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zione di un esercito da cui la Sicilia era stata per trentatrè anni tenuta schiava, e contro cui Messina ancor combatteva. L’opinione popolare dichiarossi tanto fortemente avversa alle condizioni del 7 marzo, che decise il Comitato Generale, essere «inaccettabili come contrarie alla Costituzione del 1812.» E lord Minto allora insistette, che il Comitato facesse altre proposizioni. Furon fatte; ma addusse il Governo di Napoli l’impossibilità di discuterle senza il concorso del Parlamento napolitano, non ancora riunito. E il giorno precedente l’apertura del Parlamento siciliano, fu pubblicata una protesta del Re, nella quale erano accusati i Siciliani «di mettere in pericolo il risorgimento d’Italia, e a rischio l’indipendenza e i destini gloriosi della patria comune.» La quale protesta dichiarava inoltre nullo e vano, anticipatamente, ogni Atto che potesse esser fatto in Sicilia. Così ai due paesi non rimaneva altro mezzo che la fortuna delle armi.

Empieva la tremenda previsione di una guerra fratricida di orrore e di costernazione molti nobili cuori di qua e di là del Faro. — «Come! gridava il Dottore nostro amico; mentre l’antico grido di guerra: Fuori il barbaro! risuona per tutta la penisola; — mentre la guerra coll’Austria è divenuta inevitabile per l’eroica insurrezione di Milano, — è egli possibile che ci siano due nobili Stati italiani, occupati non ad adoperare le loro forze contro il comune nemico, ma sì l’uno contro l’altro?» E Antonio si cacciava le mani nei capelli. Forse che non c’era modo di allontanare questa orribile calamità? Forse c’era; nè conveniva accasciarsi e disperare. Se il Governo napolitano si fosse potuto trarre ad accedere alla sola condizione che nessuno esercito, fuor del siciliano, tenesse guarnigione nell’isola, è certo che i patti del 7 di marzo sarebbero stati accolti, e la pace ristabilita fra i due paesi. Almeno tale era la ferma opinione di Antonio e di molti suoi amici del partito moderato, coi quali dibatteva questo punto. Risolvettero pertanto di fare un grande sforzo per ottenere questo desiderabile effetto. Antonio stese un Memoriale, nel quale con gran forza di logica esponeva le ragioni che avevano a persuadere il Governo napolitano di cedere nella quistione dell’esercito; e nel quale estendevasi largamente enumerando i benefizii certi, che dalla concordia fra Napoli e Sicilia sarebbero per derivare alla causa comune invocata dallo stesso Re nella sua protesta. Questa Memoria lesse a’ suoi amici; e colla piena loro approvazione la spedì a Napoli; e fu rimessa poi in mano di uno de’ Ministri; fra il quale e Antonio esisteva stima e benevolenza scambievole — frutto di