savie e ornate parole, come quelli che di rettorica era maestro, com’elli avea ordinato con certi caporali del popolo minuto, a grido fu fatto tribuno del popolo e messo in Campidoglio in signoria. E di presente che fu fatto signore tolse ogni signoria e stato a’ noboli di Roma e d’intorno, e fecene prendere de’ caporali, che mantenieno le ruberie in Roma e d’intorno, e fecene fare aspre giustizie, e mandò a’ confini certi degli Orsini e Colonnesi e altri noboli di Roma, e tutti gli altri se n’andarono quasi fuori di Roma a·lloro terre e castella per fuggire la furia del detto tribuno e del popolo, e tolse loro il tribuno ogni fortezza della terra. E ordinò oste contra il prefetto e alla città di Viterbo, che no·llo ubbidiva; e in brieve per sua rigida giustizia Roma e intorno fu in tanta sicurtà, che di dì e di notte vi si potea andare salvamente. E mandò lettere a tutte le caporali città d’Italia, e una ne mandò al nostro Comune, con molto eccellente dittato; e poi ci mandò V solenni ambasciadori, gloriando sé, e poi il nostro Comune, e come la nostra città era figliuola di Roma e fondata e dificata dal popolo di Roma, e richiesene d’aiuto alla sua oste. A’ quali ambasciadori fu fatto grande onore, e mandati a Roma al tribuno cento cavalieri, e proferto maggiore aiuto, quando bisognasse; e’ Perugini gline mandaro CL. E poi il dì di san Piero in Vincola, dì primo d’agosto, come avea significato inanzi per sue lettere e ambasciadori, fecesi il detto tribuno fare cavaliere al sindaco del popolo di Roma all’altare di Santo Pietro; e prima per grandezza si bagnò a·lLaterano nella conca del paragone, che v’è, ove si bagnò Gostantino imperadore, quando santo Salvestro papa il guarì della lebbra. E fatta la grande corte e festa di sua cavalleria, ragunato il popolo, fece uno gran sermone, dicendo come volea riformare tutta Italia all’ubidienzia di Roma al modo antico, mantegnendo le città i·lloro libertà e giustizia, e fece trarre fuori certe nuove insegne ch’avea fatte fare, e una ne diè al sindaco del Comune di Perugia coll’arme di Giulio Cesare, il campo vermiglio e·ll’aguglia d’oro; un’altra ne trasse di nuova fazione, dov’era una donna vecchia a sedere in figura di Roma, e dinanzi le stava ritta una donna giovane colla figura del mappamondo in mano, rapresentando alla figura della città di Firenze, che ’l porgesse a Roma, e fece chiamare se v’avesse sindaco del Comune di Firenze; e non essendovi, la fece porre ad alti in su una stacca, e disse: «E’ verrà bene chi·lla prenderà a tempo e luogo». E più altre insegne diede a’ sindachi d’altre città vicine e circustanze di Roma; e quello dì fece impiccare il signore di Corneto, che facea rubare il paese d’intorno a Roma. E·cciò fatto, fece a grido nel detto parlamento invocare, e poi per sue lettere citare i lettori dello ’mperio della Magna, e Lodovico di Baviera detto Bavero, che·ss’era fatto imperadore, e Carlo di Buem, che novellamente s’era fatto imperadore, che d’allora alla Pentecosta a venire fossono a Roma a mostrare la loro lezione, e con che titolo si facieno chiamare imperadori, e’ lettori dovessono mostrare autoritade li avessono eletti; e fece trarre fuori e piuvicare certi privilegi del papa, come avea commessione di ciò fare. Lasceremo alquanto della nuova e grande impresa del nuovo tribuno di Roma, che tutto a tempo vi potremo ritornare, se·lla sua signoria e stato arà podere con efetto, con tutto che per li savi e discreti si disse infino allora che·lla detta impresa del tribuno era un’opera fantastica e da poco durare; e diremo alquanto di certe novità occorse in que’ tempi alla città di Firenze.

XCI Di certe tempeste e fuochi che furono in Firenze.

Nel detto anno, a dì XX e dì XXII del mese d’aprile, furono in Firenze e d’intorno grandi turbichi di piove e tuoni e baleni oltre all’usato modo. E caddono nella città e di fuori più folgori, e alcuna n’abatté certi merli delle mura. Poi a dì XVIII e dì XX di giugno furono per simile modo gran piogge, gragnuole, tuoni e folgori, guastando frutti e biade in più parti del contado. Per la qual cosa il vescovo di Firenze col chericato e grande popolo andarono per la terra a processione per III dì, pregando Iddio la cessasse; e come gli piacque, così fece. E·lla notte vegnente, il dì di san Giovanni, a dì XXIIII di giugno, s’aprese fuoco in Porta Rossa contra alla via traversa che va a casa gli Strozzi, ove arsono più di XX case, sanza quelle si disfeciono d’intorno per ispegnerlo, con grande danno e disuluzione della contrada, e morìvi più maestri di rovina di case, che caddono loro adosso. E ne’ detti dì s’aprese in più parti di Firenze con danno di più case e forni. E nota, lettore, quante tempeste occorse in questo anno alla nostra città, di fame, mortalità, rovina, tempeste, e fuochi, e discordie tra’ cittadini, per li soperchi di nostri peccati. Piaccia a·dDio che questi segni ci correggano de’ nostri difetti, acciò che Iddio non ci condanni a maggiori giudici, che paura ne fanno, sì è fallita la fede e caritade tra’ cittadini.

XCII Ancora di novità che furono in Firenze, e di certi ordini confermati contro a’ Ghibellini.

Nel detto anno, a dì VI di luglio, avendo il popolo di Firenze inn-odio la memoria del duca d’Atene per la sua malvagia signoria, come adietro facemmo menzione, si fece dicreto che niuno priore che fosse stato fatto per lo detto duca non avesse privilegio né potere portare arme come gli altri priori fatti per lo popolo; e chiunque avesse dipinta l’arme sua in casa o di fuori, la dovesse ispignere e acecare; e a·ccui fosse trovata, pena fiorini mille d’oro. E·llevaro che non potesse portare arme da offendere niuno gabelliere e niuno soprastante e·lloro guardie, se non nelle carcere o d’intorno, che in prima n’era piena tutta la città di privilegi, per più casi, ch’era sconcia cosa. E in questo tempo, ciò furono VI di nove priori, vollono correggere il dicreto ch’era fatto dì XX di gennaio passato, che parlava che niuno Ghibellino potesse avere ufici sotto certe pene, essendo accusato per lo modo che dicemmo adietro, volendo riducere che’ testimoni non fossono accettati, se non fossono prima aprovati pe’ priori e loro collegi; e per cotale modo si credettono anullare il detto dicreto. Ma sentendosi per li capitani di parte guelfa, e quasi commossa la terra, per modo che·lla prima detta legge fatta dì XX di gennaio si confermò, e fortificossi più ferma e con maggiori pene contro al volere della maggiore parte del detto uficio de’ priori ch’allora era. E bene disse il propio il maestro Michele Scotto de’ fatti di Firenze, che «disimulando vive etc.». Lasceremo alquanto delle novità di Firenze, tanto che surgano delle più fresche; e torneremo a dire de’ fatti d’oltremonti, e della guerra dal re di Francia al re d’Inghilterra, ch’al continovo ne cresce materia.

XCIII Come meser Carlo di Brois fu sconfitto in Brettagna.

Nel detto anno, a dì XXII del mese di giugno, meser Carlo di Brois, che·ssi facea chiamare duca di Brettagna per retaggio della moglie figliuola della figliuola del duca di Brettagna, come contammo adietro al capitolo della morte del duca, essendo in Brettagna con grande oste al castello e rocca d’Ariaro, che·lli s’era ribellato, il conte di Monforte figliuolo del fratello carnale che·ffu del duca di Brettagna, a cui di ragione succedea il detto ducato per linea mascolina, se non che·rre di Francia gliele contradiava, e tolse, e avielo dato al detto meser Carlo di Brois suo nipote, come dicemmo in alcuna parte adietro, sentendo la detta oste male ordinata, sì ragunò suo sforzo di quelli Brettoni ch’erano di sua parte coll’aiuto ch’avea dell’Inghilesi e Gualesi da·rre d’Inghilterra. E bene aventurosamente asalirono la detta oste, e missongli inn isconfitta, ove rimasono morti e presi molta buona gente del reame di Francia, tra’ quali vi rimasono morti e presi de’ caporali di rinomea, il siri della Valle, e meser Rosede e meser Giovanni suoi fratelli, il visconte di Durem, e ’l fratello, e ’l figliuolo, e ’l signore de Rualla, e ’l figliuolo, e ’l signore di Roggeo, il signore di Malostretto, il signore di Ciastelbrialto, il signore di Rasa di Rasi, e più altri cavalieri e scudieri, che non sapemmo il nome. E il detto meser Carlo di Brois con molti altri baroni e gentili uomini fu preso, e mandati pregioni a Londra inn-Inghilterra.

XCIV Come quelli della città di Legge furono sconfitti dal loro vescovo e dal duca di Brabante.

Nel detto anno, a l’uscita di luglio, il vescovo di Legge, coll’aiuto del duca di Brabante e di sua gente, fece oste sopra la città di Legge, che·lli s’era rubellata l’anno passato, come adietro facemmo menzione, della quale oste fu capitano e conducitore il detto duca. Que’ di Legge uscirono fuori a battaglia, popolo e cavalieri, col loro aiuto e sforzo d’amici e loro allegati; nella qual battaglia quelli di Legge furono isconfitti, e in grande quantità morti e presi. E il detto duca e vescovo, avuta la detta vettoria, ebbono la città di Legge sanza contasto niuno, e·lla terra Dui e quella di Dinante, che sono della partinenza di Legge, grosse terre e ricche e bene popolate, e prese le dette terre e paese, con volontà del vescovo ne feciono signore il duca di Brabante, con tutto che fossono terre ch’apartenieno alla Chiesa di Roma. E nota che Legge è una città nobile e di ricchi borgesi, e anticamente fu edificata per li Romani, però che in quello luogo, ch’è tra Francia e Alamagna, tenieno le loro legioni, quando dominavano quelle province, e da quello ebbe dirivo Legge il propio nome, da legio legionis.

XCV Come il navilio che·llo re di Francia mandava

per fornire Calese fu sconfitto dagl’Inghilesi.

Nel detto anno, all’uscita di giugno, avendo il re di Francia fatte aparecchiare al porto di Riflore in Normandia LXX navi, overo cocche, armate e fornite e cariche di molta vittuaglia, e altri arnesi e d’arme da guerra, per fornire la terra di Calese, ch’avea asediata il re d’Inghilterra, e in compagnia del detto navile XII galee armate di Genovesi; e passando il detto navile contro a Dovero inn-Inghilterra, ove avea da CC cocche armate del re d’Inghilterra, le quali vi stavano aparecchiate per fornire l’oste di Calese del re d’Inghilterra, con piene vele, fiotto e marea vennono adosso al detto navile del re di Francia; e·cciò veggendo l’amiraglio delle galee di Genovesi, il soperchio navilio de’ nimici non ressono, ma per forza di remi si ritrassono adietro, e abandonaro le dette navi, le quali furono tutte prese, e morti la maggiore parte degli uomini del navilio del re di Inghilterra, e con tutta la roba e vittuaglia che v’era suso, che valea danari assai, che·ffu gran conforto al re d’Inghilterra e alla sua oste, e grande speranza d’avere tosto la terra di Calese; e gli assediati di Calese furono in grande dolore e affanno e disperazione di loro salute.

XCVI Come il re di Francia s’affrontò con sua oste per combattere col re d’Inghilterra, e come s’arrendé Calese all’Inghilesi.

Sentendo il re di Francia com’era preso il suo navilio col fornimento che mandava a Calese, e sapiendo che in Calese venia meno la vittuaglia, e perdea la terra se no·lla soccorresse, fece richiedere i suoi baroni che s’aparecchiassono in arme per seguirlo, come avea ordinato nel suo parlamento, come dicemmo adietro, e così fu fatto. E partissi da Parigi del mese di luglio con sua oste, la qual era di più di Xm uomini a cavallo, gentili uomini e buona gente d’arme, con XXXm pedoni, ove avea buona parte Genovesi a balestra, e altri Lombardi e Toscani al soldo. E venuto lui in Artese, s’acampò presso all’oste del re d’Inghilterra a mezza lega, a dì XXVII di luglio. Lo re d’Inghilterra era con sua oste e campo intorno a Calese con più di IIIIm gentili uomini a cavallo, e con XXXm arcieri, e gualesi e inghilesi, ed erano co·llui il marchese di Giulieri capitano di Fiaminghi, con più di XXm Fiaminghi armati a piede. E ’l re d’Inghilterra avea affossato e steccato Calese tutto intorno dal lato di terra, e simile abarrato per mare e di fuori con pali e traverse di legname, il suo navilio alla guardia, sicché per mare né per terra non vi potea entrare né uscire persona. E di fuori avea tre campi, quello del re, quello de’ Fiaminghi, e quello del conte d’Ervi con parte della cavalleria e con Gualesi a piè: e tutti i detti III campi affossati e steccati intorno; e dentro alle licce si potea andare dall’uno campo all’altro, ed erano signori di prendere e di schifare la battaglia a·lloro posta.

