Pagina:Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu/21

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14 Lettera Terza

il traviarono. Queste il condussero a parlare malignamente di tanti fatti, e persone del tempo suo, delle quali non s’ha più contezza, e a far pompa vana di tanta erudizione fuor di proposito, poiche in vero dottissimo ei fu, ma qual esser potea di que’ dì, sopra d’ogni altro. Il volerlo tutti imitare, il proporlo ai giovani, l’esaltarlo senza conoscerlo, e senza intenderlo quest’è che noi condanniamo. Se a miglior tempi fosse vissuto sarebbe forse il maggior de’ Poeti. A Dante null’altro mancò che buon gusto, e discernimento nell’arte. Ma grande ebbe l’anima, e l’ebbe sublime; l’ingegno acuto, e fecondo, la fantasia vivace, e pittoresca, onde gli cadono dalla penna de’ versi, e de’ tratti mirabili. Anzi giudico, che da questi venuto sia l’abuso d’imitazione tra gl’italiani. La sua Comedia, mostruosa per altro, presenta qua e là certe immagini così forti e terribili, de’ terzetti sì bene organizzati, che t’incantano in guisa da non sentir l’asprezza d’altri dodici, o venti, che vengan dopo. Quei si tengono a mente, quelli si recitano, e divengono una ricchezza della nazione. Il tempo la consacra, e si crede mercè di quelli più bello assai che non è tutto il resto. Gl’imitatori, sempre inferiori al lor modello, ne crescono il pregio. Gl’inerti, e pedanteschi letterati vi fanno la glosa; si citano le sentenze dai freddi morali; le strane parole si registrano ne’ vocabolarj, e tanti infin partigiani, e stimatori col tempo vanno moltiplicando, che hai contro di te un popolo immenso a voler censurare il gran Poeta. Perché, dimmi ti prego, quanti sono in una intera nazione, che possono giudicare per intimo senso, e per anima armonica del poetar generoso? Dieci o dodici al più; e la metà di questi nacque nelle campagne, o in condizione servile, onde si portano nel