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mangiato la casa e i fondi di quella bigotta che ti manteneva, tu vuoi anche della carta, o schifoso...

Ferruccio, che stava a sentire nell’altra stanza, si lasciò cadere sopra una sedia.

— Questo non è parlare... — gridò Aquilino, volgendosi irritato al Boffa, che mosse una gamba.

— Questo è parlar chiaro, il mio regio impiegato; questa è la messa cantata. E non hai schifo del pane che mangi, o Gattagno, fatto col sangue della povera gente? Non hai schifo di mantenere le tue sgualdrine e quelle del tuo Bomba coi quattrini dei poveri padri di famiglia? Ci vuol altro che mandare in lusso la nuora smorfiosa...

Ferruccio, che ascoltava di fuori, si coprì gli orecchi colle mani.

Tognino fece un certo segno ad Aquilino, strizzando l’occhio con un moto particolare e parlante che persuase il vice-ricevitore a discorrere col Boffa. Costui entrò perfettamente nell’idea, e come se gli scoppiasse a un tratto una bomba nel ventre, saltò addosso alla donna, la ghermì per un braccio e cominciò a tirarla nella stessa maniera che si tira un mobile pesante o una bestia riottosa.

La donna, non potendo resistere a quella forza di ferro, si lasciò trascinare: ma volle gettare in faccia a Tognino tutti i titoli cavallereschi, che si usano in verziere in queste occasioni. Vociò in anticamera, vociò sulle scale e non si persuase a smettere nemmeno quando fu in corte. Strillavano in lei diecimila ortolane.

— Le donne non sono responsabili e io mi asciugo le mani di quest’acqua sporca — disse Aquilino con tono amichevole, fregando la mano che aveva libera