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era per mettere al mondo il suo quinto figliuolo: e nascevano tutti sani, ingordi, con nessuna voglia di morire. Tratta a discorrere di questa faccenda, la donna nel linguaggio più naturale dimostrava come ciò possa accadere ai poveretti, che non hanno il teatro della Scala. Le parole della cantoniera suscitavano nel segreto dolore di Arabella improvvisi turbamenti.

Vedendola arrossire, la donna allungava il discorso alle solite celie, cercando di dimostrarle che in tre cose i poveri sono eguali ai ricchi: nel nascere, nel morire e nel fare all’amore, una parola quest’ultima che in bocca alla bassa gente, è più chiara che nei dialoghi di Platone.

Una mattina — due giorni prima del Corpus Domini — mentre ciarlavano di queste cose, il suono della cornetta interruppe a tempo certe confidenze, nelle quali la più giovine di quelle due donne provava una specie di malsana seduzione: subito dopo s’intese il rombo del treno proveniente da Milano.

Arabella, camminando lungo la siepe, aspettò che il treno, dopo la breve sosta alla stazione, ripigliasse la sua corsa. Il convoglio qualche momento dopo, venne ansando, rombando, e passò al di là della siepe colla veloce imponenza che ha sempre un treno in viaggio. Essa lo seguì cogli occhi, rapita da uno spettacolo che non invecchia mai e del quale non abbiamo ereditata l’abitudine.

Nell’uscir dalla sua contemplazione, si trovò davanti Ferruccio pallido come un cadavere.