Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/584

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libro vigesimo 203

Mano, e intelletto la gran Dea d’Atene.
Già Venere d’Olimpo i gioghi eccelsi95
Montato avea, per dimandar le nozze
Delle fanciulle al fulminante Giove,
Che nulla ignora, e i tristi eventi, e i lieti
Conosce de’ mortali; e quelle intanto
Dalle veloci Arpíe furo rapite,100
E in balía date alle odïose Erinni.
Così d’Itaca me tolgano i Numi,
O d’un de’ dardi suoi l’oricrinita
Diana mi ferisca; ond’io ritrovi,
Benchè ne’ regni della morte, Ulisse,105
E del mio maritaggio uom non rallegri,
Che di lui fia tanto minore. Ahi lassa!
Ben regger puossi la più ria sventura,
Quando, passati lagrimando i giorni,
Le notti almen ci riconforta il sonno,110
Che su i beni l’obblio sparge, e su i mali.
Ma sogni a me fallaci un Nume invia:
E questa notte ancor mi si corcava
Da presso il mio consorte in quel sembiante,
Che avea nel dì, che su la nave ascese.115
Tacque; e sul trono d’òr l’Aurora apparve.
     Ulisse udì le lagrimose voci,
Ed in sospetto entrò, che fatta accorta