In questa stanza vennero nell’oste messere Anibaldo cardinale e ’l cardinale di Chiermonte legati mandati per lo papa, andando dall’una oste all’altra per ragionare e trattare accordo di pace dall’uno re all’altro, e co·lloro s’accozzaro, con ordine di due re, in mezzo di due campi V baroni da ciascuna parte. E dopo tre dì stati ne’ detti trattati non vi poté avere concordia, da·ccui che si rimanesse. Dissesi dal re d’Inghilterra, perché il re di Francia nogli accettava le sue adimande, e non voleva recare il giuoco vinto a partito, aspettandosi d’ora inn-ora d’avere Calese, che più non si potea tenere. Veggendo il re di Francia che non potea avere né pace né triegua, fece spianare tra due campi e richiedere il re d’Inghilterra di battaglia; e a dì II d’agosto uscì fuori del suo campo così ordinato e schierato, faccendo della sua gente VI battaglie a·lloro guisa, ciò sono schiere. La prima era da mille o più cavalieri, i più Alamanni al soldo e Anoieri, la quale conducea meser Gianni d’Analdo e ’l conte di Namurro suo genero. La seconda fu di più altri mille cavalieri, il fiore di Francia, la qual guidava il maliscalco di Francia. La terza era di presso a IIIIm cavalieri con tutti i pedoni del paese e bidali di Navarra e Linguadoco e di nostro paese, e quest’era la schiera grossa, la qual guidava mesere Gianni duca di Normandia, figliuolo del re di Francia. La quarta era di M o più cavalieri di Linguadoco e Savoini; la quale conducieno il conte d’Armignacca, e ’l figliuolo del conte della Illa. [...] La sesta era di più di IIm cavalieri, ov’era il re di Francia con suoi ciamberlani, ed era schierato alla rietroguardia. Lo re d’Inghilterra fece armare e schierare sua gente dentro alle licce, ma non volle uscire fuori alla battaglia; e mandò a dire al re di Francia che volea prima Calese, e poi, se volesse combattere, passasse in Fiandra, ed elli con sua oste vi sarebbe aparecchiato di combattere. Lo re di Francia non volle accettare il partito d’andare a combattere in Fiandra fra·lla moltitudine de’ Fiaminghi suoi ribelli e nemici. E veggendo che quivi non potea avere battaglia, né soccorrere Calese sanza suo gran pericolo, si partì con sua oste, e si ritrasse adietro VI leghe quello primo dì, e poi seguendo sue giornate verso Parigi, lasciando di sue gente d’arme alla guardia delle terre delle frontiere, e con poco suo onore, ma ’l contrario, e con grande spendio si tornò a Parigi. Que’ di Calese veggendo partito il re di Francia e sua oste, patteggiaro col re d’Inghilterra co·rrenderli la terra, salve le persone a’ forestieri, uscendone in camicia iscalzi col capresto in collo, e’ terrazzani alla sua misericordia; e·cciò fu a dì IIII d’agosto del detto anno. Ed entrò nella terra a dì V d’agosto il re e sua gente, e trovarono che non v’era rimaso di che vivere e che ogni vile animale aveano mangiato per fame, e trovò nella terra molto tesoro, sì delle ruberie di quelli di Calese che tutti erano ricchi di danari guadagnati in corso sopra Inghilesi e Fiaminghi e altri navicanti per quello mare; però che Calese era uno ricetto di corsali, e spilonca di ladroni e piratti di mare; ancora v’erano dentro tutti i danari delle paghe mandati per lo re di Francia in più tempo ch’era durata la guerra, ch’erano buona quantità, che tutto vi lasciaro, e uscirne ignudi, come detto avemo; e tormentarolli per farsi insegnare la pecunia nascosa e sotterrata. E volendo il re d’Inghilterra far fare giustizia di terrazzani, siccome di piratti di mare, e tutti impenderli alle forche, i detti due cardinali furono con molti prieghi al re e alla reina, che perdonasse loro la vita per l’amore di Dio, e per la grazia e vittorie che Iddio gli avea fatte; e dopo molte pregherie di cardinali e della madre e della moglie perdonò loro la vita, e tutti gliene mandò col capresto in collo. E questa vittoria di Calese fu grande onore e aquisto al re d’Inghilterra. I Fiaminghi, ch’erano co·llui nell’oste, richiesono il re che ’l disfacesse, che non potesse far loro più guerra e ruberia, e’ loro porti ne fossono migliori. Lo re nol volle disfare, anzi fece crescere la terra verso la marina, e aforzare di mura e torri e fossi e steccati, e popololla di suoi Inghilesi, e fornilla di vittuaglia e d’arme. E bene che Calese fosse al re d’Inghilterra piccola terra, gli fu grande aquisto, perch’è terra di porto, e per vincere sì grande punga contro al re di Francia e suo gran podere nel suo paese medesimo. Ma·lle sopradette vittorie avute, il re d’Inghilterra sopra il re di Francia sì in Guascogna e in Brettagna e in Francia, e poi nella battaglia e vittoria avuta a Crescì, come adietro ordinatamente è fatta menzione, non ebbe in dono; che tornato il detto re Aduardo con sua oste in Inghilterra, tra’ morti in battaglie, e poi al suo ritorno morti d’infermitadi e malattie, si trovaro meno da Lm Inghilesi; e però non si dee nullo groriare delle pompe e vittorie mondane, che·lle più sono con male uscita. Lasceremo alquanto a dire della presente guerra de’ due re, ch’ha avuto alcuno fine di triegua; e torneremo a dire di Firenze e del nostro paese d’Italia. Ma inanzi che·llo re Adoardo si partisse da Calese e del paese, assai guerra e correrie fece la sua gente a Santo Mieri e all’altre terre d’Artese, con gran prede e dannaggio del paese. In questa stanza i legati cardinali trattarono accordo e triegua dal re di Francia a quello d’Inghilterra infino alla san Giovanni a venire, mandando ciascuno di detti re suoi ambasciadori a corte di papa a dare compimento d’acordo. Il re d’Inghilterra vi s’acordò volentieri, perch’avea il migliore della guerra, ed era per la detta guerra molto afannato e stracco elli e sua gente, e con grande dispensa. E·cciò ordinato, si partì il detto re Aduardo del reame di Francia con sua oste lasciando fornito Calese: passò il mare, e tornò in Inghilterra con grande festa e allegrezza, faccendo giostre e torniamenti.

XCVII Come in Firenze si fece nuova moneta, piggiorando la prima.

Del mese d’agosto del detto anno, essendo in Firenze montato l’ariento della lega d’once XI e mezzo di fine per libra in libre XII e soldi XV a·ffiorino, però che’ mercatanti per guadagnare il ricoglieno e portavallo oltremare, ov’era molto richiesto; per la qual cosa la moneta da soldi IIII di Firenze fatta l’anno MCCCXLV dinanzi, e·lla moneta di quattrini, si sbolzonavano e portavano via, onde il fiorino d’oro ogni dì calava, ed era per calare da libre III in giù; onde i lanaiuoli, a cui tornava a interesso, perché pagavano i loro ovraggi a piccioli, e vendeano i loro panni a·ffiorini, essendo possenti in Comune, feciono ordinare al detto Comune nuova moneta d’argento e nuovi quattrini, piggiorando l’una e·ll’altra moneta per lo modo diremo apresso, acciò che ’l fiorino d’oro montasse, e non abassasse. Ordinossi e fecesi una moneta grossa, alla quale diedono corso per soldi V l’uno, chiamandoli guelfi, di lega d’once XI e mezzo per libra, come la lega di grossi di soldi IIII l’uno, faccendone soldi VIIII e danari VIIII per libra, e rendene la moneta del Comune soldi VIIII, danari III, tre quinti; e costava ogni overaggio e calo soldi VI la libra di piccioli, sicché il Comune ne guadagnava soldi XXII piccioli d’ogni libra, ch’era oltraggio a mantenere buona moneta, peggiorando a quella di soldi IIII il grosso più di XI per centinaio. E·lla moneta di quattrini si piggiorò non di lega, ma di peso, che dove di prima se ne faceva soldi XXIII per libra, e ’l Comune ne rendea soldi... per libra, si feciono di nuovi soldi XXVI e danari VI per libra, e rendene la moneta soldi XXIIII e danari VIIII di quattrini per libra, e costava d’ovraggio e calo soldi VI di piccioli per libra; sicché il Comune n’avanzava danari XII piccioli per libra; sicché, chi·ssa di ragione, la moneta grossa peggiorò XI per C, e quella di quattrini da XV per C a quello ch’era la moneta fatta mesi... dinanzi. E nota che bene disse il nostro poeta Dante il propio nella sua Commedia, ove scramando contro a’ Fiorentini disse cominciando: «Godi Firenze etc.»; conseguente ancora:

del tempo che rimmembra,

Legge, moneta, e usanze e costume

Ha’ tu mutate e rinovate membra etc.

XCVIII Come in cielo aparve una commeta.

Nel detto anno, del mese d’agosto, aparve in cielo la stella commeta, che·ssi chiama Nigra, nel segno del Tauro, a gradi XVI nel capo della figura e segno del Gorgone, e durò XV dì. Questa Nigra è della natura di Saturno, e per sua infruenzia si cria, secondo che dice Zael filosofo e strolago, e più altri maestri della detta scienzia, la quale significa pure male e morte di re e di potenti; e questo dimostrò assai tosto in più re e reali, come inanzi leggendo si troverrà; e ingenerò grande mortalità ne’ paesi ove il detto pianeto e segno signoreggiano; e bene il dimostrò inn Oriente e nelle marine d’intorno, come dicemmo adietro.

XCIX Come messere Luigi figliuolo del prenze di Taranto prese per moglie la reina di Puglia sua cugina.

Nel detto anno, a dì XX d’agosto, meser Luigi, figliuolo che·ffu del prenze di Taranto secondogenito, sposò la reina, figliuola che·ffu del duca di Calavra sua cugina carnale, e ch’era stata moglie d’Andreas re figliuolo del re d’Ungheria, ed erano da parte di madre nati di due sirocchie carnali. E fu dispensato il detto iscellerato matrimonio per Clemento VI papa, e fatto duca di Calavra e balio del Regno. E ciò fu per procaccio e opera del cardinale di Peragorga suo zio, onde fu ripreso da tutti i Cristiani che ’l sentiro, e ciascuno che ’l seppe ne scificò e disse che sarebbe con mala uscita sì abominevole peccato, con tutto che palese si dicea che ’l detto meser Luigi avea affare di lei vivendo il re Andreas suo marito, ed egli ed ella furono trattatori della villana e abominevole morte del detto re Andreas, come contammo adietro, con più altri che ’l misono ad esecuzione; onde seguì molto male, come inanzi si farà per noi menzione.

C Di certe battaglie che feciono i Genovesi co’ Catalani in Sardigna e in Corsica.

Del mese d’agosto del detto anno il vicaro del re di Raona, ch’era in Sardigna, si puose con sua oste alla terra detta Alleghiera, la qual terra per lungo tempo aveano tenuta quelli della casa Doria di Genova, volendola recare a signoria del re. I quali di casa Doria v’andarono co·lloro sforzo, e missono inn-isconfitta la detta oste di Catalani, e morivenne più di DC. E poi coll’aiuto del Comune di Genova, che male erano contenti della vicinanza de’ Catalani, si puosono a oste a Sasseri, e a quello vennero al soccorso i Catalani con CCC cavalieri e popolo assai, e levarne i Genovesi inn-isconfitta: e così va di guerra. E del detto mese e anno i Genovesi ebbono la signoria di tutta l’isola di Corsica con volontà di quasi di tutti i baroni e signori di Corsica; e·ffu loro un bello aquisto colla terra di Bonifazio, ch’ellino teneno; se non che·ffu con mala uscita, che per la mortalità venuta di levante nell’isole e marine furono sì maculati d’infermità e di morte le dette isole di Sardigna e di Corsica, che non vi rimasono il terzo vivi degli abitanti del paese e Genovesi.

CI Come volle essere tradito e tolto il castello di Laterino a’ Fiorentini.

Nel detto anno, in calen di ottobre, per trattato di Tarlati usciti d’Arezzo volle essere tradito e tolto a’ Fiorentini il castello di Laterino per danari ne doveano avere certi terrazzani ghibellini e delle guardie che v’erano per lo Comune di Firenze. Il quale trattato si disse menava uno frate minore guardiano dei frati di Montevarchi; il quale tradimento fu scoperto, e presi i traditori, e parte di loro impiccati ad Arezzo, e parte a Firenze. E ’l detto frate fu preso e menato a Firenze, e inn-istretta carcere sotto la scala del capitano istette più mesi con grande inopia. Alla fine non trovandolo in colpa, e a priego de’ frati, fu dilibero. Lasceremo alquanto a dire delle novità da Firenze, tornando alquanto adietro a dire d’una grande e scellerata opera ch’avenne a’ reali di Tunisi in poco di tempo, dicendolo il più brieve che·ssi potrà, come avemmo da uno nostro amico fiorentino e mercatante e uomo degno di fede, che a tutto fu a Tunisi presente.

