Pagina:Iliade (Monti).djvu/235

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224 iliade v.489

Che di senno il privò: digli che abborro
Suoi doni, e spregio come vil mancipio490
Il donator. Nè s’egli e dieci e venti
Volte gli addoppii, nè se tutto ei m’offra
Ciò ch’or possiede, e ciò ch’un dì venirgli
Potría d’altronde, e quante entran ricchezze
In Orcoméno e nell’egizia Tebe495
Per le cento sue porte e li dugento
Aurighi co’ lor carri a ciascheduna;
Mi fosse ei largo di tant’oro alfine
Quanto di sabbia e polve si calpesta,
Nè così pur si speri Agamennóne500
La mia mente inchinar prima che tutto
Pagato ei m’abbia dell’offesa il fio.
Non vo’ la figlia di costui. Foss’ella
Pari a Minerva nell’ingegno, e il vanto
Di beltà contendesse a Citerea,505
Non prenderolla in mia consorte io mai.
Serbila ad altro Acheo che al grand’Atride
Più di grado s’adegui e di possanza.
A me, se salvo raddurranmi i numi
Al patrio tetto, a me scerrà lo stesso510
Peléo la sposa. Han molte Ellade e Ftia
Figlie di regi assai possenti: e quale
Di lor vorrò, legittima e diletta
Moglie farolla, e mi godrò con essa
Nella pace, a cui stanco il cor sospira,515
Il paterno retaggio. E parmi in vero
Che di mia vita non pareggi il prezzo
Nè tutta l’opulenza in Ilio accolta
Pria della giunta degli Achei, nè quanto
Tesor si chiude nel marmoreo templo520
Del saettante Apollo in sul petroso
Balzo di Pito. Racquistar si ponno