Orlando furioso (1928)/Canto 13

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Canto terzodecimo

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Canto 12 Canto 14

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CANTO TERZODECIMO

1
     Ben furo aventurosi i cavallieri
ch’erano a quella etá, che nei valloni,
ne le scure spelonche e boschi fieri,
tane di serpi, d’orsi e di leoni,
trovavan quel che nei palazzi altieri
a pena or trovar puon giudici buoni:
donne, che ne la lor piú fresca etade
sien degne d’aver titol di beltade.

2
     Di sopra vi narrai che ne la grotta
avea trovato Orlando una donzella,
e che le dimandò ch’ivi condotta
l’avesse: or seguitando, dico ch’ella,
poi che piú d’un signiozzo l’ha interrotta,
con dolce e suavissima favella
al conte fa le sue sciagure note,
con quella brevitá che meglio puote.

3
     — Ben che io sia certa (dice), o cavalliero,
ch’io porterò del mio parlar supplizio,
perché a colui che qui m’ha chiusa, spero
che costei ne dará subito indizio;
pur son disposta non celarti il vero,
e vada la mia vita in precipizio.
E ch’aspettar poss’io da lui piú gioia,
che ’l si disponga un dí voler ch’io muoia?

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4
     Isabella sono io, che figlia fui
del re mal fortunato di Gallizia.
Ben dissi fui; ch’or non son piú di lui,
ma di dolor, d’affanno e di mestizia.
Colpa d’Amor; ch’io non saprei di cui
dolermi piú che de la sua nequizia,
che dolcemente nei principii applaude,
e tesse di nascosto inganno e fraude.

5
     Giá mi vivea di mia sorte felice,
gentil, giovane, ricca, onesta e bella:
vile e povera or sono, or infelice;
e s’altra è peggior sorte, io sono in quella.
Ma voglio sappi la prima radice
che produsse quel mal che mi flagella;
e ben ch’aiuto poi da te non esca,
poco non mi parrá, che te n’incresca.

6
     Mio patre fe’ in Baiona alcune giostre,
esser denno oggimai dodici mesi.
Trasse la fama ne le terre nostre
cavallieri a giostrar di piú paesi.
Fra gli altri (o sia ch’Amor cosí mi mostre,
o che virtú pur se stessa palesi)
mi parve da lodar Zerbino solo,
che del gran re di Scozia era figliuolo.

7
     Il qual poi che far pruove in campo vidi
miracolose di cavalleria,
fui presa del suo amore; e non m’avidi,
ch’io mi conobbi piú non esser mia.
E pur, ben che ’l suo amor cosí mi guidi,
mi giova sempre avere in fantasia
ch’io non misi il mio core in luogo immondo,
ma nel piú degno e bel ch’oggi sia al mondo.

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8
     Zerbino di bellezza e di valore
sopra tutti i signori era eminente.
Mostrommi, e credo mi portasse amore,
e che di me non fosse meno ardente.
Non ci mancò chi del commune ardore
interprete fra noi fosse sovente,
poi che di vista ancor fummo disgiunti;
che gli animi restâr sempre congiunti.

9
     Però che dato fine alla gran festa,
il mio Zerbino in Scozia fe’ ritorno.
Se sai che cosa è amor, ben sai che mesta
restai, di lui pensando notte e giorno;
et era certa che non men molesta
fiamma intorno il suo cor facea soggiorno.
Egli non fece al suo disio piú schermi,
se non che cercò via di seco avermi.

10
     E perché vieta la diversa fede
(essendo egli cristiano, io saracina)
ch’al mio padre per moglie non mi chiede,
per furto indi levarmi si destina.
Fuor de la ricca mia patria, che siede
tra verdi campi allato alla marina,
aveva un bel giardin sopra una riva,
che colli intorno e tutto il mar scopriva.

11
     Gli parve il luogo a fornir ciò disposto,
che la diversa religion ci vieta;
e mi fa saper l’ordine che posto
avea di far la nostra vita lieta.
Appresso a Santa Marta avea nascosto
con gente armata una galea secreta,
in guardia d’Odorico di Biscaglia,
in mare e in terra mastro di battaglia.

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12
     Né potendo in persona far l’effetto
perch’egli allora era dal padre antico
a dar soccorso al re di Francia astretto,
manderia in vece sua questo Odorico,
che fra tutti i fedeli amici eletto
s’avea pel piú fedele e pel piú amico:
e bene esser dovea, se i benefici
sempre hanno forza d’acquistar gli amici.