CII Come i reali del reame di Tunisi per loro discordie s’uccisono insieme.

Regnando in Tunisi e nel suo reame Mule Buchieri, che tanto è a dire Mule in saracinesco come Re in nostro latino; questi fu quello re di cui facemmo menzione adietro nel capitolo delle trallazioni del detto reame di Tunisi; questi era gran signore e sotto lui più reami, e avea più figliuoli di più mogli e amiche, ch’avea al modo saracinesco; venne a morte del mese d’ottobre MCCCXLVI. E a·lloro modo fece suo testamento, e lasciò che fosse re apresso lui un suo figliuolo chiamato Calido, il quale, quando morì il padre, nonn-era in Tunisi. Un altro suo figliuolo giovane di XXVI anni, pro’ e ardito, ch’avea nome Amare, ch’alla morte del padre si trovò in Tunisi, e acordandosi col siniscalco del regno, il quale avea nome Con Betteframo, ed era apresso il re il maggiore signore del reame, col suo aiuto si fece coronare re allora sanza alcuno contasto. Sentendo ciò Calido l’altro fratello, cui il padre avea lasciato che fosse re, s’acostò co’ signori delli Arabi, i quali signoreggiavano le terre campestre e·lle montagne (e sempre stanno a campo co·lloro tende, e non hanno città né castella né ville né case murate), e con grande sforzo d’Arabi venne a Buggea con sua oste. Amare, che s’era fatto re, col suo siniscalco e con sua oste uscirono di Tunisi, e di lungi X miglia verso Buggea s’acamparono. Ma il vizio della ingratitudine che regnava nel re Amare, non trattava bene il suo siniscalco, che gli avea data la signoria, ma tutto dì il minacciava di farlo morire. Il quale per tema della fellonia del re Amare si partì dell’oste da·llui, e tornossi a Tunisi; e di là con sua gente n’andò nel Garbo, e Amare re con tutta sua oste n’andò a Buggea. Calido cogli Arabi venne a Tunisi, e sanza contasto entrò nella terra, e di presente si diede a’ diletti carnali, standosi a’ giardini reali, che sono molto dilettevoli, e soggiornando in bagni con sue femmine stando in vita disoluta. E avendo con non buona providenza dato congio alli Arabi, che·ll’avieno rimesso in signoria, e non provedendosi della guerra del fratello, Amare venne a Tunisi con IIm cavalieri; e giunto di fuori di Tunisi fece asapere a’ soldati cristiani ch’erano nella terra di sua venuta, i quali gli promisono, per danari fece loro profferere, di seguirlo, ed elli con CCC uomini a cavallo scalò in più parti le mura della città, ed entrò dentro sanza contasto. Lo re Calido sentendo ciò, salì a·ccavallo disarmato con due suoi fratelli, l’uno re di Susa e l’altro di Sachisi, i quali elli avea tratti di prigione, ove gli avea messi il re Amare loro fratello, quando prese la signoria. E andando i detti per la città di Tunisi gridando a borgesi che ’l dovessono atare, rispuosono che di ciò non si travaglierebbono, che così avieno per loro signore l’uno fratello come l’altro. Andando per lo detto modo lo re Calido per la terra, certi Cristiani rinegati l’assalirono, e uno gli lanciò una lancia, e fedillo, onde cadde a terra del cavallo, e incontanente gli fu tagliata la testa, e presentata a·re Amare; la qual fece mettere in su una lancia, e mandarla per tutta la terra; e gli altri due fratelli presi, fece loro tagliare le mani, e poi infra tre dì gli fece morire, e più altri caporali delli Arabi ch’avieno seguito il re Calido fece il somigliante. E·cciò fatto, il re Amare sedette nella sedia reale come re, faccendosi fare l’omaggio e reverenza a tutte maniere di genti, e regnò apresso X mesi in pace, faccendo grandi feste con disoluta vita e mali reggimenti.

Benteframo e Betara siniscalchi che s’erano ribellati da·llui, e iti al re del Garbo, detto Bulafere, come adietro facemmo menzione, commossono il detto re del Garbo contra i·re Amare per le sue scellerate opere, e mossesi con grande oste di XXXm a cavallo, tra’ quali avea IIm Cristiani, e venne verso Tunisi, e per mare mandò un suo amiraglio con VIIII galee e altri legni; e giunto il detto Bulafar re del Garbo con sua oste a Buggea, l’ebbe sanza contasto niuno, e simile la terra di Gostantina, e trasse delle dette terre i reali e possenti, e quelli mandò nel Garbo con buona guardia, e fornì le dette terre di sue genti.

Lo re Amare di Tunisi sentendo la venuta del re del Garbo, s’aparecchiò di ragunare sua oste per venirli incontro infino a Buggea, e uscì di Tunisi a dì XI d’agosto MCCCXLVII con IImD cavalieri, aspettando a campo il suo soccorso, che tuttora gli venia. E in quella istanza ebbe novelle come il navile del re del Garbo era arrivato nel porto di Tunisi, onde tornò a Tunisi per difendere la terra, e al continovo facea badaluccare con balestra e archi, acciò che quelli del navile non prendessono terra. In questa stanza il re del Garbo con sua oste a piccole giornate ne venne verso Tunisi. Lo re Amare di Tunisi veggendosi così assalire per terra e per mare, e che·lla sua forza e ’l séguito non era forte alla forza de’ suoi nimici, si partì di Tunisi con M Barberi, né’ soldati cristiani nol vollono seguire per la sua avarizia, e andonne verso il Caroano per andarsene alla città di Susa. Allora l’amiraglio ch’era nel porto iscese alla terra con D balestrieri, e furono riceuti in Tunisi come signori. E poi apresso vi venne entrando della gente del re del Garbo; e ’l re del Garbo sentendo che ’l re Amar s’era partito di Tunisi per la via del Caroano, il fece seguire a un suo amiraglio con IIIIm uomini a cavallo, comandandogli gli apresentasse il re Amar o morto o vivo; il quale seguendolo, il trovaro di lungi a Tunisi C miglia con poca compagnia a una fontana, ove abeveravano loro e loro cavalli; il quale asalito dal detto amiraglio, fu fedito e morto, e tagliatoli il capo; e’ compagni che furono presi menati prigioni al re del Garbo, e presentatali la testa del re Amar; e certificatosi il re del Garbo ch’ell’era di vero la sua testa, la mandò a Tunisi, e fecela sopellire tra’ reali. E·llo re Bufar con sua oste s’apressò alla città di Tunisi, e·lla città e ’l regno ebbe al suo comandamento sanza contasto niuno, che·ggià v’era dentro la sua gente e per mare e per terra, come avemo detto dinanzi; e solo uno dì stette in Tunisi, e ciò fu del mese di gennaio MCCCXLVII. E rifermata la città e ’l reame d’uficiali di sua gente, fece prendere tutti i regoli, overo i reali, discendenti del re Bucchieri detto dinanzi, ove che fossono nel reame, che da LX erano, o più, e con buona guardia gli mandò nel Garbo; e dov’egli era stato a campo da IIII miglia di fuori di Tunisi, fece ordinare si dificasse una terra a modo di bastita, e quivi sogiornò con sue femine a gran festa.

Or nota, lettore, e ricogli quello ch’avemo detto nel presente capitolo, e troverrai che per li peccati della superbia e avarizia e lussuria principalmente venuta tra fratelli e congiunti, volendo l’uno all’altro torre lo stato e signoria, quanti micidi e altra distruzione avenne in poco di tempo a’ figliuoli e discendenti reali del re Bucchieri di Tunisi, onde il loro lignaggio fu distrutto. E per simile modo in questi tempi avennero tra·nnoi Cristiani tra’ reali del regno di Puglia, com’era già cominciato per la morte del re Andreas, e seguinne apresso, come assai tosto ne faremo menzione. Lasceremo de’ fatti de’ Barberi del regno d’Africa, ch’assai n’avemo detto, e torneremo a dire de’ fatti di questo nostro paese d’Italia, ch’assai ci cresce materia.

CIII Come la città di Sermona e altre terre s’arrendero alla gente del re d’Ungheria.

Nel detto anno, del mese d’ottobre, essendo la gente del re d’Ungheria all’assedio di Sermona, né per la reina né per li altri reali nonn-erano soccorsi, sì patteggiarono di rendere la terra a comandamenti del re d’Ungheria con questi patti, se da’ reali non fossero soccorsi infra XV dì: e rimanendo nelle loro franchigie e costume ch’erano col re Ruberto, e che dentro della terra non dovessono entrare soldati né gente d’arme più di X per volta, se·ggià non fosse colla persona del re d’Ungheria, o suo fratello; e di ciò diedono XX stadichi de’ migliori della terra. E avuta Sermona, non rimase persona in Abruzzi che non fosse all’ubidienza del re d’Ungheria. E del mese di novembre apresso, della detta gente d’arme del re d’Ungheria che facieno loro capo all’Aquila, in quantità di MD cavalieri e pedoni assai, avuta Sermona, passaro la montagna di Cinque Miglia, e scesono in Terra di Lavoro, e presono Sarn, e·ll’antica città di Venastri, e Ciano, che tenea il figliuolo del conte Novello; diede alla detta gente il mercato e·lla reddita, però che, come il padre, amava più la signoria del re d’Ungheria che degli altri reali. E il conte di Fondi, nipote che·ffu di papa Bonifazio VIII, entrò in San Germano colle ’nsegne del re d’Ungheria e con gente d’arme per lui.

CIV Come i reali col loro sforzo inn-arme si ragunarono alla città di Capova.

Sappiendo la reina e gli altri reali, onde si facea capo meser Luigi, ch’avea sposata la detta reina, come Sermona e·ll’altre dette terre s’erano rendute all’ubidienza del re d’Ungheria, incontanente feciono capo grosso alla città di Capova, acciò che·lla forza del re d’Ungheria non potessono passare il fiume del Voltorno per andare verso Napoli. Il prenze di Taranto e il duca di Burazzo vennero a Capova con più altri baroni, e co·lloro sforzo di gente d’arme, e ritrovarsi con meser Luigi con più di IImD cavalieri, bene e riccamente montati e bene in arme, e con popolo grandissimo, e quivi s’accamparono a modo d’oste nella terra e di fuori, e ogni dì crescea loro sforzo e podere per modo che·sse i detti reali fossono stati costanti e uniti insieme, per forza di gente che ’l re d’Ungheria avesse, néd eziandio venendo in persona, non avea podere di passare. Ma a·ccui Idio vuole per le peccata giudicare, toglie a’ signori e a’ popoli la forza e·lla concordia. E così avenne fra’ detti reali; che tuttora con poca fermezza ciancellavano insieme e tali di loro e degli altri gran baroni del Regno s’intendeano con lettere al segreto col re d’Ungheria. In questa stanza ebbe più scontrazzi dalla gente de’ reali a quella del re d’Ungheria, quando a danno dell’una parte, e quando dell’altra. Lasceremo alquanto di questa matera infino alla venuta del re d’Ungheria, e diremo d’altre novità che ne’ detti tempi furono in Roma. La reina e gli altri reali mandarono lettere e ambasciadori in mezzo novembre al Comune di Firenze per soccorso di Dc cavalieri: fu loro risposto saviamente come il nostro Comune nonn-era aconcio di travagliarsi tra·lloro reali inn-opera di guerra, ma tramettersi di pace tra·lloro, come cari amici.

CV Di novità e battaglie che·ffu in Roma, ove i Colonnesi furono sconfitti e poi come il tribuno fu cacciato della signoria.

Nel detto anno, all’entrante d’ottobre, ambasciadori del re d’Ungheria vennero a Roma profferendosi al tribuno e popolo di Roma, il quale a grido di popolo il detto re d’Ungheria fu ricevuto a·llega e compagnia del popolo di Roma.

