Pagina:Lettere autografe Colombo.djvu/56

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36 cristoforo

samente divisasse come perpetuare questi onori nella sua famiglia; nè voglio negare ch’ei razzolasse avidamente l’oro e le altre preziosità; nè che vendesse schiavi molti selvaggi. Ma dirò altresì che la stessa esorbitanza della sua domanda parve alla Corte spagnuola segno di alto animo, e prova di fermissima convinzione; dirò ch’egli, reduce dal suo ultimo viaggio, vecchio, senza asilo, senza stipendio e indarno supplicante per sè, instava perchè l’erario soddisfacesse le paghe ai suoi marinai; dirò ch’egli non vide mai l’oro cogli occhi dell’avarizia: «L’oro dic’egli, è cosa eccellente; di lui si formano i tesori; esso ci fa compiere le buone opere in questo mondo, ed accorcia alle anime il cammino del paradiso». Ma non l’acciecò mai quella idolatria dei metalli preziosi, di cui fu vittima la Spagna, e con istinto veramente italiano raccomandava ai suoi padroni, che più delle miniere curassero i campi fecondi di Haiti. Agli indigeni poi fu umanissimo, anzi amorevole: e pietoso della loro ignoranza comandò ai marinai che contrattando con loro avessero riguardo all’equità: e mentre in Europa si disputava se a quelle creature si avessero ad accomunare i diritti della umanità, ei diceva: «No; non sono inerti, nè rozzi; ma anzi d’ingegno perspicassimo, poichè d’ogni cosa cercano darsi una qualche spiegazione». Vendette, è vero, Colombo, pressato dal Fisco spagnuolo, o da inique circostanze, i prigionieri Caraibi, generazione d’uomini indomabili e sanguinarii; ma agli altri, che trovò pacifici ed ospitali, sempre ebbe rispetto, e, quand’altro non potea, compassione: e soleva ripetere che essi erano la vera ricchezza delle terre da lui scoperte: e moriva dolente e spaventato e pieno quasi di rimorsi per lo infierire degli immanissimi Spagnuoli contro di loro, e scriveva con paterne viscere nel suo testamento,