13
     Verria costui sopra un navilio armato,
al terminato tempo indi a levarmi.
E cosí venne il giorno disïato,
che dentro il mio giardin lasciai trovarmi.
Odorico la notte, accompagnato
di gente valorosa all’acqua e all’armi,
smontò ad un fiume alla cittá vicino,
e venne chetamente al mio giardino.

14
     Quindi fui tratta alla galea spalmata,
prima che la cittá n’avesse avisi.
De la famiglia ignuda e disarmata
altri fuggiro, altri restaro uccisi,
parte captiva meco fu menata.
Cosí da la mia terra io mi divisi,
con quanto gaudio non ti potrei dire,
sperando in breve il mio Zerbin fruire.

15
     Voltati sopra Mongia eramo a pena,
quando ci assalse alla sinistra sponda
un vento che turbò l’aria serena,
e turbò il mare, e al ciel gli levò l’onda.
Salta un maestro ch’a traverso mena,
e cresce ad ora ad ora, e soprabonda;
e cresce e soprabonda con tal forza,
che val poco alternar poggia con orza.

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16
     Non giova calar vele, e l’arbor sopra
corsia legar, né ruinar castella;
che ci veggián mal grado portar sopra
acuti scogli, appresso alla Rocella.
Se non ci aiuta quel che sta di sopra,
ci spinge in terra la crudel procella.
Il vento rio ne caccia in maggior fretta,
che d’arco mai non si aventò saetta.

17
     Vide il periglio il Biscaglino, e a quello
usò un rimedio che fallir suol spesso:
ebbe ricorso subito al battello;
calossi, e me calar fece con esso.
Sceser dui altri, e ne scendea un drapello,
se i primi scesi l’avesser concesso;
ma con le spade li tenner discosto,
tagliâr la fune, e ci allargamo tosto.

18
     Fummo gittati a salvamento al lito
noi che nel palischermo eramo scesi;
periron gli altri col legno sdrucito;
in preda al mare andâr tutti gli arnesi.
All’eterna Bontade, all’infinito
Amor, rendendo grazie, le man stesi,
che non m’avessi dal furor marino
lasciato tor di riveder Zerbino.

19
     Come ch’io avessi sopra il legno e vesti
lasciato e gioie e l’altre cose care,
pur che la speme di Zerbin mi resti,
contenta son che s’abbi il resto il mare.
Non sono, ove scendemo, i liti pesti
d’alcun sentier, né intorno albergo appare;
ma solo il monte, al qual mai sempre fiede
l’ombroso capo il vento, e ’l mare il piede.

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20
     Quivi il crudo tiranno Amor, che sempre
d’ogni promessa sua fu disleale,
e sempre guarda come involva e stempre
ogni nostro disegno razionale,
mutò con triste e disoneste tempre
mio conforto in dolor, mio bene in male;
che quell’amico, in chi Zerbin si crede,
di desire arse, et agghiacciò di fede.

21
     O che m’avesse in mar bramata ancora,
né fosse stato a dimostrarlo ardito,
o cominciassi il desiderio allora
che l’agio v’ebbe dal solingo lito;
disegnò quivi senza piú dimora
condurre a fin l’ingordo suo appetito;
ma prima da sé tôrre un de li dui
che nel battel campati eran con nui.

22
     Quell’era omo di Scozia, Almonio detto,
che mostrava a Zerbin portar gran fede;
e commendato per guerrier perfetto
da lui fu, quando ad Odorico il diede.
Disse a costui che biasmo era e difetto,
se mi traeano alla Rocella a piede;
e lo pregò ch’inanti volesse ire
a farmi incontra alcun ronzin venire.

23
     Almonio, che di ciò nulla temea,
immantinente inanzi il camin piglia
alla cittá che ’l bosco ci ascondea,
e non era lontana oltra sei miglia.
Odorico scoprir sua voglia rea
all’altro finalmente si consiglia;
sí perché tor non se lo sa d’appresso,
sí perché avea gran confidenzia in esso.

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24
     Era Corebo di Bilbao nomato
quel di ch’io parlo, che con noi rimase;
che da fanciullo picciolo allevato
s’era con lui ne le medesme case.
Poter con lui communicar l’ingrato
pensiero il traditor si persuase,
sperando ch’ad amar saria piú presto
il piacer de l’amico, che l’onesto.

