Pagina:Lettere autografe Colombo.djvu/59

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colombo 39

«Le terre, dic’egli nella sua lettera rarissima, che qui alle Altezze Vostre appartengono (scriveva al Re ed alla Regina di Spagna) sono più vaste e ricche di quelle di tutti gli altri cristiani insieme; ed io non ho ormai più capello sulla mia testa che non sia incanutito, ed ho speso tutto quanto restavami, e m’è stata tolta ogni cosa e venduta fin la casacca. Credete, io sono infelicissimo; fino adesso piansi sugli altri, ed ora il cielo siami misericordioso, e la terra pianga su di me..... isolato nella mia pena, infermo, aspettando ciascun giorno la morte, circondato da un milione di selvaggi crudeli e nemici, lontano dai sacramenti della Santa Chiesa; se la mia anima si separerà in questo luogo dal corpo, se ne andrà senza suffragi in perdizione».

Qual meraviglia se in mezzo a questi ineffabili dolori lo spirito libero ed ardente sorvola alle pressure del tempo e piglia autorità e forma di una parola superiore e divina. E in verità Colombo fu visitato dalle allucinazioni, stava per dire fu consolato da quelle esaltazioni impersonali dell’anima che, sfuggita alle miserie della individualità, si raddoppia e si divinizza. Abbandonato dagli uomini e bersagliato dall’iniqua fortuna ei sente nel cuore una voce pietosa e severa che lo rimbrotta lento servo di Dio, gli ricorda la gloria acquistata, le chiavi dell’Oceano a lui donate, le terre ricchissime concessegli da ripartire, e segue domandando: «O stolto e tardo a credere, chi ti ha afflitto? Dio o il mondo? Quel che ora l’avviene è la ricompensa delle fatiche sostenute e servendo altri padroni; ma non temere; sia saldo! tutte queste tribolazioni sono scritte sul marmo e non ti avvengono senza ragioni».

Una mente scossa da gioie e dolori sì grandi non potea certo durare in una volgare tranquillità; però