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LE SELVE ARDENTI 37

— Ben guardata, a quanto pare — rispose John.

— Vi sono bestie feroci dunque qui?

— Non sono che coyotes: agli altri non permetto di entrare nella mia casa.

— Chi ha addomesticato tutte queste belve?

— Mio padre; ma obbediscono anche a me.

— Uhm!... Io non mi fiderei e non dormirei tranquillo.... E tuo padre dov’è?

— Lo scotennarono la settimana scorsa e poi lo scaraventarono nella rapida — rispose la giovane colla sua voce monotona che non tradiva nessuna emozione.

— Chi è stato che l’ha ucciso?

— Gl’indiani emigrati dal sud.

Vedendoli perlustrare le rive del fiume di sopra alla rapida, un giorno ebbe la brutta idea di attraversare il corso coll’ultimo canotto che possedevamo, credendo di trovare in quegli uomini dei compatriotti, poichè erano pure rossi di pelle e portavano penne in testa.

Invece fu preso, legato al palo della tortura e scotennato. Ma la Grande Aquila, così si chiamava mio padre, morì da eroe cantando il suo inno funebre.

Ora il suo corpo si macera dentro la rapida.

Così si è spento l’ultimo guerriero della tribù degli Atabask.

Il Grande Spirito l’ha voluto. —

Erano entrati. Uno stretto corridoio, aperto nella viva roccia, con gradini tagliati rozzamente, si era offerto dinanzi agli sguardi dei quattro scorridori.

Un fracasso assordante si ripercuoteva dentro il rifugio degli ultimi Atabask.

La rapida faceva udire la sua voce possente anche dentro le caverne, dove si erano spenti gli ultimi indiani della disgraziata tribù.

Il fragore era così intenso, che i quattro uomini e la giovane indiana non potevano quasi nemmeno intendersi.

Ad un tratto una luce intensissima, superiore a quella lanciata da mille candele riunite, colpì in pieno gli scorridori accecandoli di colpo.

Avevano raggiunto la cima della gradinata e si erano trovati dinanzi ad una immensa caverna piena di luce.

— Dove siamo noi? — chiese John alzando la voce per dominare il fragore della cascata.

— Nell’ultimo rifugio degli Atabask! — rispose l’indiana. — Non abbiate paura.