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— Fanny — suggerì il commendator Vezza. Nessun altro nome fu pronunciato.

— Dunque — continuò il frate — non v’è donna in casa che abbia nome Cecilia?

— No — risposero tutti, uno dopo l’altro.

— Ebbene, io sono convinto che l’altra notte una donna, una Cecilia, è entrata nella stanza del conte Cesare e lo ha spaventato, lo ha irritato a morte.

Nessuno fiatò. I Salvador, il Vezza guardavano il frate a bocca aperta; il Mirovich teneva gli occhi bassi, il mento sul petto: pareva sapesse già da prima quello che il frate veniva dicendo. Questi si alzò e andò a piantarsi in mezzo alla camera.

— Ecco — diss’egli accennando alla parete sinistra — quello è il letto; il conte fu trovato in camicia, bocconi sul pavimento, con le braccia distese verso l’uscio. Questo lo sanno anche lor signori. Ma vi sono delle altre cose che non sanno. L’uscio del corridoio, che il conte chiude sempre quando va a letto, era aperto. Sul letto fu trovato da Giovanna un guanto, questo.

Egli trasse di tasca un guanto piccolissimo. Il Vezza e Nepo lo afferrarono insieme, corsero alla finestra per esaminarlo bene. Nepo esclamò subito:

— Buon Dio, non è un guanto. Fu, chi sa quando, un guanto 5 un quarto o 5 mezzo, a un sol bottone; guanto da ragazzina di dodici anni: adesso è un cencio scolorato, ammuffito.

— Bene, quel cencio, che non può appartenere al conte, non cadde sul suo letto, ma vi fu gettato, perchè il letto è assai largo e il guanto si trovò confitto fra il capezzale e la parete. Il candeliere del conte, lo smoccolatoio, la tazza che egli è solito tenere sul tavolino da notte, si trovarono sparsi a terra, presso l’uscio. Deve averli scagliati lui in un impeto d’ira dopo aver cercato invano, a tastoni, gli zolfanelli che dovette rovesciare dal tavolino perchè si trovarono disseminati a piè del