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rotterdam. 89

che è, ma quello che l’occhio vede, e l’occhio non vede ogni cosa; ma è difetto portato a una così meravigliosa eccellenza, che lo si ammira senza lamentarlo, e non s’osa desiderare che non ci sia. E per questo rispetto furon famosi come prodigi di pazienza il Dow, il Mieris, il Potter, il Van der Helst, e più o meno, tutti i pittori olandesi.

Ma il realismo che dà alla pittura olandese una impronta così originale, e delle qualità così ammirabili, è pure la radice dei suoi difetti più gravi. I pittori olandesi, solleciti soltanto di ritrarre la verità materiale, non danno alle loro figure che l’espressione di sentimenti fisici. Il dolore, l’amore, l’entusiasmo e i mille affetti delicatissimi che non han nome, o pigliano un nome diverso dalle diverse cagioni che li fan nascere, li esprimono raramente o non li esprimono mai. Per loro il cuore non batte, l’occhio non piange, la bocca non trema. Nei loro quadri manca tutta una parte, la più potente e la più nobile, dell’anima umana. Di più, con quel ritrarre fedelmente ogni cosa, anche il brutto, e specialmente il brutto, finiscono per esagerare anche questo, convertono i difetti in deformità, i ritratti in caricature; calunniano il tipo nazionale; danno ad ogni figura umana un aspetto sgraziato e burlesco. Per aver dove mettere queste figure, son costretti a sceglier soggetti triviali; quindi il soverchio numero di quadri che rappresentano bettole e beoni con faccie grottesche, instupidite, in atteggiamenti sguaiati, donnaccie, vecchi spregevolmente ridicoli; scene in