25
     Corebo, che gentile era e cortese,
non lo poté ascoltar senza gran sdegno:
lo chiamò traditore, e gli contese
con parole e con fatti il rio disegno.
Grande ira all’uno e all’altro il core accese,
e con le spade nude ne fêr segno.
Al trar de’ ferri, io fui da la paura
volta a fuggir per l’alta selva oscura.

26
     Odorico, che mastro era di guerra,
in pochi colpi a tal vantaggio venne,
che per morto lasciò Corebo in terra,
e per le mie vestigie il camin tenne.
Prestògli Amor (se ’l mio creder non erra),
acciò potesse giungermi, le penne;
e gl’insegnò molte lusinghe e prieghi,
con che ad amarlo e compiacer mi pieghi.

27
     Ma tutto è indarno; che fermata e certa
piú tosto era a morir, ch’a satisfarli.
Poi ch’ogni priego, ogni lusinga esperta
ebbe e minaccie, e non potean giovarli,
si ridusse alla forza a faccia aperta.
Nulla mi val che supplicando parli
de la fé ch’avea in lui Zerbino avuta,
e ch’io ne le sue man m’era creduta.

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28
     Poi che gittar mi vidi i prieghi invano,
né mi sperare altronde altro soccorso,
e che piú sempre cupido e villano
a me venía, come famelico orso;
io mi difesi con piedi e con mano,
et adopra’vi sin a l’ugne e il morso:
pela’gli il mento, e gli graffiai la pelle,
con stridi che n’andavano alle stelle.

29
     Non so se fosse caso, o li miei gridi
che si doveano udir lungi una lega,
o pur ch’usati sian correre ai lidi
quando navilio alcun si rompe o anniega;
sopra il monte una turba apparir vidi,
e questa al mare e verso noi si piega.
Come la vede il Biscaglin venire,
lascia l’impresa, e voltasi a fuggire.

30
     Contra quel disleal mi fu adiutrice
questa turba, signor; ma a quella image
che sovente in proverbio il vulgo dice:
cader de la padella ne le brage.
Gli è ver ch’io non son stata sí infelice,
né le lor menti ancor tanto malvage,
ch’abbino vïolata mia persona:
non che sia in lor virtú, né cosa buona

31
     ma perché se mi serban, come io sono,
vergine, speran vendermi piú molto.
Finito è il mese ottavo e viene il nono,
che fu il mio vivo corpo qui sepolto.
Del mio Zerbino ogni speme abbandono;
che giá, per quanto ho da lor detti accolto,
m’han promessa e venduta a un merendante,
che portare al soldan mi de’ in Levante. —

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33
     Cosí parlava la gentil donzella;
e spesso con signozzi e con sospiri
interrompea l’angelica favella,
da muovere a pietade aspidi e tiri.
Mentre sua doglia cosí rinovella,
o forse disacerba i suoi martíri,
da venti uomini entrâr ne la spelonca,
armati chi di spiedo e chi di ronca.

33
     Il primo d’essi, uom di spietato viso,
ha solo un occhio, e sguardo scuro e bieco:
l’altro, d’un colpo che gli avea reciso
il naso e la mascella, è fatto cieco.
Costui vedendo il cavalliero assiso
con la vergine bella entro allo speco,
volto a’ compagni, disse: — Ecco augel nuovo,
a cui non tesi, e ne la rete il truovo. —

34
     Poi disse al conte: — Uomo non vidi mai
piú commodo di te, né piú oportuno.
Non so se ti se’ apposto, o se lo sai
perché te l’abbia forse detto alcuno,
che sí bell’arme io desïava assai,
e questo tuo leggiadro abito bruno.
Venuto a tempo veramente sei,
per riparare agli bisogni miei. —

35
     Sorrise amaramente, in piè salito,
Orlando, e fe’ risposta al mascalzone:
— Io ti venderò l’arme ad un partito
che non ha mercadante in sua ragione. —
Del fuoco, ch’avea appresso, indi rapito
pien di fuoco e di fumo uno stizzone,
trasse, e percosse il malandrino a caso,
dove confina con le ciglia il naso.

