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quest’uomo austero, sprezzatore delle lettere, delle arti, d’ogni eleganza, che le infliggeva la vergogna di nascondere, almeno in parte, l’animo suo. Ella non era nata ipocrita e fu mille volte per prorompere e dire al conte che non lo poteva soffrire, che non intendeva dovergli gratitudine alcuna, nè rispetto, nè ubbidienza. Ma non lo fece. Dopo quest’impeti frenati a fatica, pigliava Saetta e partiva, ora sola, ora col Rico, si gettava a qualche riva solitaria e saliva rapidamente la montagna con un vigore cui nessuno avrebbe attribuito alla sua graziosa persona. I contadini che la incontravano ne stupivano. Gli uomini e le ragazze la salutavano, le donne no. Dicevano tra loro che colei andava sempre per demoni di boschi e di sassi, e a messa non ci aveva mai portati i piedi: ch’era un’altra scomunicata come la Matta del Palazzo, quella di una volta.

Quando era giunta a chetare i nervi con la stanchezza, Marina ridiscendeva al lago, dove Saetta l’attendeva pazientemente, custodita spesso dal giubboncello e dalle scarpe del Rico; mentre questo operoso signore correva i dintorni a coglier frutta, o a disporre trappole per ghiri, archetti per gli uccelli, con una destrezza che tutti i monelli del paese gli invidiavano.

Curioso ragazzo, quel Rico. Era il primo de’ primi alla caccia, alla pesca, al nuoto, alle sassate e alla scuola. Leggeva e rileggeva con passione i libriccini toccati in premio e il Guerrin Meschino, principio e fine della biblioteca di famiglia. Copriva qualche volta con grande onore le funzioni di chierico della parrocchia e si vantava di declamare il suo latino come «on scior curât»; per cui passava sdegnoso e altero nella sua tonachella bianca fra la minor caterva dei sudici marmocchi ammucchiati alla balaustrata dell’altare maggiore. Ai padroni era devoto ciecamente. Diceva di voler bene prima al Signore, poi alla mamma, poi ai «sciori», poi al papà, poi alla «sciora maestra», poi al «scior curât». Non