Pagina:Lucifero (Mario Rapisardi).djvu/319

Da Wikisource.

canto decimoquinto

Si scagliò che parea critico arguto,
Che tumido di norme e di sofismi
650Al tallon d’un poeta avventi il morso.
Non fûr tardi a seguir l’eroico esemplo
L’altre bestie devote; anzi ad un punto
Per ogni verso si scagliaron tutte,
E, stupendo a ridir, correano a morte
655Come a danza, o convito. Alti lamenti
Mettea dal petto il Nume; e a lui d’intorno
Per la reggia del cielo era un tedesco
Strano accordo di ragli e di grugniti.
Tentennava l’eroe, commiserando,
660La testa, e con un rigido sorriso:
— Ecco, Eterno, dicea, qual poco armento
Di cotanti fedeli oggi ti resta! —
Toccò in tal dir co’l penetrante raggio,
Che nel pugno tenea, la nebbia densa
665In cui tutto era chiuso il Dio morente,
E l’aprì tosto, e dissipolla in guisa
Che il ciel limpido apparve e la sparuta
Faccia del Nume agonizzante. Ai piedi
Morto giaceagli il divo augel, che il grembo
670Visitò dell’ebrea vergine, e sciolto
Dal trino amplesso, a cui lo strinse il mito,
Stette innanzi all’eroe tranquillamente
Gesù. Splendea nel mansueto aspetto
Tutta umana bellezza, e una fragrante
675Lucid’aura di pace e di dolore
Gli alíava d’intorno alla persona
Candidissima. Il vide, e il riconobbe
Lucifero, e parlò:
                        — Ben la catena
Di tua divinità spezzi in quest’ora,
680Santo eroe dell’amore e del perdono;
Ben ritorni qual fosti al luminoso



— 315 —