E a dì XX di novembre del detto anno, essendo fatta una congiura e cospirazione per li signori Colonnesi e parte degli Orsini dal Monte loro parenti, per abattere la signoria del tribuno, per cagione che il tribuno con tradimento, essendo venuti a’ suoi comandamenti il prefetto e ’l conte Guido, e ’l fratello, e II figliuoli di Currado, e altri baroni venuti i·lloro compagnia, e data loro desinare, gli fece pigliare e incarcerare con onta e·lloro vergogna. E per avere i detti presi, que’ di Viterbo corsono la terra, e furono tagliate a XII le teste, ch’erano pure de’ maggiori, che a quello tradimento diedono opera col tribuno. Gli amici loro di Roma, Colonnesi e altri, ragunarono molto di segreto, coll’aiuto del legato del papa ch’era a Montefiascone, da DL cavalieri e pedoni assai, ond’erano caporali meser Stefano e Stefanuccio e Gianni Colonna e Giordano di Marino; e di notte giunsono a Roma, e ruppono la porta che va a Santo Lorenzo fuori le mura, per entrare dentro. Sentendosi in Roma la detta venuta, sonando la campana di Campidoglio, il tribuno col popolo furono in arme, chi a cavallo e chi a piè, coll’aiuto di certi degli Orsini di Campo di Fiore e da Ponte, e Giordano da Monte, asalirono vigorosamente i feditori di quelli della Colonna, che·ggià per forza d’arme e con danno d’alquanti del popolo di Roma s’erano pinti dentro alla porta, i quali erano CL a cavallo; ma per lo soperchio de’ Romani d’entro furono ripinti di fuori della porta in isconfitta; e uscendo fuori della terra la gente del tribuno e del popolo, ond’era capitano Cola Orsini e Giordano dal Monte, e per nimistà di suoi consorti e di Colonnesi, cacciandogli, sconfitti quellino ch’erano rimasi di fuori, non ressono, ma si missono in fuga; ove rimasono morti e presi assai. Intra gli altri caporali furono morti VI di casa Colonnesi, ciò furono Stefanuccio e Gianni Colonna suo figliuolo, e il proposto di Marsilia, e Gianni figliuolo d’Agabito, e due altri loro bastardi valentri in arme; onde i Colonnesi ricevettono gran danno e abassamento, e ’l tribuno ne montò in gran pompa e superbia; e mandonne lettera co’ messi e con ulivi significando la sua grande vittoria al nostro Comune, e quello di Perugia e di Siena, e degli altri suoi vicini confidenti. Il quale messo, che venne in Firenze, fu riccamente vestito. E avuta il tribuno la detta vittoria, l’altro dì fece grande processione di tutto il chericato di Roma a Santa Maria Maggiore. E poi a dì XXIIII di novembre, fatta la mostra di sua cavalleria, fece cavaliere il suo figliuolo andando a Sa·Lorenzo, e meser Lorenzo della Vittoria il nominò. In quelli dì, poco apresso, venne in Roma uno vicario del papa. Il tribuno il ricevette per compagno, faccendo un grande parlamento in Campidoglio, e ivi aringando propuose l’autorità: «Legem pone michi, Domine in via giustificazione tuais»; mostrando al popolo di volere ubidire al papa, istando in grande festa e pomposa. Ma poco durò al tribuno la sua vana gloria e felicità, come diremo; che per la sua audace e aspra giustizia avea fatto citare, e poi non vegnendo a’ suoi comandamenti, il conte Paladino d’Altemura di Puglia, il fece sbandire, perché nelle parti di Terracina in Campagna usava, secondo si dicea, ruberie e forze; venne a Roma con CL cavalieri coll’aiuto del capitano del Patrimonio, per opera del legato. E nota che·lla Chiesa al cominciamento al tribuno diè favore, e poi, cui fosse la colpa, fé il contradio. Il detto Paladino si ridusse nella contrada di Colonnesi da Santo Apostolo, e con certi de’ Colonnesi rimasi e co·lloro vicini e amici fece sonare a martello le campane della detta chiesa e dell’altre della forza de’ Colonnesi, e in quelle contrade levò la terra a romore, e ragunò gente assai a’ccavallo e a piè e amici di Colonnesi, e·cciò fu a dì XV di dicembre del detto anno, gridando: «Viva la Colonna, e muoia il tribuno e’ suoi seguaci!». A questo romore le contrade di Roma s’abarraro, ciascuno colle sue forze e fortezze, guardando loro contrade. Il detto Paladino e popolo di Colonnesi vennero a Campidoglio. Il tribuno non fu seguito, come dovea, né dagli Orsini né dal popolo. Il tribuno veggendosi così abandonato, sconosciuto uscì di Campidoglio, e vennesene in Castello Sant’Agnolo, e là nascosamente si dimorò fino alla venuta del re d’Ungheria a Napoli, a·ccui si dice andò per mare sconosciuto in su uno legno. Tale fu la fine della signoria del tribuno di Roma. E nota, lettore, che·lle più volte, quasi sempre, aviene a chi si fa signore o caporale di popoli d’avere sì fatta uscita, però che di veri segni della fortuna è che’ sùbiti avenimenti di felicità e di vettoria e signoria mondana tosto vegnono meno. E bene acade al tribuno il motto che disse in sua rima un savio:

Nessuna signoria mondana dura,

E·lla vana speranza t’ha scoperto

Il fine della fallace ventura.

Lasceremo de’ fatti di Roma alquanto, la quale rimase in più pessimo stato in tutti i casi, che no·lla trovò il tribuno quando prese di quella la signoria, credendola per sua audacia correggerla, essendo in rovina; e diremo come morì il Bavero che·ssi chiamava imperadore.

CVI Come morì Lodovico di Baviera chiamato Bavero, che·ssi tenea d’essere imperadore, e fu eletto a nuovo imperadore Adoardo re d’Inghilterra.

Nel detto anno MCCCXLVII, all’entrante d’ottobre, Lodovico di Baviera, che·ssi chiamava imperadore, essendo alla sua città... e cavalcando... il cavallo gli cadde sotto, e della detta caduta subitamente morìo sanza penitenza, scomunicato e dannato da santa Chiesa; però che·nn’era perseguitore e nimico, come adietro in più parti avemo fatta menzione. Fu sopellito dal figliuolo e da’ suoi baroni a grande onore a guisa d’imperadore nella sua terra di... Il figliuolo, ch’avea nome... ed era marchese di Brandiborgo, uomo prode e valoroso, rimase in Alamagna in grande stato e signoria e ricco. E nota che chi muore in contumacia di santa Chiesa e scomunicato sempre pare che faccia mala fine; e questo si vede palese per antico e per novello. Morto il Bavero, parte delli elettori dello ’mperio, ciò furono per contradio del papa e della Chiesa, perch’avieno fatto eleggere e poi confermato Carlo re di Buem quasi per contrario di più signori e popoli d’Alamagna, vivendo Lodovico detto Bavero, e per dispetto e dilegione della Chiesa, gli Alamanni il chiamavano lo ’mperadore di preti, e piccolo séguito avea in Alamagna, elessono a nuovo imperadore Aduardo terzo re d’Inghilterra, al quale fu mandata la lezione con grandi impromesse di baroni e signori della Magna, per agrandillo, e per dispetto del re di Francia, però ch’avea procacciato col papa la lezione e confermagione di Carlo di Buem. Il quale re Aduardo e ’l suo figliuolo aveano diliberato d’accettare la detta lezione; ma·lla maggior parte de’ baroni d’Inghilterra e’ capi delle Comuni nol consigliavano, e rimase a tanto sospesa la detta elezione etc. Lasceremo alquanto della elezione de’ detti II imperadori, ch’a tempo, quando seguissono i loro processi, torneremo a·cciò; e diremo dell’avenimento inn-Italia del re d’Ungheria, che·nne segue grandi cose e novitadi.

CVII Come ’l re d’Ungheria passò inn-Italia per andare in Puglia.

Lodovico re d’Ungheria non avendo dimenticato la crudele e vituperevole morte fatta in Aversa del suo fratello Andreas, al quale succedea d’essere re di Cicilia e di Puglia, come stesamente raccontammo in uno capitolo adietro, e avendo da’ suoi capitani e genti, i quali avieno per lui rubellata la città dell’Aquila, e al continovo prosperavano felicemente, come in quelli processi adietro è fatta menzione, non si volle più indugiare di venire a fare vendetta, parendogli tempo acettevole a raquistare il regno di Puglia, che di ragione per retaggio del re Carlo Martello suo avolo gli succedea. Bene aventurosamente si partìo di sua terra d’Ungheria a dì III di novembre MCCCXLVII, sabato mattina un’ora o più anzi il sole levante, con da cavalieri o più eletti Ungari, con molti suoi baroni, e con molto tesoro e fiorini contanti da spendere, i quali per abondanza d’oro facea battere in Ungheria contrafatti a’ nostri fiorini d’oro, salvo del nome, che dicieno: «Lodovico re». E lasciò in Ungheria... suo fratello re di Pollonia colla madre e colla moglie, e ordinò ch’al continovo il seguissono gente d’arme, come sofferisse il camino per lo caro ch’era stato l’anno passato, ed era ancora e di là da’ monti e inn Italia. E a dì XXVI di novembre giunse inn-Udine; il quale dal patriarca d’Aquilea fu ricevuto graziosamente. E·llà giugnendo gli ambasciadori del Comune di Vinegia per proffereglisi, i quali isdegnò, e apena gli volle udire tenendosi gravato dal Comune di Vinegia della presa di Giadra fatta per loro contro a suo onore, come contammo adietro. E entrando inn-Italia il detto re d’Ungheria, arrivò a Cittadella, e il signore di Padova gli andò incontro a farli onore, e profferendoglisi con D cavalieri, ma però non volle entrare in Padova, ma entrò in Verona a dì II di dicembre; e da meser Mastino della Scala fu riceuto graziosamente faccendogli grande onore; vi soggiornò alcuno dì. E alla sua partita gli diè CCC de’ suoi cavalieri della migliore gente ch’egli avesse che gli feciono compagnia fino a Napoli. Partito il re di Verona, non volle entrare in Ferrara, ma fece la via da Modona, e·llà giunse dì X di dicembre; e da’ marchesi gli fu in Modona fatto grande onore; e vennevi meser Filippino da Gonzago di signori di Mantova e di Reggio con CL cavalieri, e seguillo infino a Napoli. E partito da Modona, giunse in Bologna a dì XI di dicembre, e dal signore di Bologna fu ricevuto a grande onore, non lasciando spendere né a·llui né a sua gente niuno danaio in Bologna né in suo distretto. Partendosi di Bologna il conte di Romagna che v’era per la Chiesa, no-llo lasciò entrare né inn-Imola né in Faenza, ma ne’ borghi di fuori albergò. E il signore di Forlì gli andò incontro fino in sul contado di Bologna con CC cavalieri e mille fanti a piè in arme, e con grande onore il ricevette in Forlì a dì XIII di dicembre, fornendogli la spesa a·llui e a sua gente, e in Forlì sogiornò III dì con grande festa e carole d’uomini e di donne e di donzelle; e fece cavalieri il signore di Forlì e li suoi figliuoli e poi altri Romagnuoli, e meser Pazzino di Donati nostro cittadino. E partito di Forlì, giunse a Rimino a dì XVI di dicembre, e da meser Malatesta fu ricevuto a grande onore al modo degli altri signori, e più magnamente, e là sogiornò alcuno dì, e di là il seguì il signore di Forlì con CCC cavalieri di sua migliore gente fino a Napoli onoratamente. Partito il detto re da Rimino, faccendo il cammino da Orbino giunse in Fuligno a dì XX di dicembre, il quale da meser Ugolino de’ Trinci che·nn’era signore, fu ricevuto a grande onore, e soggiornòvi da III dì. E·llà venne a·llui il legato del papa cardinale, e ragionò co·llui di più cose delle bisogne del Regno, amunendo il re non facesse crudele vendetta né contra a’ reali divoti di santa Chiesa e innocenti, e che furono solamente due quelli che furono colpevoli, e que’ furono giustiziati. Apresso l’amonìo che contra la signoria di santa Chiesa, di cui era il Regno, non dovesse usare signoria né dominazione sanza l’asento del papa e de’ suoi cardinali sorto pena di scomunicazione; bene che di ciò dicesse che dal papa non avea speziale mandato, ma di questo il consigliava ed amoniva. Al quale i·re rispuose saviamente e con alte parole e franche, dicendo che di sua vendetta non s’avea a tramettere né elli né·lla Chiesa, e dove dicea che furono due, sapea di CC; e che il Regno era suo per giusta successione dell’avolo, e che riavendo la signoria, come intendea d’avere coll’aiuto di Dio, alla Chiesa risponderebbe di quello che dovesse ragionevolemente. La scomunica a torto, se·lli fosse fatta, poco curava, però che Iddio maggiore che ’l papa sapea la sua giusta impresa; questo sapemmo da alcuno di nostri ambasciadori, con cui il legato ne parlò, uomo degno di fede. Lasceremo alquanto della matera degli andamenti del detto re, quando e come entrò nel Regno, e di suoi processi, che·nne faremo assai tosto nuovo capitolo, e diremo inanzi d’una ricca ambasceria che ’l Comune di Firenze mandò al detto re e ’l Comune di Perugia.

CVIII Come il Comune di Firenze mandò una grande ambasceria a·rre d’Ungheria.