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36
     Lo stizzone ambe le palpèbre colse,
ma maggior danno fe’ ne la sinistra;
che quella parte misera gli tolse,
che de la luce, sola, era ministra.
Né d’acciecarlo contentar si volse
il colpo fier, s’ancor non lo registra
tra quelli spirti che con suoi compagni
fa star Chiron dentro ai bollenti stagni.

37
     Ne la spelonca una gran mensa siede
grossa duo palmi, e spaziosa in quadro,
che sopra un mal pulito e grosso piede,
cape con tutta la famiglia il ladro.
Con quell’agevolezza che si vede
gittar la canna lo Spagnuol leggiadro,
Orlando il grave desco da sé scaglia
dove ristretta insieme è la canaglia.

38
     A ch’ il petto, a ch’ il ventre, a chi la testa,
a chi rompe le gambe, a chi le braccia;
di ch’altri muore, altri storpiato resta:
chi meno è offeso, di fuggir procaccia.
Cosí talvolta un grave sasso pesta
e fianchi e lombi, e spezza capi e schiaccia,
gittato sopra un gran drapel di biscie,
che dopo il verno al sol si goda e liscie.

39
     Nascono casi, e non saprei dir quanti:
una muore, una parte senza coda,
un’altra non si può muover davanti,
e ’l deretano indarno aggira e snoda;
un’altra, ch’ebbe piú propizii i santi,
striscia fra l’erbe, e va serpendo a proda.
Il colpo orribil fu, ma non mirando,
poi che lo fece il valoroso Orlando.

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40
     Quei che la mensa o nulla o poco offese
(e Turpin scrive a punto che fur sette),
ai piedi raccomandan sue difese:
ma ne l’uscita il paladin si mette;
e poi che presi gli ha senza contese,
le man lor lega con la fune istrette,
con una fune al suo bisogno destra,
che ritrovò ne la casa silvestra.

41
     Poi li strascina fuor de la spelonca,
dove facea grande ombra un vecchio sorbo.
Orlando con la spada i rami tronca,
e quelli attacca per vivanda al corbo.
Non bisognò catena in capo adonca;
che per purgare il mondo di quel morbo,
l’arbor medesmo gli uncini prestolli,
con che pel mento Orlando ivi attacolli.

42
     La donna vecchia, amica a’ malandrini,
poi che restar tutti li vide estinti,
fuggí piangendo e con le mani ai crini,
per selve e boscherecci labirinti.
Dopo aspri e malagevoli camini,
a gravi passi e dal timor sospinti,
in ripa un fiume in un guerrier scontrosse;
ma diferisco a ricontar chi fosse:

43
     e torno all’altra, che si raccomanda
al paladin che non la lasci sola;
e dice di seguirlo in ogni banda.
Cortesemente Orlando la consola;
e quindi, poi ch’uscí con la ghirlanda
di rose adorna e di purpurea stola
la bianca Aurora al solito camino,
partí con Isabella il paladino.

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44
     Senza trovar cosa che degna sia
d’istoria, molti giorni insieme andaro;
e finalmente un cavallier per via,
che prigione era tratto, riscontrare.
Chi fosse, dirò poi; ch’or me ne svia
tal, di chi udir non vi sará men caro:
la figliuola d’Amon, la qual lasciai
languida dianzi in amorosi guai.

45
     La bella donna, disïando invano
ch’a lei facesse il suo Ruggier ritorno,
stava a Marsilia, ove allo stuol pagano
dava da travagliar quasi ogni giorno;
il qual scorrea, rubando in monte e in piano,
per Linguadoca e per Provenza intorno:
et ella ben facea l’ufficio vero
di savio duca e d’ottimo guerriero.

46
     Standosi quivi, e di gran spazio essendo
passato il tempo che tornare a lei
il suo Ruggier dovea, né lo vedendo,
vivea in timor di mille casi rei.
Un dí fra gli altri, che di ciò piangendo
stava solinga, le arrivò colei
che portò ne l’annel la medicina
che sanò il cor ch’avea ferito Alcina.

47
     Come a sé ritornar senza il suo amante,
dopo sí lungo termine, la vede,
resta pallida e smorta, e sí tremante,
che non ha forza di tenersi in piede:
ma la maga gentil le va davante
ridendo, poi che del timor s’avede;
e con viso giocondo la conforta,
qual aver suol chi buone nuove apporta.

