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si rialzò e, tolta la candela, si guardò attorno, gli parve impossibile non avere riconosciuto a prima giunta il quadro, le sedie, lo specchio, che lo guardavano tutti, ne lo rimproveravano.

Ma come mai, pensava Silla, come mai quegli arredi dell’antica stanza di sua madre si trovavano essi lì, in una casa sconosciuta, presso un uomo di cui egli non aveva mai veduto il viso, nè tampoco udito proferire il nome da chicchessia? Veramente erano stati venduti parecchi anni prima della morte di sua madre, e il conte d’Ormengo poteva bene averli acquistati per caso? Ah no, non era possibile.

Sedette alla scrivania, trasse dal portafogli una lettera di gran formato, la lesse, la rilesse con attenzione febbrile.

Diceva così:


R. . . . . . 10 agosto 1871


«Signore,

«Noi non ci siamo mai visti e Lei, molto probabilmente, non ha mai inteso il mio nome, benchè appartenga a una vecchia razza italiana che lo ha sempre portato, in casa e fuori, a piedi e a cavallo, molto come si deve. È tuttavia necessario, per Lei e per me, che noi ci parliamo. Siccome io ho cinquantanove anni, Lei verrà da me.

«Troverà un calesse posdomani sera alla stazione di . . . . sulla linea Milano-Camerlata; e troverà alla mia casa la ospitalità poco cerimoniosa che io pratico con gli amici più saldi; i quali hanno poi la compiacenza di rispettare le mie abitudini. Mi permetto di dirle che vi è tra queste l’abitudine di aprire la finestra se un camino fuma in casa mia, e di aprire, se vi fuma un uomo, la porta.

«Io l’aspetto, caro signore, nel mio romitaggio.


«Cesare d’Ormengo