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quali non furono mai così potenti come in questi tempi così detti di liberalismo. Lo so io che ho tra le mani quella poca matassa delle Opere pie! — l’onorevole di Vigevano tornò a sfibbiare qualche altra cosa sotto la giubba. — Vedesse, caro signore, che pressioni! che ingerenze! che intimidazioni! e non da una parte sola: da tutte le parti, e specialmente dall’alto, sicuro, dall’alto, da molto in alto! e mi si viene a parlare di laicizzare le istituzioni! — L’avvocato rise di gran cuore, pigliandosi in mano un piede ben calzato in una scarpetta di panno a due file di bottoni d’osso. — Ma comunque sia, ne ho vinto delle più difficili, alla garibaldina, s’intende, pam, pam! e vinceremo anche questa. Spenderemo forse un po’ di denaro, ma vedo che c’è del margine, un bel margine, e faremo presto. Vedrà, sei mesi, un anno al più. Se non sarà in prima istanza andremo in appello, dove conto dei forti appoggi dappertutto, purchè i miei colleghi non mi facciano il tiro di mandarmi alla Consulta, nel qual caso passerei le carte a un alter ego, che farà ancor meglio di me.

La campana della table d’hôte interruppe a tempo un discorso che minacciava di non finir più. L’onorevole competenza si alzò, promise di scrivere per combinare una seconda seduta, strinse nelle sue la mano magra e dura del bravo signor Maccagno e lo accompagnò gentilmente all’uscio.

Il vecchio affarista, sangue dei Valsassina, non abituato alle circonlocuzioni parlamentari, uscì da quel colloquio col viso rosso, l’anima gonfia di bile, i denti stretti e con una voglia indosso di strozzar qualcheduno. Quando fu nel mezzo della piazza,