Sentendo i Fiorentini la venuta del re d’Ungheria, e come già era a Verona, ordinarono di mandarli una solenne ambasceria; ciò furono gl’infrascritti X grandi popolani, e niuno di grandi, cioè di noboli, per gelosia che’ grandi no·llo ’nformassono in nullo caso contra lo stato del popolo. E in questa parte i rettori, e quelli del loro consiglio che·ll’ebbono a provedere, da’ savi ne furono ripresi, imperò che diedono matera a’ grandi e noboli di sdegno essendo ischiusi degli onori del Comune in sì fatto caso, e da dovere più tosto criare discordia cittadina, e al signore fare amirare. E più chiaro consiglio e migliore per lo Comune era ad avervi mandati tra’ detti ambasciadori almeno tre di noboli buoni uomini e confidenti al popolo; ma quello che pare all’empito del popolo non si può riparare, con tutto che·lle più delle volte sia con mala uscita. I detti ambasciadori furono questi: messer Antonio di Baldinaccio degli Adimari, tutto fosse di più grandi e noboli, per grazia era messo tra ’l popolo, messer Oddo Altoviti giudice, messer Tommaso de’ Corsini giudice, messer Francesco degli Strozzi, messer Simone de’ Peruzzi, messer Andrea delli Oricellai, cavalieri popolani; Antonio degli Albizi, Vanni di Manno di Medici, Gherardo di Chele Bordoni, Pagolo di Boccuccio de’ Capponi; questi III ultimi si feciono fare cavalieri al detto re. Ciascuno di detti ambasciadori per ordine del Comune si vestiro di roba di scarlatto a tre guernimenti federate di vaio. E ciascuno con due o tre compagni vestiti tutti insieme d’un panno divisato molto apparente. E oltre a·cciò ciascuno almeno due donzelli, e·cchi tre, vestiti d’una assisa d’una partita, e co·lloro II cavalieri di corte; onde furono con da C cavalli e bestie, colle some, che non si ricorda a’ nostri dì sì ricca e onorevole ambasciata ch’uscisse di Firenze. E partirsi di Firenze a dì XI di dicembre, e giunsono il re d’Ungheria in Forlì, e·llà gli feciono la riverenza; e da·llui furono ricevuti graziosamente, e simile molto onorati da quelli signori di Romagna. E·re volle a cautela e magnificenza di sé il seguissono infino a Filigno; ma a Rimino gli sponessono loro ambasciata, la quale ambasciata e risposta fu nella forma ch’è ritratta qui apresso per meser Tommaso Corsini, che·nne fu dicitore. E poi giunti a Filigno, pregato il re da’ nostri ambasciadori, di buona voglia fece i sopradetti III delli ambasciadori cavalieri di sua mano con gran festa; e poi il dì apresso si partì di Filigno, e andonne verso l’Aquila, e·lli ambasciadori nostri tornarono in Firenze a dì XI di gennaio.

CIX Ambasciata sposta a Rimino per gli ambasciadori di Firenze al re d’Ungheria mandati, recitata nel cospetto del re e del suo consiglio per meser Tommaso Corsini in gramatica con molti alti latini; fatta volgarizzare per seguire lo stile.

Priegoti che gli occhi tuoi stieno aperti alla mia orazione, la quale oggi dinanzi a·tte farò per tuoi figliuoli e devoti. Le parole predette sono parole di Geremia profeta, le quali si discrivono nel proemio del libro suo.

Serenissimo principe, il quale a tutti l’Italiani siccome splendida e chiara stella gitti razzi, e ’l quale per la chiarezza di te ogni altro lume di splendore diminuisci, siccome aviene alla luna e alle stelle in comperazione a·dDio, nel cospetto del quale la luna non risprende, le stelle non tralucono e immonde sono. La presente orazione, la quale con istupore e paura parlerò per tanta presenzia di così grande re, futura è di grande e alta materia, la quale infino a’ cieli passerà l’onore e·llo stato reale da ogni parte riguardando, per la quale ancora dipenderà lo stato de’ devoti della casa reale, la quale se sarà con soavità d’amore compresa, dolcissimi frutti partorirà e graziosi avenimenti aparecchierà. Questa è orazione, per la quale i Fiorentini veghievoli con animata devozione a’ pregenitori tuoi igualmente e a·tte la tua celsitudine amantissimamente destano, acciò che quella desta, tutte le nebbie passino via, e al tutto venghino meno. Sieno adunque intorno alle parole promesse gli occhi della tua maestà aperti alla mia orazione, acciò che per quello, sì allo stato reale, come allo stato de’ suoi divoti si possa salutevolmente provedere. La presente orazione, acciò che quelle cose che·ssi debbono dire chiaramente si possano vedere, si divide in tre parti: la prima è raccomandatoria e offeritoria, la seconda narratoria e supplicatoria, la terza confutatoria.

Al primo: i priori dell’arti, e gonfaloniere di giustizia, il popolo e ’l Comune della città di Firenze imposono a·nnoi che a’ piè della tua maestà loro e·lla loro città e tutti gli altri divoti d’Italia raccomandare con riverenza dovessimo, e que’ Fiorentini siccome devotissimi, e·lla loro fiorentissima città siccome muro e steccato reale, con quella devozione, con che a’ tuoi pregenitori, siccome a’ padri e benefattori suoi, essere suti fatti la publica fama il manifesta, a·tte come degnissimo capo della tua schiatta pe’ nostri raportamenti ti dobbiamo offerere quelle cose, che con allegro animo raportiamo e narriamo, suplicandoti che·lla reale ecelsitudine la racomandagione e·ll’oferta di tanti tuoi devoti con graziosi effetti degni d’accettare.

Al secondo: quale Fiorentino, se uomo si può dire, per virtude puote esere dimentico della divozione e della benevolenzia tra·lla casa reale e’ tuoi pregenitori e ’l Comune di Firenze da lunghi tempi congiunta, e con graziosi effetti e diversi avenimenti per successione di tempo aprovata? A·tte ancora, amantissimo principe, si conviene di questa benivolenza de’ tuoi pregenitori, e della nostra devozione, almeno per udita e per notoria fama, la quale questo nell’universo mondo grida esere manifesta. Noi ancora della circuspezione reale, e ancora del circulato de’ cavalieri di quella, è convenevole de’ lor fatti rinovare memoria, acciò che non periscano per lo passamento del passato tempo quelle cose che hanno meritato in perpetuo avere vigore. Se adunque con attento animo rivolgerai le cose fatte magnifiche e benifici della prechiara memoria del cristianissimo principe re Carlo trisavolo tuo, or none i Fiorentini guelfi, della città di Firenze cacciati, colla sua potenzia e con armata mano in quella città groriosamente rimise? Se del secondo re Carlo bisavolo tuo le cose fatte rivolgerai, partissi elli dall’opere del padre suo? Certo no. Ma con quello proveduto e favorevole seguire lui seguitando, molti beni a’ Fiorentini fece. Se del sapientissimo de’ savi re Ruberto tuo zio, il quale fu specchio non corrotto di tutti i re (avegna che per generazione Ruberto, e per unzione re Ruberto fosse nomato, per la smisurata e non udita sapienza, per una regenerazione dovrebbe esere apellato novello Salamone), i suoi fatti rivolgerai, partissi elli dalle vie de’ suoi pregenitori? Or none. Quando della degnità ducale usava ad istanza di Fiorentini a strignere e vincere la città di Pistoia, con risprendevole compagnia di cavalieri personalmente venne. E poi venuto a dignità reale partissi elli dalle cose incominciate? O innumerevoli benifici a quelli Fiorentini fece, in tanto che in caso del bisogno al suo unigenito figliuolo non perdonasse? Che se rivolgerai le cose fatte da meser Filippo prencipe di Taranto, che se di meser Piero suo fratello grandi tuoi zii, che se di meser Carlo figliuolo del detto meser lo prencipe di Taranto consubrino tuo le cose fatte ripensi, none i due ultimi moriro nel piano da Montecatini vincendo i nimici, e il loro sangue battaglievolmente fu sparto, il quale sangue ancora della terra crudelmente grida? Qua’ lingua, quantunque eloquente, tante cose potrà narrare? Certo, meglio sotto silenzio è passare che più parlarne, con ciò sia cosa che per silenzio a dirittamente raguardanti più e maggiori cose si deano a ’ntendere. Adunque, acciò che’ detti benifici non paiano dimenticati, la nostra intenzione è questa eziandio, se de’ fanciulli infanti domandi, i figliuoli, le ricchezze, la vita e·ll’essere ricognosciamo essere proceduta de’ detti tuoi pregenitori. Ma·sse adomandi quello che abbiamo fatto a questi tuoi pregenitori, se·llicito è de’ fatti benifici racordare, che feciono i Fiorentini contra lo scomunicato re Manfredi? Che contro a Curradino? Che contro allo ’mperadore Arrigo? Che contro al Bavero dannato? A’ quali i detti Fiorentini contastanti, per conservare la casa reale, con gran potenza si fecero. L’altre cose sotto silenzio passiamo, sotto il quale silenzio la reale circuspezione eziandio più e maggiori cose comprenderà. Le quali sono ancora più vere che·lle suddette, in tanto che·nnoi non siamo solamente de’ tuoi pregenitori e di te figliuoli d’adozzione, ma più tosto congiunti di vera natura. Re adunque gloriosissimo, chi potrà sì fatta congiunzione e devozione individua spartire? Chi·lla potrà divellere o maculare o turbare? Certo, niuno. Per le dette adunque cose la preghiera nostra è questa, reverendissima corona, che·tti preghiamo che gli occhi della tua celsitudine a·nnoi e agli altri devoti d’Italia benignamente converti, acciò che sempre nel cuore reale sia legame indissolubile di benivoglienza e d’amore, e quello non abandoni, ma in te per uno ordine di successione si palesi quella divozione ed amore indissolubole radicata ne’ cuori de’ Fiorentini a·tte siccome a padre e benifattore nostro pe’ nostri e delle dette comunità preghieri ci offeriamo, com’è detto.

A l’ultimo: avegna Idio, amantissimo prencipe, che·lla maestà reale la circunvenzione degli emuli e·lle sforzate macchinazioni a suo podere con somma provedenza scacci, neentemeno la faccia di detti invidiatori, che con tante arti con tanti colori adornati con somma ragione noi proveduti e cauti ci rende, e ancora ci strigne la maestà reale di queste cose informare, e ancora più attentamente pregare, acciò che nelle vie de’ suoi pregenitori fermamente perseveranti li sforzamenti di quelli emuli, siccome contagioso morbo, con sottile ingegno di lungi da·ssé cacci e distrugga. Per la qual cosa l’astuzia de’ detti emuli diverrà vana e non potrà prevalere, ma come il fieno subitamente si secchi, e·ll’amore nostro e degli altri della casa reale devoti crescerà e sarà immutabile. Dio altissimo benedicenti e lodanti, e sanza fine dicenti: «Benedetto che venne nel nome del Signore».

CX Risposta fatta in presenzia della maiestà reale ivi per lo venerabile uomo messer Giovanni, cherico di Visprimiense, a·ccui il re la risposta commisse.

«L’ambasciata del Comune di Firenze così solennemente e ordinatamente esposta messere lo re volentieri ha udita, e·lle cose fatte de’ suoi pregenitori, ella benivolenza, la quale al Comune di Firenze, a’ Fiorentini e a quella città, i pregenitori suoi sempre hanno avuto, e·lla congiunzione che sempre fu intra·lloro e col Comune predetto, con grazioso animo ha acettato, offerendosi ancora quella sempre servare, e·lle vie de’ suoi pregenitori sempre sequitare».

E mentre che ’l detto eletto questa risposta facea, il re gli s’acostò all’orecchio manco, e in silenzio a·llui parlò, il quale eletto incontanente disse: «Il nostro signore dice ch’elli intende i Guelfi d’Italia sempre avere raccomandati».

Poscia che giunti fummo a Filigno, e quivi furono gli onorevoli ambasciadori del Comune di Perugia, e avuta tra·nnoi e·lloro collazione e diliberagione, in prima co·lloro ci rapresentammo dinanzi al cospetto reale, e quelle cose in diversi sermoni spartitamente e per loro e per noi alla maestà reale furono recitate, le quali erano inn-effetto una medesima cosa, in comune sermone recate per lo detto meser Tommaso di comune concordia dell’uno e dell’altro Comune furono sposte. Il quale, oltre alle predette, lo stato e·lla libertà de’ detti Comuni e degli altri di Toscana e di tutta Italia, divoti della casa reale e de’ suoi pregenitori, alla escelsitudine reale raccomandò. Il re udite le predette cose, tutte graziosamente accettò, e offersesi di fare tutte quelle cose che nella detta pitizione erano pienamente narrate e che il Comune di Firenze, e quello di Perugia, e di Siena, gli rimandassono per comune due o tre di loro ambasciadori savi e discreti, i quali voleva nel Regno intorno a·llui per suo consiglio; e a’ detti ambasciadori diede graziosamente congio di tornare a Firenze. I nostri ambasciadori partiti di Filigno, vennero a Perugia, e quivi sogiornarono alquanti dì a parlamentare col legato cardinale, e co’ rettori di Perugia e cogli altri ambasciadori de’ Comuni ch’erano stati a·rre d’Ungheria, dello stato di Toscana e del paese intorno in benificio di parte guelfa e della Chiesa, per la venuta del detto re d’Ungheria e dello imperadore Carlo suo suocero, che parea loro che ’l detto re avesse presa troppa famigliarità co’ tiranni e signori di Lombardia e di Romagna e della Marca di parte ghibellina. Il quale legato consigliò i detti Comuni che mandassono loro ambasciadori al papa a pregarlo s’intraponesse, che·llo imperadore Carlo non passasse, acciò che·lla parte imperiale non crescesse collo apoggio e favore della potenza de·rre d’Ungheria suo genero, e che·cciò piacerebbe al papa e a’ cardinali, e ch’elli ne sapea bene l’oppinione suo segreto, e s’elli l’avea creato e fatto, era per contrario del dannato Bavero, vivendo; ma dapoi ch’era morto, non facea per la Chiesa che·lla signoria del detto Carlo, colla potenza del re d’Ungheria signoreggiando il Regno, crescesse in Italia: questo segreto sapemmo da alcuno di nostri ambasciadori. E nota, lettore, l’essempri de’ rettori di santa Chiesa, di fare e di volere disfare la signoria dello ’mperio a·ssuo utile e beneplacito; e questo basti.

