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6 ottobre. ― Il 25 di settembre, sul sedile di marmo, nel bosco degli álbatri, egli mi disse: ― Io so che voi non mi amate e non potete amarmi. ― E il 3 di ottobre: ― Voi mi amate, voi mi amate, voi non potete non amarmi.

In presenza di Francesca, m’ha chiesto se gli permettevo di fare uno studio delle mie mani. Ho consentito. Incomincerà oggi.

E io sono trepidante e ansiosa, come se dovessi prestar le mie mani a una tortura sconosciuta.


Notte. ― È incominciata la lenta, soave, indefinibile tortura.

Disegnava a matita nera e a matita sanguigna. La mia mano destra posava sopra un pezzo di velluto. Sul tavolo era un vaso coreano, giallastro e maculato come la pelle d’un pitone; e nel vaso era un mazzo d’orchidee, di quei fiori grotteschi e multiformi che son la ricercata curiosità di Francesca. Talune, verdi, di quel verde, dirò così, animale che hanno certe locuste, pendevano in forma di piccole urne etrusche, con il coperchio un po’ sollevato. Altre portavano in cima a uno stelo d’argento un fiore a cinque petali con in mezzo un calicetto, giallo di dentro e bianco di fuori. Altre portavano una piccola ampolla violacea e ai lati dell’ampolla due lunghi filamenti; e facevano pensare a un qualche minuscolo re delle favole, assai gozzuto, con la barba divisa in due trecce alla foggia orientale. Altre in fine portavano una quantità di fiori gialli, simili ad angelette in veste lunga