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48
     — Non temer (disse) di Ruggier, donzella,
ch’è vivo e sano, e come suol, t’adora;
ma non è giá in sua libertá, che quella
pur gli ha levata il tuo nemico ancora:
et è bisogno che tu monti in sella,
se brami averlo, e che mi segui or ora;
che se mi segui, io t’aprirò la via
donde per te Ruggier libero ha. —

49
     E seguitò, narrandole di quello
magico error che gli avea ordito Atlante:
che simulando d’essa il viso bello,
che captiva parea del rio gigante,
tratto l’avea ne l’incantato ostello,
dove sparito poi gli era davante;
e come tarda con simile inganno
le donne e i cavallier che di lá vanno.

50
     A tutti par, l’incantator mirando,
mirar quel che per sé brama ciascuno,
donna, scudier, compagno, amico; quando
il desiderio uman non è tutto uno.
Quindi il palagio van tutti cercando
con lungo affanno, e senza frutto alcuno;
e tanta è la speranza e il gran disire
del ritrovar, che non ne san partire.

51
     — Come tu giungi (disse) in quella parte
che giace presso all’incantata stanza,
verrá l’incantatore a ritrovarle,
che terrá di Ruggiero ogni sembianza;
e ti fará parer con sua mal’arte,
ch’ivi lo vinca alcun di piú possanza,
acciò che tu per aiutarlo vada
dove con gli altri poi ti tenga a bada.

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52
     Acciò l’inganni, in che son tanti e tanti
caduti, non ti colgan, sie avertita,
che se ben di Ruggier viso e sembianti
ti parrá di veder, che chieggia aita,
non gli dar fede tu; ma, come avanti
ti vien, fagli lasciar l’indegna vita:
né dubitar perciò che Ruggier muoia,
ma ben colui che ti dá tanta noia.

53
     Ti parrá duro assai, ben lo conosco,
uccidere un che sembri il tuo Ruggiero:
pur non dar fede all’occhio tuo, che losco
fará l’incanto, e celeragli il vero.
Fermati, pria ch’io ti conduca al bosco,
sí che poi non si cangi il tuo pensiero:
che sempre di Ruggier rimarrai priva,
se lasci per viltá che ’l mago viva. —

54
     La valorosa giovane, con questa
intenzïon che ’l fraudolente uccida,
a pigliar l’arme, et a seguire è presta
Melissa; che sa ben quanto l’è fida.
Quella, or per terren culto, or per foresta,
a gran giornate e in gran fretta la guida,
cercando alleviarle tuttavia
con parlar grato la noiosa via.

55
     E piú di tutti i bei ragionamenti,
spesso le repetea ch’uscir di lei
e di Ruggier doveano gli eccellenti
principi e glorïosi semidei.
Come a Melissa fossino presenti
tutti i secreti degli eterni dèi,
tutte le cose ella sapea predire,
ch’avean per molti seculi a venire.

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56
     — Deh, come, o prudentissima mia scorta
(dicea alla maga l’inclita donzella),
molti anni prima tu m’hai fatto accorta
di tanta mia viril progenie bella;
cosí d’alcuna donna mi conforta,
che di mia stirpe sia, s’alcuna in quella
metter si può tra belle e virtuose. —
E la cortese maga le rispose:

57
     — Da te uscir veggio le pudiche donne,
madri d’imperatori e di gran regi,
reparatrici e solide colonne
de case illustri e di domini egregi;
che men degne non son ne le lor gonne,
ch’in arme i cavallier, di sommi pregi,
di pietá, di gran cor, di gran prudenza,
di somma e incomparabil continenza.


58
     E s’io avrò da narrarti di ciascuna
che ne la stirpe tua sia d’onor degna,
troppo sará; ch’io non ne veggio alcuna
che passar con silenzio mi convegna.
Ma ti farò, tra mille, scelta d’una
o di due coppie, acciò ch’a fin ne vegna.
Ne la spelonca perché nol dicesti?
che l’imagini ancor vedute avresti.

