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corre sul dorso agli scogli sporgenti dall’acqua. Dentro dalla balaustrata è un gran viale; dentro dal viale una lista di aiuole fiorite, quindi un’alta e spaziosa serra d’agrumi che nella buona stagione manda i suoi avamposti, certi enormi vasi di limone, a specchiarsi dai pilastrini della balaustrata nel lago chiaro. In fondo al viale il muro di cinta è dissimulato da una selvetta di abeti che lo accompagna su pel monte, come un nastro nero, avvolgente la casetta del giardiniere presso il cancello, che mette, per un ripido viottolo conosciuto da noi, alla strada provinciale.

Con i suoi cipressi, con le vigne, con la collana d’abeti, con il lago a’ piedi, la villa sarebbe assai graziosa a guardare in fotografia a traverso le lenti d’uno stereoscopio, se la scienza sapesse riprodurvi i verdi cupi e i brillanti, le acque diafane e il mobile riverbero del sole sulle vecchie mura. Si potrebbero immaginare davanti alle sue finestre ampie distese di lago, felici paesi, altre ville, altri giardini ridenti fra l’acqua e il cielo. Anche veduto con la sua scena solitaria e severa, il Palazzo non è triste. Fuori del recinto le sponde che guardano mezzogiorno verdeggiano di ulivi frequenti, parlano di dolci invernate: e per la gran porta aperta laggiù verso la pianura dove il sole tramonta entrano le immagini e quasi il suono della intensa vita delle opere umane; per là escono gli occhi e l’anima quando non ha bisogno di veder lontano, d’immaginare liberamente. Il Palazzo domina quel deserto con la sua grandiosità signorile: chi vi abita può credersi padrone di quanto vede, credersi un re superbo a cui nessuno osa accostarsi, i monti difendono il trono e le onde lambiscono i piedi.

— Dicono che non è male la vista qui — disse il conte entrando in loggia con Silla. — Pare anche a me sufficientemente passabile. Leggete là. — Gli additò una lapide sopra l’arco posteriore di mezzo.

Silla lesse: