Pagina:Malombra.djvu/428

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ventavan grigi essi pure, si dileguavano come fantasmi fugati dal giorno. Intanto le ondicine venivano avanti, sempre avanti, movevano in file serrate al Palazzo. E vennero a battere gorgogliando le mura, entrarono a sussurrare curiose nella darsena. Nessuna voce rispose loro. L’ala di ponente aveva tutte le finestre chiuse, ma l’altra le aveva in gran parte spalancate. Pure nemmeno da questa veniva voce nè segno alcuno di vita, benchè vi parlasse un disordine di letti sfatti, di cassetti aperti, di sedie scioccamente ritte in mezzo alle stanze; benchè vi apparisse, a una finestra del secondo piano, una figura umana pietrificata, più pallida di quell’alba.

Appena lasciato il Vezza che gli aveva partecipate certe disposizioni del conte, Silla era venuto a cadere sul davanzale della finestra. Sapeva ora che Marina non era nemmeno nominata nel testamento e che a lui il conte aveva legate le suppellettili appartenute a sua madre, una cassetta di lettere e diecimila lire a titolo di compenso per il lavoro scientifico incominciato l’anno precedente e da proseguire come e quando Silla crederebbe meglio. Ma egli non pensava a questo; guardava venire avanti lentamente il giorno, la piova, le onde. Gli occhi vedevano male: si sentiva la testa grave più del piombo, il petto voto d’ogni sentimento. Si conosceva affondato nel disonore della sua azione sleale, in una cupa necessità: legarsi a Marina, pazza o no. Ed era tranquillo, freddo sino al cuore. Il cielo, il lago, la piova vicina gli consigliavano sonno. Chiuse la finestra, si gittò vestito sul letto. Lo trovò soffice, morbido più che mai, sentì dolce come una carezza la tela del guanciale, desiderò dormire, dimenticare; si assopì e vide uno sconosciuto che lo guardava.

Lo guardava placidamente, per qualche tempo; quindi alzando le spalle e le sopracciglia, porgendo le mani aperte, scoteva il capo quasi per dire: non c’è verso. Silla credette capire, come a cosa più naturale del mondo, che colui gesticolava sì, ma non poteva parlare,