59
     De la tua chiara stirpe uscirá quella
d’opere illustri e di bei studii amica,
ch’io non so ben se piú leggiadra e bella
mi debba dire, o piú saggia e pudica,
liberale e magnanima Isabella,
che del bel lume suo dí e notte aprica
fará la terra che sul Menzo siede,
a cui la madre d’Ocno il nome diede:

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60
     dove onorato e splendido certame
avrá col suo dignissimo consorte,
chi di lor piú le virtú prezzi et ame,
e chi meglio apra a cortesia le porte.
S’un narrerá ch’al Taro e nel Reame
fu a liberar da’ Galli Italia forte;
l’altra dirá: — Sol perché casta visse
Penelope, non fu minor d’Ulisse. —

61
     Gran cose e molte in brevi detti accolgo
di questa donna, e piú dietro ne lasso,
che in quelli di ch’io mi levai dal volgo,
mi fe’ chiare Merlin dal cavo sasso.
E s’in questo gran mar la vela sciolgo,
di lunga Tifi in navigar trapasso.
Conchiudo in somma ch’ella avrá, per dono
de la virtú e del ciel, ciò ch’è di buono.

62
     Seco avrá la sorella Beatrice,
a cui si converrá tal nome a punto:
ch’essa non sol del ben che qua giú lice,
per quel che viverá, toccherá il punto;
ma avrá forza di far seco felice
fra tutti i ricchi duci, il suo congiunto,
il qual, come ella poi lascierá il mondo,
cosí de l’infelici andrá nel fondo.

63
     E Moro e Sforza e Viscontei colubri,
lei viva, formidabili saranno
da l’iperboree nievi ai lidi rubri,
da l’Indo ai monti ch’al tuo mar via danno:
lei morta, andran col regno degl’Insubri,
e con grave di tutta Italia danno,
in servitute; e fia stimata, senza
costei, ventura la somma prudenza.

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64
     Vi saranno altre ancor, ch’avranno il nome
medesmo, e nasceran molt’anni prima:
di ch’una s’ornerá le sacre chiome
de la corona di Pannonia opima;
un’altra, poi che le terrene some
lasciate avrá, fia ne l’ausonio clima
collocata nel numer de le dive,
et avrá incensi e imagini votive.

65
     De l’altre tacerò; che, come ho detto,
lungo sarebbe a ragionar di tante;
ben che per sé ciascuna abbia suggetto
degno, ch’eroica e chiara tuba cante.
Le Bianche, le Lucrezie io terrò in petto,
e le Costanze e l’altre, che di quante
splendide case Italia reggeranno,
reparatrici e madri ad esser hanno.

66
     Piú ch’altre fosser mai, le tue famiglie
saran ne le lor donne aventurose;
non dico in quella piú de le lor figlie,
che ne l’alta onestá de le lor spose.
E acciò da te notizia anco si piglie
di questa parte che Merlin mi espose,
forse perch’io ’l dovessi a te ridire,
ho di parlarne non poco desire.

67
     E dirò prima di Ricciarda, degno
esempio di fortezza e d’onestade:
vedova rimarrá, giovane, a sdegno
di Fortuna; il che spesso ai buoni accade.
I figli, privi del paterno regno,
esuli andar vedrá in strane contrade,
fanciulli in man degli aversari loro;
ma infine avrá il suo male ampio ristoro.

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68
     De l’alta stirpe d’Aragone antica
non tacerò la splendida regina,
di cui né saggia sí, né sí pudica
veggio istoria lodar greca o latina,
né a cui Fortuna piú si mostri amica:
poi che sará da la Bontá divina
elletta madre a parturir la bella
progenie, Alfonso, Ippolito e Isabella.

69
     Costei sará la saggia Leonora,
che nel tuo felice arbore s’inesta.
Che ti dirò de la seconda nuora,
succeditrice prossima di questa?
Lucrezia Borgia, di cui d’ora in ora
la beltá, la virtú, la fama onesta
e la fortuna crescerá, non meno
che giovin pianta in morbido terreno.

70
     Qual lo stagno all’argento, il rame all’oro,
il campestre papavere alla rosa,
pallido salce al sempre verde alloro,
dipinto vetro a gemma preziosa;
tal a costei, ch’ancor non nata onoro,
sará ciascuna insino a qui famosa
di singular beltá, di gran prudenzia,
e d’ogni altra lodevole eccellenzia.

71
     E sopra tutti gli altri incliti pregi
che le saranno e a viva e a morta dati,
si loderá che di costumi regi
Ercole e gli altri figli avrá dotati,
e dato gran principio ai ricchi fregi
di che poi s’orneranno in toga e armati;
perché l’odor non se ne va sí in fretta,
ch’in nuovo vaso, o buono o rio, si metta.

