Pagina:Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu/16

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Lettera Seconda 9

passione non cedeva ad alcuno d’alcuna lingua, e che l’italiana mostrava in esso una tal robustezza, e gemeva in un tuono così pietoso, che potrebbe in un caso vincere ogni altra.

E buon per noi, che lungamente si lesse, e si gustò questo tratto, perché tutto il resto ci fastidì senza misura. Il Purgatorio, e il Paradiso molto peggio si stan dell’Inferno, che nè pur una di tali bellezze non hanno, la qual si sostenga per qualche tempo con nobile poesia. Oh che sfinimento non fu per noi lo strascinarci per cento Canti, e per quattordici mille versi in tanti cerchi, e bolge, tra mille abissi, e precipizj con Dante, il qual tramortiva ad ogni paura, dormiva ad ogni tratto, e mal si svegliava, e nojava me suo Duca, e condottiere delle più nuove, e più strane dimande che fosser mai! Io mi trovava per lui divenuto or Maestro di Cattolica teologia, or Dottore della Religione degl’idoli, insieme le favole de’ Poeti, e gli articoli della Fede Cristiana, la Filosofia di Platone e quella degli Arabi mescolando, sicché mi pareva essere troppo più dotto che non fui mai, e meno savio di molto, che non sia stato vivendo, e poetando. Acheronte, Minosse, Caronte, il Can trifauce ben io conoscea nell’Inferno poetico; ma in un con loro il Limbo, e i Santi Padri, e con essi in poca distanza Orazio, Ovidio, Lucano, indi a poco un Castello, ove stanno Camilla e Pentesilea con Ettore e con Enea; Lucrezia, Julia, Marzia, Corniglia, e Saladino Soldano di Babilonia con Bruto; infin Dioscoride con Orfeo, Tullio con Euclide, e con tal gente i due Arabi Averroè, ed Avicenna, tutto ciò veramente m’era novissimo, e non sapea più dove mi fossi. Cerbero il gran vermo, e una grandine che con lui tormenta i