Pagina:8. Giovanni Oberti.pdf/13

Da Wikisource.
8

Ma dove sono le opere? Una pozza d’acqua, un piedistallo, un numero 8 fatto al neon sembrano più un guasto e dei preparativi che una mostra compiuta. L’unico che può essere assimilato a un oggetto il neon, per quanto semplice e povero di sostanza, un numero. E infatti la chiave sta proprio lì, è lui a indicarci la forma e il senso delle altre presenze. L’otto è un cerchio ruotato sul proprio centro, forma doppia e sinuosa, circolo più che cerchio. La sua figura complessiva ricorda poi la clessidra, e con essa lo scorrere del tempo.


Appunto di questo innanzitutto si tratta: di un circolo operato dal tempo. Questo è il dispositivo di produzione di ciò che si vede: la pozza d’acqua per terra è composta dell’umidità raccolta ogni giorno nello spazio espositivo — per mezzo di deumidificatori presenti ma non visibili in mostra — e riversata ogni mattina sul pavimento, resa visibile, in altra forma, informe, e rimessa in circolazione; il piedistallo, più alto di una persona perché non si possa né vedere né toccare quello che c’è sopra, è un raccoglitore — Duchamp avrebbe detto un "allevatore" — di polvere, perpetuo, perché destinato a non essere mai né coperto né rovesciato, ma tenuto sempre verticale e attivo.


Acqua e polvere, umido e secco, orizzontale e verticale, informe e formato, specchiante e opaco, liquido e granulare, ma tutto al limite dell’esistente, e in realtà già tutto lì, preesistente, tutto lì nello spazio espositivo, lo spazio stesso. Tutto catturato e restituito, reso visibile — al limite del visibile, del riconoscibile — e poi di nuovo rimesso in circolo.


Che cos’è dunque? Una tautologia mancata? Un moto perpetuo zoppicante? Un circolo virtuoso ma inutile? Una versione debole della ricerca dell’eternità? Il segno dell’infinito furbescamente raddrizzato? Vanitas, si intitolava l’opera appena precedente queste, la prima basata sulla raccolta dell’umidità. Sì, richiamo alla caducità, ma anche, letteralmente, fragile vanità, delicato narcisismo, cura della discrezione e del gusto, esercizio silenzioso della precisione, affetto per il reale e saperci fare con ciò che è a disposizione, coltivazione di sé senza argomenti e pretese soggettive.


In fondo Oberti non fa che dar forma al tempo, trattandolo come un materiale — così ha potuto "vedere" che sospesa nell’aria non c’è solo la polvere ma anche il suo opposto, l’umidità — ma facendone anche il produttore stesso di ciò che si vede, mostrando come lavora.


Ora, il tempo agisce innanzitutto per accumulo, per stratificazione, è memoria, è sedimentazione di affetti, è s-velamento. Oberti mostra tale stratificazione, la fa lavorare, significare, e la fa propria, agendo anche lui allo stesso modo, caricando di senso ciò che, intorno a lui, gli sembra corrispondere a sé, al suo sentire e pensare. In fondo non fa che raccogliere ciò che chiama a far parte del suo mondo, oggetti, immagini, fenomeni, e coprirli di un velo, a volte reale, come qui di polvere e altre volte di grafite, oro, o di pittura o magari anche solo dell’aria che ci separa da ciò che ci dà a vedere; altre volte di un velo ancora più immateriale ma altrettanto percepibile, fatto di un piccolo intervento su un oggetto trovato e caricato di un’affezione con cui lo fa proprio.