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negoziante di carta, di temperamento allegro, di cuore irragionevole e sempre spettinata. La casa, gli allattamenti, il piccolo stipendio, i crucci e la tribolazione delle serve non riuscivano a toglierle la voglia di ridere e di voler bene alla vita, che natura le aveva dato abbondante, sana e pacifica.

Maria Arundelli aveva seguito con interesse il matrimonio della sua compagna di collegio, lieta di ritrovare nell’Arabella Pianelli, che a Cremenno chiamavano la maestrina, una buona relazione e un’amica che non avrebbe badato troppo all’etichetta delle visite e dei ricevimenti. Capì subito che la poveretta non era molto felice. Quando seppe del brutto accidente capitatole sulla pubblica strada, corse a trovarla e raccolse delle confessioni che le strinsero il cuore. La visita improvvisa dell’Augusta a sera tarda e le mille parole che in tre minuti la veneta pronunciò sulla soglia dell’uscio, l’avevano messa sossopra. Non potè dormire la notte e già si preparava a uscir di casa per aver delle notizie, quando Arabella, bianca come una morta, le comparve davanti.

Le due compagne di scuola si abbracciarono senza parlare, senza piangere.

— Vieni, la mia povera tosa: contami questa storia.

— Sarei venuta fin da ieri, ma ho avuto paura. Ti disturbo?

— Niente affatto, Giorgio ha approfittato del giovedì e della bella giornata per condurre la bambina dalla nonna in campagna, non ci siamo che io e Napo; anzi se permetti sento che piange, vado a prenderlo, perchè è la sua ora.

Maria lasciò Arabella nel piccolo salotto e tornò