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febbre, sento. Anche il suo aspetto mi dice che non si sente bene. Devo chiamare l’Augusta?

Il vecchio fece segno di no.

— Lei si sente male... — Arabella cominciò a tremare, e cercò svincolarsi per correre a chiamar gente; ma lui la trattenne forte per un lembo del vestito: e mormorando parole grosse e confuse, le fece capire che voleva scrivere.

— Scrivere... — e indicò col dito un calamaio sul tavolino da lavoro.

Arabella accostò il tavolino, aprì il calamaio, stese un foglio, mise la penna in mano al vecchio, obbedendo in preda a una convulsa agitazione ai cenni di quel povero uomo, che la tratteneva sempre per il lembo del vestito.

— Passa, passa... — mormorò con voce di fiera malinconia il vecchio come se si riavesse da una momentanea vertigine. Appoggiò la testa alla mano sinistra, strappando con l’altra il vestito della giovane, che s’inginocchiò, cedendo quasi all’invito d’un comando interiore.

— Ho da chiamare qualcuno?

— No, sto bene. Sta qui.

E dopo aver arzigogolato un poco colla penna, il vecchio malato cominciò a scrivere in righe oblique mostrando nella contrazione dolorosa del viso duro e pallidissimo lo sforzo della fuggente volontà.

Arabella, che sentivasi molle il viso di lagrime, vide che a un certo punto la mano del vecchio s’irrigidì. Fu per gettare un grido di avviso; ma egli se ne accorse. Svegliandosi, la guardò teneramente, mosse le labbra a un sorriso morto, e allungando la mano a riprendere quella di Arabella, dopo un