Pagina:Arabella.djvu/289

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— Chi, chi...? i siori.

Mi non so. Mi non stago a scoltar...

A scoltar col naso — rimbeccò il padrone, parlando anche lui in veneto per far dispetto alla pettegola. — È forse possibile che una donna di servizio non stia a sentir ciò che dicono i padroni?

— Io non ho visto che si siano bisticciati.

— Avranno combinato d’andare insieme a teatro.

— Senza dir nulla?

— C’è forse bisogno di dir tutto alle illustrissime?

Entrarono in casa. Egli buttò il cappello su una sedia, passò nel salotto, rischiarato dalla lucerna posta sopra la tavola, chiamò:

— Gioconda, Gioconda!

La cuoca, che sonnecchiava in cucina, venne fuori. Confermò anche lei che la signora, cinque minuti dopo che il signore era uscito, fattasi portare il mantello, era uscita anche lei dicendo: — Torno subito.

— A che ora torna a casa di solito il signore, la sera?

Le due donne si guardarono in viso, come se l’una aspettasse che parlasse l’altra.

— Non ha ora precisa... — disse la Gioconda.

— Portate un lume.

E senza aspettare che l’Augusta tornasse colla candela, spinse i battenti, traversò il corridoio, cacciò la testa nella camera da letto perfettamente buia.

— Arabella — chiamò con voce sommessa, che morì in un tremito pauroso.

Non c’era nessuno. Quando venne l’Augusta col lume, entrarono, dettero un’occhiata intorno. Vista una lettera aperta, quasi buttata là sulla tavoletta,