Pagina:Il piacere.djvu/182

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dell’ombra, in quella declinazion serena dell’estate, ora si sentiva dall’insolito contrasto riscuotere e sollevare e intorbidare con una strana violenza. Da prima, fu come un’angoscia confusa, tumultuaria, piena di palpiti inconsapevoli. Affascinato dal tramonto bellicoso, egli non anche giungeva a veder chiaramente in sè medesimo. Ma, quando la cenere del crepuscolo piovve spegnendo ogni guerra e il mare sembrò un’immensa palude plumbea, egli credè udire nell’ombra il grido dell’anima sua, il grido d’altre anime.

Era dentro di lui, come un cupo naufragio nell’ombra. Tante tante voci chiamavano al soccorso, imploravano aiuto, imprecavano alla morte; voci note, voci ch’egli aveva un tempo ascoltate (voci di creature umane o di fantasmi?); ed ora non distingueva l’una dall’altra! Chiamavano, imploravano, imprecavano inutilmente, sentendosi perire; s’affievolivano soffocate dall’onda vorace; divenivano deboli, lontane, interrotte, irriconoscibili; divenivano un gemito; s’estinguevano; non risorgevano più.

Egli restava solo. Di tutta la sua giovinezza, di tutta la sua vita interiore, di tutte le sue idealità non restava nulla. Dentro di lui non restava che un freddo abisso vacuo; d’intorno a lui, una natura impassibile, fonte perenne di dolore per l’anima solitaria. Ogni speranza era spenta; ogni voce era muta; ogni áncora era rotta. A che vivere?

Subitamente, l’imagine di Elena gli risorse nella memoria. Altre imagini di donne si sovrapposero a quella, si confusero con quella, la