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mentre io son rimasto un povero cane, costretto nella mia vecchiezza a far da pignoratario alla miseria altrui.

Il Botola indicò cogli occhi la roba, che riempiva lungo le quattro pareti la stanza, non molto ampia, col soffitto a travetti. Sopra alcune mensole confitte nel muro erano appesi dei rotoli, dei sacchi, degli involti gonfi, immersi in una misteriosa oscurità, dai quali emanava un lungo odore di muffa e di vecchiezza. Roba d’ogni foggia e senza foggia era ammucchiata negli angoli, in terra e sopra le seggiole, accatastata al muro, come se aspettasse d’esser portata via.

Sopra una gran tavola zoppa, d’uno stile quasi rococò, stavano dei registri a matricola con dei fasci polverosi di quitanze schiacciate da grosse chiavi, in mezzo a una raccolta di oggetti di apparenza rara e preziosa, come a dire orologi a pancia, cornicette sagomate, statuette di legno e di bronzo, tondini pieni di antiche monete e di minute rarità d’antiquario, reliquiari e perfino libri di preghiere, roba infine scossa e buttata dalla miseria e dall’onda della vita a depositarsi a poco a poco e a incrostare il banchetto d’un uomo paziente e preciso.

Per quanto l’apparenza del Botola fosse di pover’uomo (tutti lo chiamavano Botola, ma c’era chi credeva di sapere che il suo vero nome fosse Domenico Guerrini) tuttavia non gli mancava mai in casa un centinaio di lirette straccie per salvare un buon figliuolo di famiglia dal fare una cattiva figura, e più volte ne aveva prestate in segretezza anche al figliuolo del suo miglior amico, limitandosi a un meschino interesse per riguardo a una vecchia amicizia che risaliva fino al quarantotto.