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c’erano per lui altri «sciori» al mondo che quelli del Palazzo. Ne parlava come se fosse una cosa sola con essi, opponendo sempre «il nostro palazzo», il «nostro giardino», la «nostra lancia» alle cose di cui gli si raccontavano meraviglie. Aveva la lingua d’un passero; giuocasse, lavorasse o mangiasse, gli era uno scoppiettìo continuo di chiacchiere e di risa, salvo quando si trovava in presenza del conte, che allora ammutoliva. Conosceva tutti i pettegolezzi del paese e possedeva un fondo inesauribile di fiabe, di leggende popolari. Marina lo interrogava spesso sulle tradizioni relative alla Matta del Palazzo. Egli le raccontava in mille modi, intrecciandovi il lavoro della sua capricciosa e poetica fantasia, specialmente nella catastrofe del dramma. Un giorno l’eroina scompariva insalutato hospite, per andarsene «drizza» a casa del diavolo; un altro giorno il marito la faceva buttar giù nel Pozzo dell’Aquafonda in Val Malombra, come la gente del paese chiamava un vallone deserto della montagna di fronte al Palazzo, l’ultimo feudo di Marina, diceva lei. Ma lo scioglimento preferito dal poeta era questo: l’infelice prigioniera usciva di notte dal suo carcere attorcigliata intorno a un raggio di luna e si dileguava nell’azzurro.

Marina si divertiva di questi racconti e della cronaca del paese che il ragazzo le narrava con una mistura incredibile di malizia e d’ingenuità. Ella era da quasi un anno al Palazzo e di viaggio non si parlava. La sua salute se ne risentiva veramente. Sofferenze nervose non gravi, ma frequenti, cominciarono a travagliarla. Ella disegnò subito di trarne profitto; intanto ogni lieve distrazione le era cara, persin quelle che le fornivano le chiacchiere del Rico.

Giunse così l’aprile del 1863; giunse, nei tranquilli splendori del tramonto, una sera sinistra per Marina.

Laggiù a ponente, nubi colossali ardevano nel cielo e nel lago divisi dall’umile striscia nera dei colli; ardevano