Pagina:Lucifero (Mario Rapisardi).djvu/55

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canto terzo

Delle pecore sue non si smarrisse,
155Al comando di lui prese il coltello,
E con celestíal garbo l’immerse
Ne la gola di mille. Un mar di sangue
Coprì la terra; il divo manigoldo
Rincelò, carezzò l’insanguinata
160Barba, e pago del suo regno sorrise
Come al settimo giorno. Io nel fumante
Sangue mi astersi, e fulminai la voce.
Pugnâr vivi ed estinti, e nuova intorno
Pullulò dalla strage onda di vita.
    165Gemina possa è libertà: risveglia
Le menti in pria, poi discatena i polsi.
Uom, che servo ha il pensier, la destra ha inerme;
Spada non ha chi i suoi diritti ignora.
Ricca d’affanni e d’ogni mal contesta
170Egli è certo la vita; e pur qual turpe
Cosa è nel mondo, che al servir s’agguagli?
E qual di tutte è servitù più infesta
Che servir, non volente, al ferreo cenno
D’assoluto signor? Popol che geme
175Fra’ ceppi, e sente del suo mal vergogna,
E metà schiavo, e qual gode e s’oblia
Schiavo è due volte, e d’ogni ingiuria è degno.
Dinanzi a re, che il suo piacer fa legge,
E a nessun mai dell’opre sue risponde,
180Leggi non son, nè cittadini: ai sommi
Gradi i pessimi esalta, il buon deprime,
L’altrui sostanze impunemente invade,
Grandi e piccoli offende, il sangue sparge,
L’onor calpesta; è tutto insomma ei solo.
185Nè giustizia miglior, nè più felice
Stato è per me dove la plebe impera.
Idra ingorda è la plebe, e per ciascuna
Testa ha due bocche: a divorar la prima,



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