CXI Come il re d’Ungheria entrò nel Regno, ed ebbe la signoria a queto e sanza contasto.

Sogiornando in Filigno il re d’Ungheria II dì con grande festa, e fatti cavalieri i detti di nostri ambasciadori, come detto avemo, e fatti cavalieri più altri e di Perugia e di Filigno e della Marca e del Ducato, e poi si partì di Filigno a dì XXII di dicembre, e giunse all’Aquila la vilia di Natale, e là fece la festa, e vennevi all’Aquila a·rre il conte di Celano, e ’l conte di Loreto, e ’l conte di San Valentino, e Nepoleone d’Orso, e più altri conti e baroni d’Abruzzi, e feciono l’omaggio e fedaltà al detto re; poi si partì dall’Aquila, fatta la festa di Natale, e andonne col conte di Celano a Castello Vecchio sua terra. E a dì XXVII di dicembre entrò il re in Sermona, e da’ Sermontini fu ricevuto onoratamente come loro signore; e partito di Sermona n’andò a Castello di Sanguine e poi a Sarno, e di là n’andò a Bruzzano; e ivi presso a tre miglia avea due castelletta, dov’erano meser Niccola Caraccioli e meser Agnolo di Napoli, i quali feciono alcuna risistenza, onde furono combattuti dalla gente del re, e per forza vinti e tutti rubati, e poi arsi; e’ detti II cavalieri napoletani presi con più altri.

E sappiendo il re che a Capova era messer Luigi e gli altri reali co·lloro sforzo di gente d’arme, non si volle mettere al contasto di quella gente né del passo del fiume del Voltorno, che·llà è molto grosso e profondo, e però fece la via che fece anticamente il re Carlo vecchio per la contea d’Alifi da Marcone, e poi arrivò a Benevento a dì XI di gennaio; e giugnendovi la sua gente, que’ di Benevento per tema d’esere rubati, ch’assai danno avea sua gente di ratto fatto per cammino, e però serrarono le porte. Ma quando vidono la persona del re, s’asicurarono, e·ll’apersono. E venuto il re in Benevento, vi sogiornò da VI dì, e·llà venne tutta la sua gente dall’Aquila e ch’erano stati a Tiano; e in quello paese, e con suoi Ungari e con Lombardi e Romagnuoli, ch’erano venuti al suo servigio, si trovò in Benevento con più di VIm cavalieri e popolo infinito; e·llà vennero tutti i baroni del paese a farli reverenza e omaggio. E vennevi una grande ambasceria da Napoli, a profferelli la terra, come a·lloro signore. Sentendo i reali e gli altri baroni ch’erano a Capova con meser Luigi che il re era a Benevento, e prosperava felicemente e sanza contasto, si partirono co·lloro gente, e andarono a Napoli, abandonando meser Luigi, e lasciandolo con poca compagnia, e ordinaro di venire al re a farli reverenza, come s’apressasse a Napoli. Lo re si partì di Benevento a dì XVI di gennaio, e venne a Mattalona, e nella sua partita que’ da Benevento s’armaro, e azzuffarsi co’ malandrini che seguivano l’oste del re e rubavano dove poteano, ed ebbevi de’ morti assai d’una parte e d’altra, e fu arso parte d’un borgo di Benevento.

La reina Giovanna, che·ss’era ridotta e aforzata nel castello di Napoli, sentendo che ’l re venia con tanta forza verso Napoli, nascostamente e di notte, a dì XV di gennaio, si partì del castello con sua privata famiglia e con quello tesoro che potéo trarre del castello, che poco ve n’era rimaso, si·nn’era fatta mala guardia dopo la morte del re Ruberto, e per la via di Piedigrotta si ricolse la reina in su tre galee armate di Provenzali, ch’ella avea fatte stare in concio, e fecesi porre a Nizza in Proenza a dì XX di gennaio; come fece in Proenza diremo poi assai tosto in altro capitolo. Messer Luigi sentendo come la reina s’era partita di Napoli, e ’l re d’Ungheria prosperava felicemente, di notte con meser Niccola Acciaiuoli suo fidato compagno e consigliere, parendo loro male stare, e veggendosi abandonato dagli altri reali e baroni, si partirono di Capova, e vennero a Napoli. E non trovandovi galea armata, con grande fretta e paura si ricolsono co·lloro privata famiglia su un panfilo, non potendo avere galea di cui si fidassono; e con quello, con grande pena e misagio, arrivarono a Porto Ercole in Maremma, e·llà scesono a dì XX di gennaio, e vennero a Siena a dì XXIIII di gennaio privatamente; e poi nel contado di Firenze vennero, e·llà sogiornarono alquanto, come in altro capitolo diremo più steso, tornando a dire de’ processi del re d’Ungheria, e della morte del duca di Durazzo e della presa degli altri reali.

CXII Come il re d’Ungheria fece morire il duca di Durazzo, e fece pigliare gli altri reali, e come entrò in Napoli.

Partito il re d’Ungheria di Benevento, fece la via da Matalona, e giunse in Aversa a dì XVII di gennaio. Que’ d’Aversa ebbono gran paura, perché si dicea che ’l re la farebbe distruggere, perché v’era morto il re Andreas suo fratello, e nascosono e sotterrarono tutto loro tesoro e cose care; ma il re ordinò un suo vicaro chiamato fra Moriale con suoi Ungari in arme alla guardia della terra, e fare giustizia di rubatori e malandrini, ch’assai ne seguivano suo oste. E inn-Aversa soggiornò il re da VI dì, dimorando nel castello reale d’Aversa. E·llà vi vennero più di mille gentili uomini di Napoli a vedere il re, e vennevi il conte di Fondi, nipote che·ffu di papa Bonifazio, di Campagna, con D cavalieri al suo servigio; e più altri baroni del paese vi vennero a farli omaggio. Vennervi i reali, ciò furono il prenze di Taranto, nominato Ruberto, con Filippo suo minore fratello; che meser Luigi, come avemo detto, s’era fuggito da Napoli. E vennevi Carlo duca di Durazzo, e meser Luigi e Ruberto suoi fratelli, e figliuoli che furono di meser Gianni prenza della Morea. E venne co·lloro Giovannone di Cantelmo, e Giufredi conte di Squillaci amiraglio del Regno con molti altri baroni e cavalieri (avendo il re data loro fidanza, con patto che non fossono stati colpevoli della morte del fratello), e giunti al re al castello d’Aversa, gli feciono omaggio; e tutti gli baciò in bocca e diè loro desinare; e·cciò fu dì XXIII di gennaio. E dopo mangiare il re fece armare tutta sua gente, ed elli medesimo s’armò, e mossesi per venire a Napoli, e’ reali disarmati cogli altri baroni intorno di lui faccendogli compagnia. E come furono a cavallo, il re disse al duca di Durazzo: «Menatemi ove fu morto Andreas mio fratello». Il duca disse: «Non ve ne travagliate, ch’io non vi fu’ mai», credendolo levare dall’oppenione, e già temendo per li crudi sembianti de·rre. Il re disse vi pure voleva andare a vedere; e giunti al monistero di frati di Maiella, smontò da cavallo, e saliro in sulla sala e al gueffo, cioè sporto sopra il giardino, ove il re Andreas fu gittato strangolato e morto. Allora il re si volse al duca di Durazzo, e dissegli: «Tu fosti traditore e adoperatore della morte del tuo signore e mio fratello e adoperasti in corte col tuo zio cardinale di Peragorga, che a tua pitizione s’indugiò e non si fece, come dovea, per lo papa la sua coronazione. Lo quale indugio fu cagione della sua morte, e con frode e inganno ti facesti dispensare al papa di torre per moglie la tua cugina sua cognata, acciò che·llui morto e·lla reina Giovanna sua moglie, tu succedessi ad esere re; e·sse’ stato in arme contro alla nostra potenza col traditore meser Luigi di Taranto tuo cugino, e nostro ribello e nimico, il quale ha fatto come tu, con frode e sagrilegio sposata quella rea femmina e adultera e traditrice del suo signore e marito, Giovanna moglie che·ffu d’Andreas nostro fratello. E però e’ conviene che·ttu muoia ove facesti morire lui». Il duca di Durazzo si volea scusare non colpevole, e domandò al re misericordia. Lo re gli disse: «Come ti puo’ tu scusare?», mostrandogli lettere con suo suggello ch’elli avea mandate a Carlo d’Artugio del trattato della morte d’Andreas. E incontanente, come avea ordinato, il fedì nel petto, che non avea arme, uno meser Filippo ungaro, e poi lo prese uno per li capelli; e ’l detto meser Filippo gli tagliò la gola, non però afatto il collo, ma de’ detti colpi morì di presente. E da certi Ungari che gli erano d’intorno fu preso e gittato da quello verone nel giardino ove fu gittato Andreas, e comandò nogli fosse data sepoltura sanza sua licenzia. E·cciò fatto, com’era ordinato, gli altri IIII nominati reali furono presi e messi in buona guardia di cavalieri ungari nel castello d’Aversa; e di certo si disse, e crede, che s’elli avesse preso co·lloro meser Luigi e·lla reina, tutti gli avrebbe fatti morire co·llui. E loro presi, tutti i loro cavalli e arnesi furono rubati, e simile i loro ostelli di Napoli, salvo quello del prenze di Taranto. E·lla moglie del duca di Durazzo, ch’era in Napoli, di notte, mal vestita e peggio in arnese, con due sue piccole fanciulle in braccio, si fuggì nel munistero di Santa Croce, e poi di là nascosamente vestita in abito di frate, e con poca compagnia, arrivò a Montefiascone al legato; e poi isconosciuta se n’andò verso Francia. Tale fu la fine del duca di Durazzo, e·lla presura degli altri reali, e scacciamento di loro donne e di loro famiglie. Per molti se ne fece quistione, opponendo al re tradimento del suo sangue, avendogli fidati e baciati in bocca, e caritevolemente mangiato co·lloro, e poi fatto morire il duca di Durazzo, e gli altri reali innocenti presi. Altri dissono che non era tradimento a tradire il traditore, se colpa v’ebbe, come gli oppose. Ma per li savi si giudicò che questa crudeltà e quello ne seguì di male fu dispensato e premesso da·dDio per li ladii peccati comessi nello re Andreas, ch’era giovane e innocente, che per lo peccato della invidia e covidigia della signoria sua con superbia fu commesso tradimento con iscellerato paricida di loro signore, e ancora ci fu il laido e abominevole peccato per cagione d’avolterio e sacrilegio tra congiunti, come avemo adietro fatta menzione, che·ffu cagione della morte di quello innocente. E già la vendetta d’Iddio non passa sanza penitenzia e meriti di sì innormi peccati. La presura degli altri reali fece più per sua sicurtà, che per colpa ch’avessono, se non d’essere in arme a Capova contra a·llui.

Lo re d’Ungheria quello medesimo dì, dì XXIIII di gennaio, con sua gente armati ed elli medesimo armato colla barbuta in testa, con una sopravesta indosso di sciamito porporino ivi su i gigli di perle seminati, entrò in Napoli, e non volle palio sopra capo né altra pompa, com’era aparecchiato per lui dalli Napoletani di fare. E smontò a Castello Nuovo, e intese a riformare la terra e il reame, faccendo nuovi dicreti e nuove inquisizioni della morte di suo fratello, e rinovando ufici e signoraggi, e togliendogli a·cchi trovò colpevoli, e dandoli a chi l’avea servito, che sarebbe lunga mena a dire. I Napoletani i più erano tristi e in paura, sì per le grascie degli ufici del Regno e vantaggi ch’avieno da’ reali; e allora furono mutati e tolti essi per la morte del duca; che, come dice Seneca, chi a uno offende molti ne minaccia. Ivi a pochi dì mandò il re a Castello dell’Uovo per lo fanciullo si dicea rimaso dello re Andreas, nominato Carlo Martello, e videlo graziosamente, e fecelo duca di Calavra. E con buona compagnia di cameriere e di balie che ’l nodrivano e governavano, inn-una bara cavallereccia nobilemente a dì II di febraio il mandò ad Aversa, e di là, cogli altri reali che v’erano presi, con buona guardia d’Ungari il mandò ad Ortona, e di là per mare passarono inn Ischiavonia, e di là in Ungheria. Avendo assai larga prigione, con buona guardia si riposano co·lloro vergogna in Ungheria, e con poco onore, e meno da spendere. E così si muta la fortuna di questo secolo in poco tempo, altrui par essere in maggiore stato.

CXIII Come di soldati stati al servigio del re d’Ungheria e di quelli stati con messere Luigi di Taranto si fece una gran compagnia.

