Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/622

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libro vigesimoprimo 241

Qual di garrula irondine è la voce.
Gran duolo i Proci ne sentiro, e in volto495
Trascoloraro; e con aperti segni
Fortemente tonò Giove dall’alto.
Gioì l’eroe, che di Saturno il figlio,
Di Saturno, che obliqui ha pensamenti,
Gli dimostrasse il suo favor dal cielo;500
E un aligero stral, che su la mensa
Risplendea, tolse: tutte l’altre frecce,
Che gli Achivi assaggiar dovean tra poco,
In sè chiudeale il concavo turcasso.
Posto su l’arco, ed incoccato il dardo,505
Traea seduto, siccom’era, al petto
Con la man destra il nervo: indi la mira
Tra i ferrei cerchj prese, e spinse il telo,
Che, senza quinci deviare, o quindi,
Passò tutti gli anelli alto ronzando.510
Subitamente si rivolse al figlio,
E, Telemaco, disse, il forestiero
Non ti svergogna, parmi. Io punto lunge
Dal segno non andai, nè a tender l’arco
Faticai molto: le mie forze intere515
Serbo, e non merto villanìe dai Proci.
Ma tempo è omai, che alla cadente luce
Lor s’appresti la cena; e poi si tocchi