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che verso l’altra. Gli indugiavan nell’orecchio le vaghe e gentili parole che la senese aveva dette guardando insieme con lui a traverso i vetri cader la neve mite come il fior del pesco o il fior del melo in su gli alberi della Villa Aldobrandini già illusi da un presentimento di stagion novella. Ma, prima d’uscir pel pranzo, diede ordini molto accurati a Stephen.

Alle undici egli era d’innanzi al palazzo; e l’ansia e l’impazienza lo divoravano. La bizzarria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il mistero, l’incertezza gli accendevano l’imaginazione, lo sollevavano dalla realità.

Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di febbrajo, un plenilunio favoloso, di non mai veduto lume. L’aria pareva impregnata come d’un latte immateriale; tutte le cose parevano esistere d’una esistenza di sogno, parevano imagini impalpabili come quelle d’una meteora, parevan esser visibili di lungi per un irradiamento chimerico delle loro forme. La neve copriva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un’opera di ricamo più leggera e più gracile d’una filigrana, che i colossi ammantati di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva a similitudine d’una selva immobile di gigli enormi e difformi, congelato; era un orto posseduto da una incantazione lunatica, un esanime paradiso di Selene. Muta, solenne, profonda, la casa dei Barberini occupava l’aria: tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi gittando un’ombra cerulea, diafana come una luce; e quei candori e quelle ombre sovrapponevano