Riformato il re d’Ungheria la sua signoria in Napoli, e mandati i reali suoi congiunti in Ungheria, trovò che uno duca Guernieri tedesco stato al suo soldo, e capitano di sua gente dall’Aquila, il dovea tradire per danari a petizione del re Luigi e della reina; della quale tradigione apellò, e vollesi combattere in campo contra uno signore tedesco che·ll’avea accusato; ma·llo re saviamente procedette di non volere loro quistioni. Ma ’l detto duca e gli altri soldati che·ll’aveano servito pagò cortesemente, e fece giurare loro di non prendere soldo dalla Chiesa di Roma né dalla reina, né da meser Luigi, né da nullo suo nimico né contrario, né da meser Luchino Visconti di Milano, né di non essere contra·llui né suoi amici, spezialmente contro a’ Fiorentini, Perugini, e Sanesi; e diede loro congio, ch’uscissono del Regno cogli altri soldati ch’erano stati al soldo della reina e di meser Luigi. E feciono una compagna, onde fu capitano il detto duca Guernieri, e furono intorno di IIIm cavalieri, e vennersene in Campagna nelle contrade di Terracina vivendo di ratto. E partita del Regno la detta compagna, se n’andò il re in Puglia in pellegrinaggio al Monte Santo Agnolo e San Nicolò di Bari, e per sagire i baroni e paese di Puglia alla sua signoria, e per cessare la pistolenza della mortalità, che già era cominciata a Napoli grandissima; e ’nanzi si partisse di Napoli mandò al Comune di Firenze e a quello di Perugia e a quello di Siena per suo messo a·ccavallo la ’nfrascritta lettera, la quale facemmo volgarizzare a verbo, ch’era in latino; e il messo che mandò fu vestito nobilemente, e donatoli cavallo e danari dal nostro Comune, e dagli altri.

CXIV La lettera che mandò il re d’Ungheria al Comune di Firenze.

«A’ nobili e potenti signori priori, e consiglio e Comune della città di Firenze, amici nostri carissimi e diletti, Lodovico per la Dio grazia re d’Ungheria, di Ierusalemme, e di Cicilia. Imperò che, favorandoci la divina potenza e grazia, noi tegniamo libero e intero tutto il regno di Cicilia di qua dal Faro, a noi già lungo tempo per debito di ragione conceduta, siccome la evidenza del fatto a tutto il mondo fa manifesto e dichiara, noi ad alcuni soldati a cavallo, del servigio de’ quali noi al presente non abisognamo, con sodisfazione piena e intera prima a·lloro fatta, facemmo dare licenza, intra’ quali il duca Guernieri con certi suoi seguaci fu l’uno, dal quale corporal giuramento alle sante Idio Vangele ricevemmo con lettere della sua promessione fatte alla nostra eccellenza, che contra alla maestà nostra, o contra alcuni diletti nostri o fedeli, e spezialmente e nominatamente contra a voi, overo la vostra comunità o città o distretto vostro, niuna cospirazione farà lega, overo compagnia, pel protesto, da casione, della quale noi o voi, o qualunque altri nostri diletti o fedeli, potessimo essere dannificati, molestati o perturbati inn-alcuno modo. Ma imperò che niuna fede e niuna pietà è in coloro che seguitano le battaglie, e il detto duca Guernieri hae altre volte molte pericolose cose, sotto protesto di compagnia, ausate di fare, e però alla dilezione e carissima amistà vostra con chiara effezione vi rechiamo a memoria, acciò che con diligente cura e sollecitudine veghiate, acciò che alcuna malvagia concezione o rea effezione di quelli soldati non potesse a voi generare alcuno nocimento. E se avenisse che per l’aversità di detti soldati o d’altri nostri invidiatori contra voi o·lla vostra città in alcuna nocevole cosa volesse mandare fuori suo veleno, infino ad ora siamo pronti con tutto il nostro podere a voi dare il nostro aiuto e consiglio opportuno, acciò che·lla sincerità dell’amore, il quale tra’ generitori nostri e voi già lungo tempo fu ed è indisolubile, insieme con noi perseveri e continuamente s’acresca e·lli rei de’ suoi malivoli propositi e innique operazioni confusione patiscano, e pene sempiterne. Data in Napoli nel nostro castello, dì VIIII del mese di febraio, prima indizione».

E nota, lettore, come felicemente e prosperamente il re d’Ungheria passò inn-Italia sanza alcuno contasto, ma fattoli grande onore e reverenza, e datoli aiuto di cavalieri da tutti i signori e Comuni guelfi e ghibellini che trovò per camino; che·ffu tenuta gran cosa, e quasi maravigliosa, che in LXXX dì che si partì di suo paese, fece in gran parte la vendetta del suo fratello Andreas, ed ebbe a queto il regno di Puglia, per lo piacere di Dio, sanza contasto o battaglia; che per li più si stimò che se meser Luigi e gli altri baroni e reali del Regno ch’erano ragunati a Capova fossono stati d’accordo e messosi al contasto, mai non avea la signoria. Ma a·ccui Iddio vuole male per le peccata gli toglie il podere e·lla concordia. E ’l Cresiastico dice: «Il regno si trasporta di gente in gente per le ingiustizie e ingiurie e contumelie e diversi inganni etc.»; e così pare manifestamente che per giudicio d’Iddio avenisse a’ reali del regno di Puglia, e desse prosperità al re d’Ungheria. Ben si disse per alcuno astrolago che venne co·llui d’Ungheria ch’elli si partì di sua terra, come dicemmo adietro, a dì III di novembre la mattina, e prese l’ascendente di sua mossa onde fece la figura che disegneremo qui apresso e come si può vedere.

Il suo ascendente pare che fosse il segno dello Scorpione a gradi VIIII e·llo suo signore pianeta, cioè Marti, il qual era nella X casa, che·ssi dice casa reale, e nella faccia di Giovi e termine di Venus fortunati, e nel segno del Leone sua tripicità, e atribuito al paese d’Italia, e con capud Dragonis fortunato e forte, ch’assai chiaro mostrò in parte quello che·lli avenne in suo avenimento. L’altre significazioni e suo fine giudichi chi è dell’arte d’astrologia maestro. Ma noti che quando il re entrò nel Regno, ciò fu a dì XXIIII di dicembre, il suo pianeto Marti cominciò a retrogradare; e quando entrò in Napoli ed ebbe la dominazione, dì XXIII di gennaio, era retrogradato. Lasceremo di questa matera, che non era di necessità al nostro trattato; ma per dare alcuno diletto a’cchi della scienzia s’intende il ci misi. Ancora lasceremo di processi del re d’Ungaria, e diremo come la reina Giovanna e meser Luigi ella prenzessa di Taranto arivarono in Proenza.

CXV Come mesere Luigi di Taranto e·lla reina Giovanna arrivarono in Proenza.

Come in breve dicemmo adietro, quella che·ssi facea chiamare la reina Giovanna, moglie che·ffu del re Andreas, arrivò a Nizza in Proenza a dì XX di gennaio con tre galee, e in sua compagnia meser Maruccio Caraccioli di Napoli, cui ella avea fatto conte camarlingo, e di sua compagnia colla reina si parlava infama di male e di sospetto. Come presono porto a Nizza, se n’andaro ad Acchisi; e·lloro giunti inn Acchisi, il conte d’Avellino de’ signori del Balzo e il signore di Salto con altri maggiori baroni di Provenza furono alla detta reina, e di presente feciono pigliare il detto meser Maruccio con VI suoi compagni, e mettere nella pregione di Nuva. La reina con cortese guardia menaro a Castello Arnaldo, e nullo le potea parlare in segreto sanza la presenza de’ detti baroni di Provenza; però ch’erano entrati in sospetto e gelosia, ch’ella non facesse scambio della contea di Provenza a un’altra contea di Francia con meser Gianni figliuolo del re di Francia e suo cugino, il quale in quelli giorni era venuto al papa a Vignone col conte d’Armignacca, e statone in trattato col papa, onde i Provenzali s’erano molto iscandalezzati, non volendo esere sottoposti al re di Francia, e quasi voluto fare rubellazione di Proenza col Dalfino di Vienna per la detta cagione, e a petizione del re d’Ungheria; per la qual cosa il papa temendone ne rimandò mesere Gianni in Francia, e contentollo di molti danari; dissesi di fiorini CCm contanti e·lle decime del reame di Francia per V anni a venire a pagare in due, che sono grandissimo tesoro. E così si dispensa il tesoro della Chiesa per lo conquisto della Terrasanta, overo etc.

Messer Luigi di Taranto co·mmeser Niccola Acciaiuoli di Firenze suo fidato compagno venuti a Siena, messer Niccola volendolo menare in Firenze (e già l’avea condotto nel nostro contado in Valdipesa), sentendosi ciò per li priori e gli altri rettori di Firenze, dubitando che·lla sua venuta non generasse scandalo tra’ cittadini e indegnazione del re d’Ungheria, ritenendolo in Firenze, di presente mandarono loro incontro due grandi popolari per ambasciadori, difendendo loro non entrassono nella città, ma seguissono loro cammino; e stando co·lloro al continovo, acciò che nullo altro cittadino andasse loro a parlare; e così dimorarono in Valdipesa a’ luoghi degli Acciaiuoli per X dì, che nullo cittadino v’andò, se non il vescovo di Firenze, ch’era degli Acciaiuoli, e volea, e andò co·lloro a corte di papa. Di questa venuta di meser Luigi ebbe grande mormorio tra’ cittadini, che parte di Guelfi ch’amavano i reali, e ricordavansi de’ servigi ricevuti dal prenze di Taranto suo padre, e come meser Carlo suo fratello rimase morto in servigio del nostro Comune con meser Piero suo zio insieme alla sconfitta di Montecatini, l’avessono volentieri ricevuto in Firenze e fattogli grandissimo onore. Ma i rettori, temendo di non dispiacere al re d’Ungheria, tennero il modo detto, e per li savi fu lodato per lo migliore del Comune.

I detti non potendo venire a Firenze, avendo mandato a Genova a·ffare conducere e armare a·lloro amici due galee, e per la Via da Volterra n’andarono, e ’l vescovo co·lloro a Porto Pisano; e·llà si ricolsono a dì XI di febraio; e giunti in Proenza, e sentendo lo stato della reina Giovanna, non s’ardiro di porre né a Nizza né a Marsilia, anzi arrivaro all’Agua Morta, e di là a Belcaro nelle terre del re di Francia, e poi contro a Vignone di là dal Rodano. E ’l vescovo e messer Niccola vennono in Vignone al papa e tanto adoperaro co·llui che la reina Giovanna fu dilibera di Castello Arnaldo, e entrò in Vignone con palio sopra capo, e tutti i cardinali le vennono incontro a cavallo, ricevendola a grande onore, a dì XV di marzo. E meser Luigi venne al papa, e in quello dì riconfermò il papa il disonesto matrimonio da meser Luigi alla detta reina Giovanna. E ancora di questo fu il papa molto caloniato da più Cristiani che ’l seppono. E poi a dì XXVII di marzo il papa diede la rosa dell’oro al detto meser Luigi, essendo in Vignone il re di Maiolica; e poi cavalcò per Vignone con pennone sopra capo a guisa di re, e·lla reina co·llui; si tornarono poi di là da·rRodano, e ’l papa diè loro III cardinali a udire la quistione da·lloro al re d’Ungheria, ch’erano in corte suoi ambasciadori. Lasceremo ora questa matera, e diremo d’altri signori e donne che in questi dì passarono per Firenze.

A dì XXVII di febraio meser Filippino da Gonzago di signori di Mantova, tornando con sua gente d’arme dal re d’Ungheria, che·ll’avea acompagnato fino a Napoli, passò per Firenze e·ffu ricevuto a grande onore, e acompagnato da’ rettori e da più cittadini. E di ciò fu ancora grande mormorio per li Guelfi di Firenze, dicendo: «I nostri rettori ricevono in Firenze e fanno onore a’ tiranni ghibellini che·cci sono stati incontro co’ nostri nimici, e non voluto ricevere meser Luigi», come detto è di sopra: ma pur fu preso il migliore e lodato per li savi, e però n’avemo fatta memoria per asempro per l’avenire.

E a dì X di marzo passò per Firenze la moglie del prenze di Taranto, che·ssi facea sopranomare imperadrice di Gostantinopoli sanza lo ’mperio; era figliuola del duca di Bolbona, figliuolo che·ffu di Chiermonte della casa di Francia; la quale poi che ’l marito cogli altri reali era mandato preso inn-Ungheria, se n’andava in Francia. Fulle in Firenze fatto grande onore d’acompagnarla di cavalieri e di donne, e albergalla in casa Peruzzi, faccendole il Comune le spese riccamente; due dì ci dimorò, e per lo cammino andando e vegnendo, per lo contado e distretto di Firenze. E ’l Comune le fece lettere al papa, pregandolo, e racomandandogliele, s’adoperasse col re d’Ungheria della diliberazione del suo marito e degli altri innocenti reali. Lasceremo alquanto delle sequele occorse per l’avenimento del re d’Ungheria, ch’assai n’avemo detto, e torneremo a dire d’altre novità state in Firenze e altrove in questi tempi.

CXVI Quando si cominciò il muro da San Ghirigoro inn-Arno, che richiude le due pile del ponte Rubaconte.

