Pagina:Il mio Carso.djvu/110

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ternità staccato dagli altri individui ed egli aspira a esser tutto, dalla punta delle dita alla sua fede, tutto un segreto invisibile, senza che gli altri lo possano cercare, muto e solo; egli aspira alla sua pace d’individuo, dove la sua forma non sia turbata dall’altre; esser tutto suo. Ed egli patisce finchè non arriva: questa è la vita. L’individuo desidera di morire dagli altri. E naturalmente noi non possiamo comprendere la sua morte.

Già da bimbo esiste nell’uomo il rimpianto. Già allora sentiamo che ci manca qualche cosa che godemmo e che s’è persa, e piangiamo; e tutti gli uomini assieme, tutta la storia degli uomini non può consolare il piccolo bimbo che rimpiange una cosa. Questa è l’umanità in cui ho creduto. Lavorare è cercar invano un ristoro per la cosa perduta. Ognuno si cerca, ipocritamente, selvaggiamente, sul corpo della donna, nella mano dell’amico, nella fede, in Dio. Ognuno, vanamente. Io solo, quassù, solo, sono sincero; ma anche la solitudine e la sincerità non bastano. Non basta sapere. Io penso in parole che gli altri pensano. È necessario morire. Solo questo è indispensabile: essere.

Ma com’è possibile che l’individuo sia, quando ha raggiunto la sua solitudine e non c’è più ostacolo davanti a lui? Egli muore imperfetto: come si perfeziona senza misura, meta, mezzo, attività? Egli muore uomo. Che cosa avviene nello spirito individuale che muore, perchè si possa mutare così integralmente il suo carattere umano? Dunque l’ultimo atto di vita è l’integratore dell’individuo? In quell’attimo egli è perfetto, e gode umanamente della sua perfezione divina, perchè nessuna cosa umana può morire prima d’aver raggiunto la sua meritata divinità.