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cosmorama pittorico. | 283 |
Quando darò la veduta di questo Museo, come ora si presenta restaurato, terrò più speciale discorso intorno alle altre rarità che racchiude: frattanto ne gode l’animo pensando quanto l’amore delle avite memorie sappia serbarsi vivo in un paese che ha sparso due volte la civiltà nel mondo e conta trenta secoli di storia.
Giuseppe Sacchi. |
Ebbe Italia nel secolo XV molti capitani esperti, prudenti, audaci quanto le città dell’antica Grecia; passano i più inonorati o per incuria degli storici, o perchè datisi a seguire la ventura come voleano gli ordinamenti di que’ dì, non giovarono ad un paese, e le loro azioni andarono confuse con quelle degli Stati cui servirono: tale fu Bartolomeo Coleone; fra le sue azioni alcune sole basterebbero a fare grande un antico.
Ei nacque nel 1400 su quel di Bergamo, a Solza, castello ove tenea signoria la sua famiglia; uccisogli il padre mentre era ancor fanciullo, fuggì la patria, ricovrò a Piacenza, ove Filippo Arcelli lo tenne come paggio: giovane, queto, taciturno, fu creduto imbecille; fu deriso. Coleone attendeva l’occasione a svolgere la propria energia: sdegnò servire fra le mollezze, desiderò la guerra; prese la via di Napoli; viaggiò a piedi, sostenne disagi, dormì sul suolo: non ne lamentò, pensava ad una gloria futura. A Napoli entrò nel campo di Sforza e di Braccio di Montone; apprese ad armeggiare, e parve prode; era avvenente, fu vezzeggiato dalla regina Giovanna; ma ei voleva un grado, e non ottenendolo, pensò di cercare miglior ventura; salpò per la Francia, e preso da corsari, fu ricondotta a Napoli. Ivi s’accostò a Jacopo Caldora e ottenne di comandare venti cavalli, e dopo essersi mostrato prode, trentacinque; tanto pena sovente l’uomo a porsi in occasione che chiarisca di quanto sia capace. In fatti Coleone fece di seguito l’assedio d’Aquila e di Bologna: prode, comandante e soldato, usava ad un tempo il consiglio e la mano: il Caldora vinse con lui; ei s’acquistò gloria, e l’essere richiesto a capitano dalla Veneta Repubblica.
Allora Coleone sotto il comando del Carmagnola combattè contro l’armi di Filippo Maria Visconti capitanale dal Piccinino; attendeva a quanto operavano que’ due rivali, e apprendeva dall’amico e dal nemico; osteggiò Cremona con tanta prudenza, che, spento il Carmagnola dalla gelosia dei Veneziani, ebbe il carico della guerra. Quindi difende Bergamo, prende la rôcca di Gardona, ritorna a Brescia vittorioso ed il Senato veneziano il rimerita creandolo capitano dell’infanteria.
Finalmente Coleone raggiunge un lungo desiderio, è comandante e può da sè condurre un’impresa; e la sua prima fu ardita eParve delirio; il fatto rispose: fe’ condurre alle foci dell’Adige due galee grandi, tre mezzane, e venticinque barche armate, e risalì il fiume fino quasi a Roveredo: era solo lungi da Torbole intorno a quindici miglia; ma in mezzo vi erano erti monti che separano il lago dalla valle dell’Adige; solo fra quelle erte si avvallava un piccolo lago di S. Andrea; Coleone e due mila fra soldati ed operai sgombrano la salita, abbattono piante, gettano ponti, e fatta la via, attaccano trecento buoi per ogni nave, sollevano, strascinano, trasportano la flotta dall’Adige sulla montagna e la ripongono nel piccolo lago. Restava ancora a superare il monte Baldo, si prese la via d’un torrente, aspra, tortuosa, angusta; tutto s’agguaglia alla pertinacia de’ Veneziani, e le navi salirono ove non aveano annidato che uccelli. Di là si calarono sul rapido pendio, sostenendole a corde rafferme a piante, e dopo quindici giorni d’improba fatica, la flotta, per via inusitata, calò nel lago, imperante Coleone.
Audace impresa audacemente eseguila, e che ben può contendere coi più famosi passaggi alpini antichi e moderni; poichè se è arduo condurre un’armata fra monti, non lo è meno trascinarvi trenta navi: non decise che d’una piccola fazione, quindi andò inosservata nella storia, tanto è vero che il fine dà merito ad un’impresa.
Coleone colla gloria accresceva di forze; avea cinquecento militi a proprio soldo e divenne capitano di ventura: quindi, fatta tregua di quella guerra, lasciò Venezia e s’accostò al Visconti, e presa in nome di lui varie castella del cremonese. Ma il Piccinino lo odiava, volle perderlo: fu accusato di tradimento, e il Duca il fe’ gittare nel carcere di Monza, ove restò un anno, solo visitato e confortalo dalla moglie Tisbe. Forse vi peria, ma fu ventura per lui, che le nequizie di Filippo Maria stancassero gli uomini e il cielo, e i Milanesi bisognando un capitano liberarono Coleone; ebbe il carico della guerra contro il Duca d’Orleans che pretendeva alla signoria dello Stato di Milano; e nell’11 ottobre 1447 ottenne al Bosco bella vittoria con una carica ardita e improvvista. Si raccese la guerra l’anno seguente fra’ Milanesi ed il Duca di Savoja, e Coleone nelle due battaglie del 2 e del 23 aprile al Bosco, acquistò gloria a sè ed all’Italia.
Dopo questi fatti, lasciò il campo de’ Milanesi e tornò a quello de’ Veneziani, indi di nuovo si collegò collo Sforza a danno di Venezia nel 1451, e finalmente tornò al soldo veneziano nel 1454: sono mutamenti vergognosi, ma consueti a que’ di, e tanti ne fecero Carmagnola, Sforza, Piccinino, e gli Stati stessi non ne dolevano: infatti, sebbene corresse voce che il Senato attendesse di far assassinare Coleone nel 1451, dopo lo prese ancora a proprio generale, e gli giede onori e tanta podestà, che a due senatori che vennero a visitarlo nell’ultima sua malattia, fra i sensi di gratitudine ei disse, consigliassero la repubblica di non commettere mai più a nessun generale l’autorità ed il potere che avea concessi a lui.
Fu per ventun’anno supremo generale dell’armata veneziana, ma furono anni di pace, e solo turbata nel 1467 da fuorusciti firentini che mossero guerra a’ Medici: chiesero sussidio alla Repubblica Veneta: non accondiscese, ma concesse al Coleone di rendersi co’ suoi militi in loro soccorso: passò il Po, fu sull’Imo-