In questo anno MCCCXLVII si cominciò a fondare inn-Arno di costa a San Ghirigoro un grosso muro con pali a castello, e presono due pile e due arcora del ponte Rubaconte di là da l’Arno andando diritto verso levante infino alla coscia del ponte Reale, che·ss’ordinò di fare. E di qua dal ponte più tempo dinanzi s’era cominciato similemente uno muro, prendendo una pila e arco del detto ponte, andando fino al castello Altrafonte. Questi muri s’ordinaro per conducere l’Arno dentro alla città per diritto canale e acrescerne terreno alla città, spezialmente verso San Niccolò, ed era la città più forte, più bella avendo il riguardo e parapetto del muro a modo di pila, sicché l’ordine e ’l lavorio de’ detti muri fu bene proveduto, faccendosi una agiunta, ch’è di nicistà, cioè di fare un muro cominciandolo di qua dal fiume d’Arno alla coscia del ponte Reale, e continuandolo verso levante infino alle mulina di San Salvi; allargando la bocca ed entrata del fiume d’Arno, acciò che crescendo l’Arno, non venisse di sopra a’ fossi e mura di qua alla porta della Croce o più oltre, come avenne l’anno MCCCXXXIII al tempo del diluvio: e sarebbene la terra più forte e più bella, e raquisterebbesi terreno, che varrebbe più non costerebbe il muro, il quale si farà, quando a quelli reggono la città piacerà loro.

CXVII Come i Bostoli furo cacciati d’Arezzo.

Nel detto anno, all’uscita d’ottobre, quelli della casa de’ Bostoli a romore di popolo furono cacciati d’Arezzo per forze e tirannie che facieno a’ cittadini popolari di quella; e bene che inn-Arezzo fossono capo di parte guelfa, egli erano isconoscenti e ingrati, spezialmente contro al nostro Comune di Firenze; che quando erano fuori d’Arezzo cogli altri Guelfi, erano sostenuti al soldo del nostro Comune, e fatta per loro la guerra contro a’ Tarlati; e poi per lo nostro Comune rimessi in Arezzo in grande stato e signoria. Ed ellino per loro superbia peggio trattavano i nostri rettori e cittadini che v’erano per lo Comune di Firenze, e del continovo puttaneggiavano col Comune di Perugia, per diminuire la signoria del Comune di Firenze, per meglio potere tiranneggiare. Ma a·cciò non guardò il nostro Comune, perch’erano Guelfi, di fare loro rendere i beni loro, e ordinalli a’ confini a·lloro castella e possesioni fuori d’Arezzo; ma male stettono contenti ne’ termini e confini loro dati, ch’al continuo stavano in trattati co·lloro amici dentro. E a dì XI d’aprile seguente, la notte, co·lloro amici a cavallo e a piè vennero alla terra con iscale scalandola per entrare dentro; furono sentiti e ripinti per forza fuori, e di presi di quelli d’entro, che rispondieno loro; di certi fu fatta giustizia, ed ellino e·lloro seguaci condannati per traditori e ribelli.

CXVIII Di certe novità che in questi tempi furono in Firenze.

All’uscita di novembre e·ll’entrata di dicembre del detto anno subitamente montò il grano in Firenze, di soldi XXII che valea lo staio, in uno mezzo fiorino d’oro, e infino soldi XXXV lo staio, onde il popolo si maravigliò, e temette forte, dubitando non tornasse la carestia passata. E·cciò avenne perché la Romagna, d’onde ci solea venire il grano delle circustanze del Mugello, n’andava in Romagna, però che in Vinegia avea gran caro di grano; e per la generale mortalità e infermità delle terre marine, come detto avemo adietro, e per la venuta del re d’Ungheria in Puglia, i Viniziani non potieno avere tratta di grano né di Cicilia né di Puglia; e’ Viniziani male potieno navicare. Provvidesi sopra·cciò per gli uficiali della vittuaglia di fare guardare i confini del nostro contado verso Romagna, e di fare venire grano da Pisa e di Maremma e di Siena e d’Arezzo, onde per la providenza buona tosto tornò in soldi XXII e soldi XX lo staio.

E a dì XI di gennaio si fece riformagione per lo Comune, e ordinossi che·lle signorie, come la podestà, entrasse al suo uficio a calen di gennaio e in calen di luglio, e ’l capitano del popolo in calen di maggio e in calen di novembre, e·ll’esecutore degli ordini della giustizia in calen di aprile e in calen di ottobre, com’era usato per li tempi passati; i quali tempi s’erano rimossi per la tirannia del duca d’Atene, che·lli facea a suo beneplacito quando signoreggiò Firenze. E ordinossi che come fossero entrate le dette signorie, incontanente infra XV dì apresso i priori e gli altri collegi ch’hanno ad eleggere le dette signorie li dovessono eleggere sotto certa pena, per cessare le pregherie di rettori, e non avere cagione di raffermarli; che·ffu buono e ottimo dicreto, quando s’osservasse. Ma il nostro difetto di mutare spesso leggi e ordini e costumi col non istante che·ssi mette nelle riformagioni del Comune guasta ogni buono ordine e legge, ma è·ssi nostro difetto quasi naturato,

[...] che in mezzo novembre

Non giugne quel che·ttu d’ottobre fili,

come disse il nostro poeta.

CXIX Come la città di Pisa mutò stato e reggimento.

Nel detto anno, reggendosi la città di Pisa sotto il governo di messer Dino e di Tinuccio della Rocca di Maremma loro distrettuale sotto titolo di loro conti, i quali conti erano giovani di tempo, e morti i loro maggiori, e’ detti della Rocca con altri loro seguaci popolani l’avieno retta buono tempo a·lloro senno, e chiamavasi la setta de’ Raspanti; ma assai bene reggeano la terra, se non che se n’erano signori liberi; l’altra setta, che non reggeano né avieno ufici in Comune, e per dispetto gli chiamavano i Bergoli, i quali erano Gambacorti e Agliati e altri ricchi mercatanti e popolani, e’ nobili e’ grandi v’erano poco richesti e peggio trattati; e parendo a’ detti noboli e popolari esere mal trattati e schiusi degli ufici, segretamente s’acordarono insieme, e poi co’ conestaboli delle masnade con grandi impromesse, e·lla vilia di Natale, dì XXIIII di dicembre, levaro la città a romore gridando: «Viva il popolo e libertà!», e corsono la terra, e cacciarne i conti e’ detti della Rocca e’ loro seguaci, sanza altro mal fare in persone, se non di rubare e mettere fuoco nelle case di quelli della Rocca. E mandarli a’ confini i conti e·lloro in diversi luoghi e paesi. E Andrea Gambacorti con suoi seguaci se ne feciono signori.

CXX D’uno grande segno e miracolo ch’aparve in Vignone.

Nel detto anno, a dì XX di dicembre, la mattina levato il sole, aparve in Vignone in Proenza, ov’era la corte del papa, sopra i palazzi e abituri del detto papa, quasi com’una colonna di fuoco, e dimoròvi per ispazio d’una ora; la quale da tutti i cortigiani fu veduta, e faciensene grande maraviglia; e con tutto che·cciò potesse essere naturalmente per li raggi del sole al modo dell’arco, tuttora fu segno di future e grandi novitadi che avennero apresso, come leggendo si potrà trovare.

CXXI Come i Guelfi furono cacciati di Spuleto.

Nel detto anno, a dì X di gennaio, mesere Piero di meser Cello di Spuleto, il quale n’era fuori a’ confini, a pitizione degli altri grandi Guelfi di Spuleto, perché usava contro a·lloro e gli altri soperchia maggioranza cittadina, il detto meser Piero con suoi seguaci e amici e aiuto del capitano del Patrimonio e del duca di Spuleto venne alla terra con suo sforzo di genti a cavallo e a piè, e datagli l’entrata d’una porta, entrò combattendo nella terra. I cittadini ciò sentito, levaronsi a romore, e presono l’armi, onde si feciono caporali i Guelfi della terra medesimi, e per forza combattendo ruppono mesere Piero e’ suoi con danno di loro, e cacciarli della terra. E pochi dì apresso i Ghibellini della terra avendo sospetto de’ Guelfi che v’erano, con tutto che fossono stati co·lloro a cacciarne meser Piero e’ suoi seguaci, come ingrati e sconoscenti gli cacciarono di Spuleto; onde, tutto fosse loro fatta sconcia cosa, fu giusta vendetta e presta, perché n’avieno cacciati i loro Guelfi medesimi. E avenne loro la parola del Vangelo: «Regno in se medesimo diviso disolabitur». Lasceremo di queste matere per raccontare un grande giudicio e quasi incredibile che a questi tempi avenne per tremuoti nella città di Pisa, di Vinegia e di Padova, ma più in Frioli e in Baviera.

CXXII Di grandi tremuoti che furono in Vinegia, Padova, e Bologna, e Pisa.

Nel detto anno, venerdì notte dì XXV di gennaio, furono diversi e grandissimi tremuoti in Italia nella città di Pisa, e di Bologna, e di Padova, maggiori nella città di Vinegia, nella quale ruvinarono infiniti fummaiuoli, che ve ne avea assai e belli; e più campanili di chiese e altre case nelle dette città s’apersono, e tali rovinarono. E significarono alle dette terre danni e pistolenze, come leggendo inanzi si potrà trovare. Ma i pericolosi furono la detta notte in Frioli, e inn Aquilea, e in parte dalla Magna, sì fatti e per tale modo e con tanto danno, che dicendolo o scrivendolo parranno incredibili; ma per dirne il vero e non errare nel nostro trattato, sì·cci metteremo la copia della lettera che di là ne mandaro certi nostri Fiorentini mercatanti e degni di fede, il tinore delle quali diremo qui apresso, scritte e date inn-Udine del mese di febraio MCCCXLVII.

CXXIII Di grandi tremuoti che furono in Frioli e in Baviera.

Avrete udito di diversi e pericolosi tremuoti che sono stati in questi paesi, i quali hanno fatto grandissimo danno. Correndo gli anni del nostro Signore, secondo il corso della chiesa MCCCXLVIII, indizione prima, ma secondo il nostro corso della Anuziazione, ancora nel MCCCXLVII, a dì XXV di gennaio, il dì di venerdì, il dì della conversazione di san Paolo, ad ore VIII e quarta appresso vespro, che viene ore V infra la notte, fu grandissimo tremuoto, e durò per più ore, il quale non si ricorda per niuno vivente il simile.

In prima in Sancille la porta di verso Friole tutta cadde. Inn-Udine cadde parte del palazzo di meser lo patriarca, e più altre case; cadde il castello di Santo Daniello in Frioli, e morìvi più uomini e femmine; caddono due torri del castello di Ragogna, ed iscorsono infino al Tagliamento, cioè uno fiume così nomato, e morìvi più genti.

In Gelmona la metà e più delle case sono rovinate e cadute, e ’l campanile della maggiore chiesa è tutto fesso e aperto, e·lla figura di san Cristofano intagliato in pietra viva si fesse tutta per lungo. Per li quali miracoli e paura i prestatori a usura della detta terra, convertiti a penitenzia, feciono bandire che ogni persona ch’avessono loro dato merito e usura andasse a·lloro per essa; e più d’otto dì continuarono di renderla.

A Vencione il campanile della terra si fesse per mezzo, e più case rovinarono. Il castello di Tornezzo e quello di Dorestagno e quello di Destrafitto caddono e rovinarono quasi tutti, ove morirono molte genti.

Il castello di Lemborgo, ch’era in montagna, si scommosse; rovinando fu trasportato per lo tremuoto da X miglia del luogo dov’era in prima, tutto disfatto. Uno monte grandissimo, ov’era la via ch’andava al lago Dorestagno, si fesse e partissi per mezzo con grande rovina, rompendo il detto cammino.

E Ragni e Vedrone, due castella, con più di L ville, che sono sotto il contado da Gurizia, intorno al fiume di Gieglia, sono rovinate e coperte da due monti, e quasi tutte le genti di quelle perite.

La città di Villaco in Frioli vi rovinarono tutte le case, se non fu una d’un buono uomo, e giusto, e caritevole per Dio. E poi del suo contado più di LX sue tra castella e ville sopra il fiume d’Atri per simile modo detto di sopra sono tutte rovinate e somerse da due montagne, e ripiena la valle onde correa il detto fiume per più di X miglia; e ’l monistero d’Orestano rovinato e somerso, e mortavi molta gente. E ’l detto fiume non avendo sua uscita e corso usato, al di sopra ha fatto uno nuovo e grande lago. Nella detta città di Villaco molte maraviglie v’apariro, che·lla grande piazza di quella si fesse a modo di croce, della quale fessura prima uscì sangue e poi acqua in grande quantità. E nella chiesa di Santo Iacopo di quella città vi si trovarono morti uomini che v’erano fuggiti, sanza gli altri morti per la terra, più delle tre parti degli abitanti; iscamparono per divino miracolo i Latini e’ forestieri e’ poveri. Per Carnia più di XVm uomini sono trovati morti per lo tremuoto; e tutte le chiese di Carnia sono cadute, e·lle case e ’l monistero d’Osgalche e quello di Verchir tutti sobbissati.

In Baviera la città di Trasborgo, e Paluzia, e·lla Muda, e·lla Croce oltramonti, la maggiore parte delle case cadute, e morta molta gente.

E nota, lettore, che·lle sopradette rovine e pericoli di tremuoti sono grandi segni e giudici di Dio, e non sanza gran cagione e premessione divina, e di quelli miracoli e segni che Gesù Cristo vangelizzando predisse a’ suoi discepoli che dovieno apparire alla fine del secolo.