Pagina:Il mio Carso.djvu/39

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abbia l’audacia di non credergli, di fargli ripetere l’esame e bocciarlo. Ognuno può pensare, dentro di sè, come vuole, ma v’assicuro che ognuno finisce per credere a ciò che per convenienza deve fare. E così lo scolaro lo portano in quattro nella sala della direzione, lo posano con le gambe alte sul bracciolo del sofà, gli slacciano la cravatta, il vecchio bidello accorre barcollando con la cassetta croce-rossa, gli toccano il polso, lo spruzzano. ― Ma voi non sapete trattenere il respiro per un minuto. Ah se un barbaro venisse tra noi, compagni miei, come ci metterebbe tutti in sacco!

Ma questo si dice a cose finite. In realtà io ero ammalato sul serio di anemia cerebrale e vissi per sei mesi continuamente in carso. Fu allora che scopersi per la prima volta il mio carso.


Mi conosceva la terra su cui dormivo le mie notti profonde, e il grande cielo sonante del mio grido vittorioso, quando sobbalzando con l’acque giù per i torrenti spaccati o franando dai colli in turbine di lavine e terriccio, d’un colpo di piede rompevo la corsa per cogliere il piccolo fiore cilestrino.

Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante. Risbalestrato da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno, risbalzavo in uno scatto furibondo e romoreggiavo nella foresta come un fiume che scavi il suo letto. E dischiomando con rabbia l’ultima frasca ostacolante, ne piombavo fuori, i capelli irti di stec-