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sguazza dentro, con quei calzoni che strascicano, e quel giacchettone troppo lungo, con le maniche rimboccate sino ai gomiti. E studia, s’impegna; sarebbe uno dei primi se potesse lavorare a casa tranquillo. Questa mattina è venuto alla scuola col segno d’un’unghiata sopra una gota, e tutti a dirgli: - È stato tuo padre, non lo puoi negare sta volta, è tuo padre che t’ha fatto quello. Dillo al Direttore, che lo faccia chiamare in questura. - Ma egli s’alzò tutto rosso con la voce che tremava dallo sdegno: - Non è vero! Non è vero! Mio padre non mi batte mai! - Ma poi, durante la lezione, gli cascavan le lacrime sul banco, e quando qualcuno lo guardava, si sforzava di sorridere, per non parere. Povero Precossi! Domani verranno a casa mia Derossi, Coretti e Nelli; lo voglio dire anche a lui, che venga. E voglio fargli far merenda con me, regalargli dei libri, metter sossopra la casa per divertirlo e empirgli le tasche di frutte, per vederlo una volta contento, povero Precossi, che è tanto buono e ha tanto coraggio!



17, martedì

Quest’oggi alle due, appena entrato nella scuola, il maestro chiamò Derossi, il quale s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia a noi, e cominciò a dire col suo accento vibrato, alzando via via la voce limpida e colorandosi in viso: - Quattro anni sono, in questo giorno, a quest’ora, giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, morto dopo ventinove anni di regno,