Pagina:Il mio Carso.djvu/26

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buto Calligaricicich cercava di affogarlo con dieci, venti tocciade consecutive? ― Ed egli gli respirava in faccia: ― cih, cih, cich, ― e rispariva. Chi sapeva dar schizzata più tagliente di Vincenzo? Era come una fiatata di mostro marino la mezzaluna di mare che balzava su, sotto le sue mani a cuneo rovesciato. E Steno notava sott’acqua per un minuto, e Pipi era come un piccolo pescecane predace.

E se uno di noi cedeva nella lotta, per sette giorni doveva passare attraverso il fuoco di fila dei compagni. Perchè il «Dagli!» era una società con leggi severe, e nessuno s’arrischiava di disobbedire al nostro capo.

Ora Steno, il nostro capo, è morto. Era un professore che s’è ammazzato, nevrastenico.


E raccontavo belle storie ai piccoli cugini che m’ascoltavano accoccolati d’intorno, nell’ombrosa veranda sul mare. Il mare stava zitto, ascoltando. La casa vicino a lui, dove abitò Tartini, aveva chiuse tutte le persiane e dormiva, bianca nel sole, con gli zii e gli altri villeggianti. Silenziose erano le larghe camere matrimoniali sostenute da travoni squadrati.

Era l’ora del caldo e del riposo. La terra s’ampliava nella distesa del sole. Il cielo era chiuso e grave. Neanche una vela sul mare. Tacevano le vespe e i bombi. Un frutto tonfava giù dal ramo. Era il grande silenzio infocato, quando gli occhi dei colombi stanno chiusi sotto l’ala e il bue rumina accosciato corpulento sulla paglia fresca.

Ma solo i bimbi in quell’ora si buttano nei prati come un ciapo di storni autunnali e saccheggiano le ficaie,