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fuggire. Punitela. — Arabella non disse, nè pensò queste cose; ma il vecchio suocero gliele lesse sul viso.

— La ringrazio d’essere tornata — disse, appoggiandosi al tavolino colle braccia, per resistere a un tremito nervoso che lo indeboliva, guardando dall’alto sui capelli di sua nuora accuratamente ricomposti. E come si appoggiava al tavolino per non cadere, così cercò colla voce di appoggiarsi sulle sillabe delle parole per non tradire la debolezza della sua commozione. — È sempre una bella cosa aggiustare i nostri guai in famiglia. Ha parlato colla sua buona mamma?

Arabella accennò di sì col capo. Rimase chiusa e raccolta intorno al suo dolore il tempo di vincere la ripugnanza al parlare e dopo aver inghiottito qualche cosa di duro che minacciò soffocarla, sollevò penosamente le palpebre, allargò gli occhi sereni pieni di una timida sommissione in faccia a suo suocero e balbettò con un leggiero movimento della bocca:

— Le domando scusa...

Egli che non si aspettava quest’atto di eccessiva umiliazione, rimase ancora più sconcertato. Mosse un poco una mano in aria e voltando la faccia verso la finestra, balbettò:

— Non tocca, veramente, non tocca a lei chiedere scusa. Dicevo soltanto che non bisogna dar occasione di parlare alla gente... La gente è cattiva.

Arabella non disse nulla, ma si raccolse con tutte le forza della sua vita sul lavoruccio che teneva nelle mani come se vi si aggrappasse per non precipitare in un abisso senza fondo. La sua testa prese una immobilità di pietra.