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F. S. di Crema, per spogli e traduzioni sì dal tedesco che dall’inglese, la quale ultima lingua, Steinegge, figlio di una istitutrice di Bath, conosceva perfettamente. All’arrivo di Marina il pover’uomo si era creduto in dovere di fare lo spiritoso e il galante. Tante amarezze, tante miserie patite non avean potuto spegnere del tutto in lui i sentimenti cavallereschi della sua gioventù. Era stato un ardito ufficiale, de’ primi a cavallo, de’ primi con la sciabola in pugno, de’ primi nei nobili amori; poteva egli diportarsi con Marina da scriba melenso? Si diede a sfoderarle complimenti antiquati e galanterie fuori di corso, versi di Schiller e di Goethe. Il successo non fu splendido. Marina non degnava avvedersi del segretario che per significargli con un gesto del viso, con una parola ironica, quanto poco stimasse le sue cortesie, il suo spirito, la sua vecchia e magra persona; e che, se le piaceva di essere amabile col conte, non voleva dire che lo sarebbe con tutti. Da quanto lo zio le aveva detto di Steinegge, ella lo giudicava un avventuriero volgare; a lei vissuta a Parigi tra una società spesso mescolata di queste figure torbide, il tipo non ispirava curiosità di sorta. Aveva in odio, per giunta, la lingua tedesca, lo spirito tedesco, l’amore tedesco, la musica tedesca, la gente, il paese, il nome, tutto. Diceva d’immaginare la Germania come una pipa, una enorme testa rotta di gesso, dal muso di borghese obeso, a cui bruci senza fiamma nel cervello aperto del tabacco umido, malsano, e n’escano spire di fumo denso, forme azzurrognole, mobili, dal grottesco al sentimentale, nuvolette che diventano nuvole, nuvoloni; i quali poco a poco vi calano addosso, vi avviluppano, vi tolgono di vedere e di respirare. Un giorno, mentre Steinegge le parlava con molto calore d’ideali femminili tedeschi, di Margherita e di Carlotta, ella gli disse con la sua indifferenza aristocratica: «Sa che effetto mi fanno Loro tedeschi?» E gli espose quell’amabile paragone. Mentre parlava, sul