Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/326

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libro undecimo 311

Ritengali nel sen, di vita un germe,
Così Giove tra l’Ombre anco gli onora,395
Serbano: ciascun giorno, e alternamente,
Rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,
E glorïosi al par van degli Eterni.
     Dopo costei mi si parò davanti
D’Aloéo la consorte, Ifimidéa,400
Cui di dolce d’amor nodo si strinse
Lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,
Oto a un Dio pari, e l’inclito Ifïalte,
Che la luce del Sol poco fruiro.
Nè di statura ugual, nè di beltade,405
Altri nodrì la comun madre antica,
Sol che fra tutti d’Orïon si taccia.
Non avean tocco il decim’anno ancora,
Che in largo nove cubiti, e tre volte
Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.410
Questi volendo ai sommi Dei su l’etra
Nuova portar sedizïosa guerra,
L’Ossa sovra l’Olimpo, e sovra l’Ossa
L’arborifero Pelio impor tentaro,
Onde il cielo scalar di monte in monte,415
E il fean, se i volti pubertà infiorava:
Ma di Giove il figliuolo, e di Latona
Sterminolli ambo, che del primo pelo