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72
     Non voglio ch’in silenzio anco Renata
di Francia, nuora di costei, rimagna,
di Luigi il duodecimo re nata,
e de l’eterna gloria di Bretagna.
Ogni virtú ch’in donna mai sia stata,
di poi che ’l fuoco scalda e l’acqua bagna,
e gira intorno il cielo, insieme tutta
per Renata adornar veggio ridutta.

73
     Lungo sará che d’Alda di Sansogna
narri, o de la contessa di Celano,
o di Bianca Maria di Catalogna,
o de la figlia del re Sicigliano,
o de la bella Lippa da Bologna,
e d’altre; che s’io vo’ di mano in mano
venirtene dicendo le gran lode,
entro in un alto mar che non ha prode. —

74
     Poi che le racontò la maggior parte
de la futura stirpe a suo grand’agio,
piú volte e piú le replicò de l’arte
ch’avea tratto Ruggier dentro al palagio.
Melissa si fermò, poi che fu in parte
vicina al luogo del vecchio malvagio;
e non le parve di venir piú inante,
acciò veduta non fosse da Atlante.

75
     E la donzella di nuovo consiglia
di quel che mille volte ormai l’ha detto.
La lascia sola; e quella oltre a dua miglia
non cavalcò per un sentiero istretto,
che vide quel ch’al suo Ruggier simiglia;
e dui giganti di crudele aspetto
intorno avea, che lo stringean sí forte,
ch’era vicino esser condotto a morte.

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76
     Come la donna in tal periglio vede
colui che di Ruggiero ha tutti i segni,
subito cangia in sospizion la fede,
subito oblia tutti i suoi bei disegni.
Che sia in odio a Melissa Ruggier crede,
per nuova ingiuria e non intesi sdegni,
e cerchi far con disusata trama
che sia morto da lei che cosí l’ama.

77
     Seco dicea: — Non è Ruggier costui,
che col cor sempre, et or con gli occhi veggio?
e s’or non veggio e non conosco lui,
che mai veder o mai conoscer deggio?
perché voglio io de la credenza altrui
che la veduta mia giudichi peggio?
che senza gli occhi ancor, sol per se stesso
può il cor sentir se gli è lontano o appresso. —

78
     Mentre che cosí pensa, ode la voce
che le par di Ruggier, chieder soccorso;
e vede quello a un tempo, che veloce
sprona il cavallo e gli ralenta il morso,
e l’un nemico e l’altro suo feroce,
che lo segue e lo caccia a tutto corso.
Di lor seguir la donna non rimase,
che si condusse all’incantate case.

79
     De le quai non piú tosto entrò le porte,
che fu sommersa nel commune errore.
Lo cercò tutto per vie dritte e torte
invan di su e di giú, dentro e di fuore;
né cessa notte o dí, tanto era forte
l’incanto: e fatto avea l’incantatore,
che Ruggier vede sempre, e gli favella,
né Ruggier lei, né lui riconosce ella.

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81
     Ma lascián Bradamante, e non v’incresca
udir che cosí resti in quello incanto;
che quando sará il tempo ch’ella n’esca,
la farò uscire, e Ruggiero altretanto.
Come raccende il gusto il mutar esca,
cosí mi par che la mia istoria, quanto
or qua or lá piú varïata sia,
meno a chi l’udirá noiosa fia.

81
     Di molte fila esser bisogno parme
a condur la gran tela ch’io lavoro.
E però non vi spiaccia d’ascoltarme,
come fuor de le stanze il popul Moro
davanti al re Agramante ha preso l’arme,
che, molto minacciando ai Gigli d’oro,
lo fa assembrare ad una mostra nuova,
per saper quanta gente si ritruova.

82
     Perch’oltre i cavallieri, oltre i pedoni
ch’al numero sottratti erano in copia,
mancavan capitani, e pur de’ buoni,
e di Spagna e di Libia e d’Etïopia,
e le diverse squadre e le nazioni
givano errando senza guida propia;
per dare e capo et ordine a ciascuna,
tutto il campo alla mostra si raguna.

83
     In supplimento de le turbe uccise
ne le battaglie e ne’ fieri conflitti,
l’un signore in Ispagna, e l’altro mise
in Africa, ove molti n’eran scritti;
e tutti alli lor ordini divise,
e sotto i duci lor gli ebbe diritti.
Differirò, Signor, con grazia vostra,
ne l’altro canto l’ordine e la mostra.