Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/702

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libro vigesimoquarto 321

Che per forza, e valor fu sempre chiara.
     E Telemaco a lui: Padre diletto,645
Vedrai, spero, se vuoi, ch’io non traligno.
     Gioì Laerte, ed esclamò: Qual Sole
Oggi risplende in cielo, amati Numi!
Gareggian di virtù figlio, e nipote.
Giorno più bello non mi sorse mai.650
     Qui l’appressò con tali accenti in bocca
La Diva, che ne’ begli occhi azzurreggia:
O d’Arcesio figliuol, che a me più caro
Sei d’ogni altro compagno, a Giove alzati
Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo,655
Devotamente i prieghi tuoi, palleggia
Cotesta di lunga ombra asta, e l’avventa.
Così dicendo, una gran forza infuse
In Laerte Minerva. Il vecchio, a Giove
Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo,660
Alzati i prieghi, palleggiò la lunga
Sua lancia ed avventolla, e in fronte a Eupíte,
Il forte trapassando elmo di rame,
La piantò, e immerse: con gran suono Eupíte
Cadde, e gli rimbombâr l’armi di sopra.665
Si scagliaro in quel punto Ulisse, e il figlio
Contra i primieri, e con le spade scempio
Ne feano, e con le lance a doppio filo.