Pagina:Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu/37

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30 Lettera Quinta
Che non si vedea in ramo mover foglia,
Tanta dolcezza avea pien l’aere e il vento;

o nobilitare cotanto la forza, e l’ardore celeste di due occhi spiranti virtù?

L’aer percosso da sì dolci rai
S’infiamma d’onestate e tal diventa,
Che il dir nostro e il pensier vince d’assai.
Basso desir non è ch’ivi si senta,
Ma d’onor di virtute. Or quando mai
Fu per somma beltà vil voglia spenta?

Noi certamente gran fama otteniamo per le immagini inusitate, e gentili, e vive che i nostri versi colorano, e fanno immortali. Ma convien dirlo, assai sovente si rassomigliano l’une alle altre ne’ nostri poemi. I fiumi che versan l’onda fuori dell’urne, le najadi de’ fonti, le ninfe de’ boschi, i zefiri nell’erbose campagne, l’aurora, che con le dita di rose apre le porte al giorno, e i cavalli del Sole, e i varj occhi delle divinità, e l’ali della vittoria, e le trombe della fama, e l’amor con la benda, con l’arco, con le fiaccole, e tutto il resto, ritornano ad ogni passo tra l’opere nostre a comparire. Poco o nulla di tutto ciò serve al Petrarca. Il sole per lui è un rivale innamorato, e alfine sconfitto; ma con qual grazia!

A lui la faccia lacrimosa e trista
Un nuviletto intorno ricoverse;
Cotanto d’esser vinto gli dispiacque.

Amore è un avversario chiamato in giudicio avanti il tribunale della ragione, un fiume non è un vecchio su l’urna, ma un messaggero, che va innanzi per veder Laura piuttosto, e per annunziarle il venir del Poeta. I fiori non sol risentonsi sotto al piede di Laura, ma pregan d’esserne tocchi.