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DELFT. 113

fortuna. Perciò in molti luoghi la ricchezza dei proprietarii si misura dal numero dei mulini; a mulini si calcolano le eredità; di una ragazza si dice che ha uno, due mulini a vento di dote, o due mulini a vapore, che è anche meglio; e gli speculatori, che ci son da per tutto, chiedono la mano della ragazza per sposare il mulino. Questa miriade di torri alate sparse per il paese, danno alla campagna un aspetto singolare; animano la solitudine; di notte, in mezzo agli alberi, hanno un’apparenza fantastica come d’uccelli favolosi che guardino il cielo; di giorno, da lontano, paiono enormi macchine di fuochi artificiali; girano, s’arrestano, s’affrettano, si rallentano; rompono il silenzio col loro tic tac sordo e monotono; e quando per caso s’incendiano, il che non è raro, specialmente i mulini da grano, formano una rota di fiamme, una pioggia furiosa di farina accesa, un turbinio di nuvoli di foco, un tumulto, uno splendore tremendo e magnifico, che dà l’idea d’una visione infernale.

Nel vagone, benché ci fosse molta gente, non ebbi occasione di dire una parola, e neanco d’udirne. Eran tutti uomini maturi, con visi serii, che si guardavano in silenzio, gettando dei gran nuvoli di fumo a intervalli uguali, come se avessero voluto misurare il tempo col sigaro. Quando s’arrivò a Delft, scesi e salutai: qualcuno mi rispose con un leggero movimento delle labbra.

«Delft,» dice messer Ludovico Guicciardini, «si chiama così dalla fossa, o vuoi dir canale d’acque