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una selva. Nel riporre le robe nell’armadio, le venne alle mani una piccola babbuccia di lana rosa rimasta dimenticata sui ferri. La buttò via. Sentì il pianto salire fino alla gola, ma con un crudele sforzo lo respinse e ricompose l’animo a una tranquilla e marmorea indifferenza.

Mentre stava collocando in una scatola alcuni pizzi, che avrebbero dovuto servire per un battesimo, si sentì chiudere tra due braccia, e poi sentì un volto caldo e lagrimoso sul suo, che la baciava teneramente sulle gote e sui capelli.

— Povera la mia siora! credevo che facessero patire soltanto le povarete; ma vedo che siamo dappertutto le stesse. Pazienza! Se si buttasse un pochettino sul letto?

— Forse hai ragione. Sono stanca...

— Venga con me, benedetta!

L’Augusta, che aveva bisogno di abbracciare qualche cosa di caro, senza dir altro, si tolse in braccio la sua povera padroncina, la collocò sul letto, le sciolse le scarpe, la coprì col piumino, e dopo averla baciata ancora una volta sui capelli, chiuse le imposte.

Arabella si addormentò come una bambina stanca.



Non fu che verso l’ora del pranzo che il signor Tognino chiese di parlare a sua nuora.

Uscito dalla casa del Botola col cuore avvelenato e rotto, si trascinò a casa, si rinchiuse un pezzo nell’ammezzato a scrivere, consegnò alcune carte al notaio Baltresca, e mandò due volte la portinaia a