Pagina:Eneide (Caro).djvu/217

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176 l’eneide. [645-669]

645Sai d’esser seco e di trattar con lui;
Truova questo superbo mio nimico,
E supplichevolmente gli favella.
Dilli che Dido io sono, e che non fui
In Aulide co’ Greci a far congiura
650Contra a’ Troiani, e che di Troia a’ danni
Nè i miei legni mandai, nè le mie genti.
Dilli che nè le ceneri, nè l’ombre
Nè del suo padre mai nè d’altri suoi
Non vïolai. Qual dunque o mio demerto
655O sua durezza fa ch’ei non ascolti
Il mio dire, e me fugga, e sè precipiti?
Chiedili per mercè de l’amor mio,
Per salvezza di lui, per la mia vita,
Ch’indugi il suo partir tanto che ’l mare
660Sia più sicuro, e più propizi i venti.
Nè più del maritaggio io lo richieggo
C’ha già tradito, nè vo’ più che manchi
Del suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un picciol tempo, e d’ogni obligo sciolto
665Io li dimando, e tanto o di quïete,
O d’intervallo al mio cieco furore,
Ch’in parte il duol disacerbando, impari
A men dolermi. Questo è ’l dono estremo
Che da lui per tuo mezzo agogna e brama


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