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Sulle prime l’atteggiarsi di Marina gli riusciva misterioso e sospetto; poi fu il bizzarro contegno di lei in quella sera burrascosa, che diventò nella sua memoria un enigma inesplicabile. Allora offerse a Marina un’altra stanza più gaia nell’ala sinistra del Palazzo. Marina rifiutò; si compiaceva della leggenda paurosa narrata da Giovanna. La solitudine stessa, la tristezza del vecchio Palazzo pigliavano fra le pareti della sua camera un che di fantastico e di patetico; ed ella sentiva gli occhi de’ domestici e de’ contadini che bazzicavano per casa seguire la sua persona con ammirazione mista di spavento. Ottenne invece dal conte, che alla Giovanna parve opera di stregoneria, di fare alto e basso nella sua camera a piacer suo. Ne strappò le sdrucite tappezzerie gialle e vi stese in luogo loro certi bellissimi arazzi che il conte serbava in granaio, stimandoli poco o nulla; sovrappose ai mattoni un tavolato lucido a scacchiera, cui gittò su, di fianco al letto e a piè di una greppina di velluto marrone, dei tappeti di arazzo. Il vecchio letto coronato rimase, ma la sua corte venne ruvidamente congedata. Una combriccola più pomposa di suppellettili, dame e cavalieri dell’antico regime, tutti boria e sorrisi studiati, ultimo avanzo invenduto degli splendori di casa Crusnelli, venne da Milano a pavoneggiarsi intorno al malinconico monarca.

Quando si moveva tra queste eleganze invecchiate e tetre la delicata figura di Marina nell’abito celeste a lungo strascico, che talvolta indossava per capriccio nelle sue camere, ella pareva caduta dall’affresco del soffitto, da quel cielo sereno, dal gaio seguito di un’Aurora ignuda che vi guidava i balli delle Oreadi e delle Naiadi; caduta in un tenebroso regno sotterraneo dove il suo fiore giovanile brillava ancora, ma di bellezza meno gaia e meno ingenua. Quella dea lassù, tutta rosea da capo a piedi, non aveva negli occhi come questa il fuoco della vita terrena nè il fuoco del pensiero; e benchè pigliasse