Pagina:Lettere autografe Colombo.djvu/44

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maginazioni poetiche e dalle avidità mercantili, io non saprei meglio esprimerli che recandovi innanzi le parole di uno svegliatissimo fiorentino, scritte nel 1500 da Malaca, quando per la prima volta v’incontrò le navi dei Chinesi: «Credete che le cose di qua sono di gran sostanza: cose grandissime; vaste città murate; tratti di mercanzia e di ricchezza; costumi e modi di vivere diversi. Noi altri siamo uno zero; l’India è la minore e più piccola cosa che sia qui, sendo pure una sì grande rispetto a noi.... Sono cose per chi le ha viste da non crederle: pensate chi non le ha viste!» Così per costui l’Italia rispetto all’Asia è uno zero, come uno zero era stata pe’ suoi padri rispetto alle grandi idee della Chiesa universale e della Monarchia Cristiana. Direbbesi che per uno strano destino in Italia sempre vi sia sproporzione fra i concetti e i fatti, e che l’indomabile istinto dei dominatori del mondo non lasci riposare, neppure nell’ignoranza della propria miseria, questo popolo irrequieto, sulla tomba del quale potrebbesi scrivere quella famosa epigrafe: Aut Cæsar aut nihil.

Meno si conoscono le imprese marittime degli Italiani verso Occidente; e nondimeno parranno più mirabili, se si pensi che non ebbero stimolo di urgenti interessi. Fin dal 1281, mentre Marco Polo scopriva l’Oriente Asiatico, i genovesi Vadino e Guido Vivaldi uscirono dallo stretto Gaditano e costeggiando l’Africa si drizzarono verso mezzodì per trovarvi quel passaggio alle Indie che i Portoghesi cominciarono a cercare solo 130 anni dopo. Non atterriti dallo sfortunato esito della prima spedizione, Tedisio Doria e Ugolino Vivaldi, genovesi anch’essi, uscirono di nuovo a tentar l’Atlantico nel 1291, e scoprirono o trovarono di nuovo le dimenticate Canarie; l’una delle quali, l’isola Lanzerotta, porla il nome di un altro naviga-